I minatori dell'Alaska/XIV - Ancora Coda Screziata

XIV — Ancora Coda Screziata

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XIII — Assediati da una famiglia di orsi XV — La caccia ai bisonti

XIV — ANCORA CODA SCREZIATA


Mezz'ora dopo, Bennie e Armando, a metà collina, ritrovavano lo scotennato e Back, i quali, avendo notata la direzione delle detonazioni, si erano affrettati a salire attraverso i boschi. Vivamente preoccupati dalla prolungata assenza dei due cacciatori, avevano vegliato buona parte della notte, poi si erano messi in cerca di loro, ma una detonazione che avevano udito verso la cima d'un'alta collina li aveva messi sulla falsa strada, dirigendo i loro passi da quella parte. Probabilmente quel colpo di fucile era stato sparato dal misterioso cacciatore che più tardi aveva uccisa l'orsa, da Coda Screziata, se i sospetti di Bennie non erano infondati, e forse con lo scopo di impedire al messicano e al meccanico di portare soccorso agli assediati e di metterli su una falsa pista. Non essendo tranquilli per la vicinanza di quel pericoloso avversario, i cercatori d'oro decisero di prendere subito il largo e raggiungere al più presto la grande catena delle Montagne Rocciose, certi che Coda Screziata non li avrebbe seguiti fino là! Avrebbero desiderato fermarsi alcuni giorni per scuoiare i due orsi e seccare un po' di quella carne eccellente, però il timore di qualche sgradevole sorpresa li costrinse ad affrettare la partenza, e a sgombrare il territorio di caccia delle Teste Piatte. Alle dieci del mattino, dopo una squisita colazione di tetraoni, sapientemente allestita dal vecchio scorridore, si rimisero in sella, piegando definitivamente verso ovest per giungere ai primi contrafforti della gigantesca catena delle Montagne Rocciose. Oltrepassate le collinette, il paese era ritornato piano, con poche ondulazioni. Era un succedersi continuo di piccole praterie interrotte da boschetti di betulle, pini, abeti, frassini rossi e neri, popolati da miriadi di piccioni selvatici, che si alzavano in stormi immensi, volteggiando di pianura in pianura. Dei grossi torrenti, tutti affluenti del Peace, solcavano quei terreni lussureggianti, scorrendo, come immensi nastri di argento, verso mezzogiorno; molto probabilmente ricchi di pesci, poiché in quelle regioni le grosse trote bianche che raggiungono il peso di trenta e più libbre, le trote di montagna squisitissime, le trote salmonate, i lucci, i barbi e i pesci a crine di cavallo come vengono chiamati, sono comunissimi e forniscono un abbondante nutrimento alle tribù indiane che scorrazzano quei vasti e così poco popolati territori, limitati all'est dalla regione dei laghi, e all'ovest, dalla maestosa catena delle Montagne Rocciose.

Spronati i mustani, i quattro cavalieri, sempre seguiti dagli altri due cavalli che portavano gli attrezzi da minatori, attraversarono una prateria ondulata e giunsero al margine di un bosco formato da grosse piante, la cui corteccia aveva una bella tinta rossastra. Bennie scese da cavallo, facendo segno ai suoi compagni di imitarlo, poi, mentre Back s'incaricava di accendere il fuoco e di rizzare la tenda, avendo deciso di fermarsi là fino al giorno dopo, s'inoltrò nel bosco seguito da Armando e dal meccanico.

— È qui che c'è la fontana dalle acque dolci?... — chiese Armando.

— Sì, — risposero il meccanico e Bennie ridendo.

— E dove si trova?

— È nascosta nel tronco di questi alberi — disse il cow-boy.

— Volete scherzare?...

— Niente affatto, chiedete a vostro zio.

— Bennie dice la verità, — rispose il meccanico.

— Oh!... Sarebbe curiosa!...

— Aspettate che costruisca alcuni recipienti, poi vi farò assaggiare l'acqua zuccherata.

— E dove troverete dei recipienti?...

— Gli indiani trovano qui l'occorrente per la raccolta del liquido. Guardate: ecco una bella betulla che fa per noi.

Il cow-boy si avvicinò ad un albero, una betulla alta e grossa, prese il coltello e staccò alcune larghe strisce di corteccia solida, e contemporaneamente assai pieghevole e in pochi istanti fabbricò una specie di imbuto che poteva contenere comodamente quattro galloni di liquido.

— Vedete che è cosa facile, — disse il cow-boy, continuando a strappare altri pezzi di corteccia. — Da queste betulle gli indiani sanno ricavare perfino dei leggeri canotti, capaci di portare quattro o cinque persone, e con i quali osano sfidare le cascate dei grossi fiumi. Io mi accontenterò di ottenere tre o quattro recipienti e alcuni canaletti che mi serviranno da grondaie.

