I misteri del processo Monti e Tognetti/Capitolo XXVIII

XXVIII. Spionaggio

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XXVIII

Spionaggio.


L’avvocato sostenne la principessa che vacillava.

— Non si devono frapporre indugi, disse una voce a poca distanza da loro la sentenza deve eseguirsi immediatamente.

— E se intervenisse la grazia sovrana? soggiunse un’altra voce.

— È impossibile! riprese la prima. In questo caso la grazia sarebbe un’abdicazione. Se quei due ribaldi non venissero decapitati, manderei all’aria il mio cappello rosso.

La principessa si volse; quegli che aveva pronunciate queste ultime parole era suo cognato, il cardinale Rizzi, ch’era sceso in giardino, passeggiando con monsignor Pagni.

Essa rabbrividì fino nelle ossa, si strinse al braccio dell’avvocato, e quasi trascinandolo, fece ritorno con esso alle sale del ballo.

Passando accanto al cardinale Rizzi, aveva sentito l’orrore che si prova al contatto di un’aspide, e a quella sensazione penosa per contraccolpo era succeduto il baleno di un’improvvisa speranza.

Alla festa assisteva un altro cardinale, ch’era appunto il contrapposto di quello; era uno di quei rari esempi di tolleranza e di moderazione, che appajono come eccezioni in mezzo allo stuolo idrofobo delle eminenze e dei prelati. Il cardinale Baldoni, più che sessagenario, aveva una testa coronata di capelli bianchi, sulla quale stava impressa la serenità dell’anima. Egli doveva la porpora alla profondità de’ suoi studi teologici, che per quanto assidui, non erano giunti a isterilire del tutto il suo cuore. Si sapeva che il Papa lo stimava, e gli voleva bene, e spesso i suoi miti consigli erano riusciti bene accetti a Sua Santità; sebbene nel fatto avesse [p. 120 modifica]poi prevalso la volontà dei più accaniti clericali. Costoro disponendo dell’obolo di San Pietro, e degli arrolamenti della marmaglia mondiale, avevano acquistato un tale sopravvento nelle cose di governo, che sovente lo stesso cardinale Antonelli aveva dovuto piegarsi ai loro voleri.

Conoscendo l’indole buona del cardinale Baldoni, la principessa pensò che da lui solo si poteva ottenere una intercessione abbastanza potente per indurre il Papa a fare la grazia ai due condannati, o almeno al più giovane di essi, ch’era Tognetti.

Si avvicinò dunque al porporato, e lo pregò di passare con essa in un salottino, dove a sua richiesta li seguì anche l’avvocato Leoni.

La signora lo presentò al cardinale, come l’avvocato che aveva strenuamente difesi i due condannati a morte dalla Sacra Consulta, poi espose con tutto il calore la domanda, ch’essa medesima gli faceva in nome di lui. Tutto ciò che può dettare la passione a una donna essa lo disse; l’avvocato aggiunse tutte le ragioni, che la giurisprudenza e la logica suggerivano, per consigliare la grazia sovrana in quella occasione.

Egli fece osservare a Sua Eminenza come Monti e Tognetti non potessero dirsi autori principali del delitto di Lesa Maestà, pel quale erano stati condannati, non potendo essi venir considerati altrimenti che come agenti subalterni della ribellione, e perciò non dovevano essere puniti colla pena capitale; tanto più che la condanna, non solo non era stata pronunciata all’unanimità, ma era stata anzi decisa da una debolissima maggioranza. Che Tognetti in ispecie, stando anche all’accusa, non avrebbe avuto nel fatto che una parte del tutto secondaria, e militava poi anche a suo favore la giovane età di ventitrè anni.

Il cardinale Baldoni ascoltò attentamente, stette alquanto rensoso in silenzio. Poi prese una mano della principessa e una dell’avvocato, le strinse colle sue disse:

— Domani io mi presenterò a Sua Santità; e tutto quanto è possibile per ottenere la grazia dei due condannati, o almeno del solo Tognetti, io lo dirò, e lo farò. Pregate il Signore perchè mi assista.

La principessa e l’avvocato, con moto spontaneo e concorde, si abbassarono a baciare le mani del cardinale, ch’era in quel momento il sacerdote vero dell’amore e del perdono.

La principessa Rizzi non aveva chiusa la porta del gabinetto per non destare sospetti, e credendo che nessuno sarebbe stato tanto indiscreto da scrutare il segreto di quel colloquio.

Ma ella si era ingannata.

Il cavaliere Marini era, come sappiamo, nella festa. Quell’uomo possedeva un istinto poliziesco tutto speciale, un colpo d’occhio da vero inquisitore: erano queste le qualità che lo distinguevano, e che avevano fatto di lui il processante pontificio per eccellenza. [p. 121 modifica]

Con queste facoltà naturali perfezionate da un lungo esercizio, esso era arrivato a un tal punto di percezione subitanea, che nulla, di quanto si diceva o si operava intorno a lui, gli sfuggiva. Coglieva a volo le frasi, vedeva colla coda dell’occhio, e a forza di raziocinii istantanei penetrava nell’intima ragione dei fatti.

Egli si accorse dunque delle parole che la principessa rivolse al cardinale Baldoni, quando essa lo pregò di accompagnarla nel gabinetto; e ne aveva indovinato istintivamente il motivo.

Quando poi vide la signora ritirarsi in compagnia del cardinale, e seguirli l’avvocato Leoni, non ebbe più dubbio sull’oggetto di quella conferenza, e passando più volte innanzi alla porta del gabinetto, vi ficcò dentro lo sguardo; vide l’avvocato parlare con calore, mentre la principessa era atteggiata alle preghiere, di più intese pronunziare il nome di Tognetti, e infine vide lo slancio con cui i due supplicanti avevano attestata la loro riconoscenza al cardinale.

Era ormai cosa evidente per il giudice processante. L’avvocato e la principessa avevano pregato l’eminentissimo Baldoni, perchè chiedesse al Papa la grazia dei due condannati a morte, ed esso aveva acconsentito. A’ suoi occhi era quella una specie di complotto, che metteva in pericolo il governo, la religione, e più ancora il compimento dell’edifizio processuale da lui con tanta fatica innalzato, e che doveva essere coronato con due capi recisi.

Quelle tre persone non erano ancora uscite dal gabinetto, che il cavaliere Marini, correndo a rompicollo giù per la scala della loggia, scendeva in giardino per dare avviso della sua scoperta al cardinale Rizzi. Questi inorridì alla sola idea che i due ribelli potessero andar salvi dalla morte, che un suo collega, una delle colonne di Santa Madre Chiesa, potesse proporne la grazia al Pontefice. Pensò che non v’era tempo da perdere per scongiurare un tanto pericolo. Ringraziò fervorosamente il giudice processante: e senza risalire nelle sale, fece venire la sua carrozza, e non ostante che fosse notte inoltrata comandò al cocchiere di condurlo al Gesù, celebre convento dei gesuiti romani.