— E per farne cosa?

— Oh!... Che curioso!... Ora lo saprete.

Costruiti i quattro imbuti e piegati alcuni pezzi di corteccia in forma semirotonda, si avvicinò a un grosso albero dalla corteccia rossastra, e col coltello lo incise profondamente. Ciò fatto, cacciò nel taglio la sua grondaia, vi appese sotto uno dei suoi recipienti e rinnovò la strana operazione su altre tre piante.

— La stagione è propizia, — disse, quand'ebbe finito. — È nella primavera che gli indiani vengono a fare le loro raccolte di zucchero e più le giornate sono calde, più ne ottengono, poiché il calore aumenta il flusso della linfa. Guardate, Armando!...

Il giovanotto si accostò con curiosità a una di quelle piante e vide uscire dal canaletto che il cow-boy vi aveva innestato, un getto liquido, il quale si raccoglieva nel recipiente sottostante con sufficiente rapidità. Bennie immerse la sua tazza di pelle e riempitala di quella linfa la porse ad Armando, dicendogli:

— Bevete senza economia. Prima di domani questa pianta ci avrà dato circa tre galloni di liquido.

Armando l'assaggiò, poi la bevette avidamente con viva soddisfazione, dicendo:

— Sembra acqua con miele.

— Eccellente, dunque?...

— Deliziosa, signor Bennie.

— Sapete come si chiamano questi alberi?...

— No davvero.

— Sono aceri.

— Ah!... Ho già sentito parlare degli aceri.

— E avrete anche usato dello zucchero ricavato da queste piante, credendolo estratto da vere canne da zucchero. Se ne fa ancora un buon consumo in queste regioni. La produzione un tempo era straordinaria, e da queste piante si ricavano migliaia di dollari, è vero signor Falcone?

— Potete dire dei milioni — rispose il meccanico. — Il Canada ne esportava centinaia e centinaia di tonnellate. Ora questa industria non viene esercitata che dalle tribù indiane.

— Ogni pianta produce molto succo, signor Bennie? — chiese Armando.

— Un buon acero dà in media circa venti galloni di succo.

— E quanto succo occorre per ricavare un chilogrammo di zucchero?...

— Otto o nove galloni.

— E la perdita di tanta linfa non nuoce alla pianta?...

— No, poiché continua a darne anche negli anni seguenti e con eguale abbondanza.

— Una bella fortuna per gli indiani!...

— Pensate che ogni indiano, aiutato dalla famiglia, durante la primavera non raccoglie meno di seicento libbre di zucchero.

— E come si estrae?

— Facendo bollire il succo e lasciandolo poi raffreddare. Domani ve lo farò assaggiare, poiché ci fermeremo qui qualche giorno, per farne una discreta raccolta. Siamo molto scarsi di zucchero e il thè amaro non mi garba troppo. Lasciamo che gli alberi continuino a secernere liquido e andiamo a fare colazione. Più tardi, faremo altri recipienti e metteremo in opera le pentole.

Fecero ritorno al campo, dove ebbero la grata sorpresa di trovare la colazione pronta. Divorarono con molto appetito l'ultimo tetraone, unitamente ad un cane di prateria che avevano avuto la fortuna di abbattere al mattino, gustando molto la delicatissima carne che rassomiglia a quella di un vitellino da latte, poi si sdraiarono comodamente sotto la fresca ombra di un gruppo di alberi per fumare una pipata di tabacco e fare quattro chiacchiere. Armando, però, che non poteva star fermo, aveva approfittato di quel po' di riposo per visitare il margine della foresta, avendo rilevato non poche tracce di daini mooses, ossia, mangiatori di legno, così chiamati perché hanno l'abitudine di mangiare i giovani rami dei salici e degli aceri rigati. Sperando di sorprenderne qualcuno, si cacciò nella foresta per fare uno splendido regalo al suo amico Bennie, avendo questi più volte vantata la squisitezza della loro carne. Passando con precauzione di acero in acero, e fermandosi di frequente ad ascoltare, si era già allontanato dal campo circa mezzo miglio, quando credette di udire, verso le rive di un piccolo lago, o meglio di uno stagno, dei rami muoversi. Essendo i rami molto folti, e abbondando i salici e i cespugli, non potè subito vedere di che cosa si trattasse, e stette fermo ad ascoltare. Rimase immobile alcuni minuti col dito sul grilletto del fucile, pronto a far fuoco, poi, non udendo nulla, si mise a strisciare in direzione dello stagno convinto ormai che fra i cespugli si nascondesse qualche capo di selvaggina. Già non distava dalla riva più di cinquanta passi, quando vide dei rami agitarsi.

— È nascosto là sotto — mormorò.

Alzò lentamente il fucile, e credendo di scorgere un'ombra fra il fogliame, fece fuoco. La detonazione era appena cessata, quando udì echeggiare un grido che pareva avesse qualcosa di umano, poi vide le alte cime agitarsi rapidamente, come se qualcuno cercasse di aprirsi impetuosamente il passo, poi più nulla.

— Mille merluzzi!... — esclamò il giovanotto, diventando pallido. — Che abbia ucciso qualche indiano?... Era un grido umano!

Stette qualche istante indeciso, temendo di cadere in qualche agguato, poi, non udendo più alcun rumore, e non vedendo agitarsi i cespugli, introdusse nel fucile una nuova cartuccia, quindi si diresse là dove aveva creduto di scorgere quella forma imprecisata. Scostando con precauzione i cespugli, si trovò ben presto presso un giovane salice, il cui tronco era stato spezzato nettamente all'altezza di un uomo.

— È stato reciso dalla mia palla, — mormorò.

Si guardò intorno e scorse fra le erbe alcune stille di sangue non ancora coagulate.

— Qualcuno è stato colpito — disse. — Era un uomo o un animale?... Non vorrei avere ucciso qualche povera Testa Piatta inoffensiva.

Vedendo innanzi a sè una specie di largo solco aperto fra i cespugli e i rami dei salici, vi si inoltrò per continuare le ricerche e ritrovò più oltre gocce di sangue, poi seminascosta fra le erbe una di quelle formidabili scuri di guerra usate dagli indiani, lasciata certamente cadere dal ferito.

— Non c'è più alcun dubbio — disse Armando, mortificato. — Credendo di far fuoco contro un daino, ho colpito un indiano. Che questa avventura disgraziata ci attiri addosso qualche brutto malanno?... Animo, torniamo al campo!...

Raccolse la scure, girò all'intorno uno sguardo inquieto, poi si allontanò rapidamente attraverso la foresta degli aceri, ansioso di raggiungere i compagni. Già non distava dal campo che poche centinaia di passi, quando udì sulla sua destra dei formidabili: «Corna di bisonte» accompagnati da una filza d'imprecazioni.

— È l'amico Bennie!... — esclamò. — Pare che sia infuriato.

Si diresse da quella parte e scorse il cow-boy occupato a scaraventare a destra ed a sinistra, con vero furore, i grandi imbuti che aveva appesi agli aceri per raccogliere il dolce succo.

— Ehi!... Signor Bennie, che cosa fate?... — chiese Armando, con stupore.

— Corna di bisonte!... — urlò il cow-boy. — Vorrei sapere chi è stato quel furfante che ci ha fatto questo brutto tiro!...

— Che cos'è successo?...

— Mi hanno rovesciati i recipienti che a quest'ora dovevano essere già pieni.

— E chi?...

— Chi?... Chi?... Lo so io?...

— Qualche animale forse?...

— Sì, a due gambe però. Corna di cervo!... Deve essere stato lui!...

— Coda Screziata forse?...

— Sì, quel cane che si ostina a seguirci — urlò il cow-boy, sempre più incollerito. — Bisognerà che mi decida a stanarlo, o non ci lascerà mai più tranquilli.

— Possibile che ci segua ancora?...

— Ne ho la convinzione, Armando. Chi volete che si sia data la pena di farci questo dispetto?...

— Mille merluzzi!... Che abbia fatto fuoco su di lui?...

— Cosa dite?... — chiese Bennie, guardandolo. — Avete fatto fuoco su di lui?...

— Sì, signor Bennie. Credendo di abbattere un daino, ho ferito un indiano che fuggiva.

— Ah!... Ferito solamente?...

— Sì, poiché non sono stato capace di scoprirlo.

— Siete certo che fosse un indiano?...

— Ho raccolto il suo tomahawk.

— Datemelo!... — esclamò il cow-boy.

Armando s'affrettò a raggiungere lo scorridore, e gli porse la scure che aveva trovata nella macchia.

— Corna di bufalo!... — esclamò Bennie. — È il tomahawk di Coda Screziata.

— Come lo sapete?...

— Guardate, amico: ecco qui sul manico, dipinta una coda.

— È vero, signor Bennie; quel furfante ci segue ancora.

— Armando, bisogna sbarazzarci di quell'uomo o perderlo, poiché può, quando meno ce l'aspettiamo, piombarci addosso e scotennarci a tradimento.

— Che cosa intendete fare?... Andarlo a cercare?...

— Perderemmo troppo tempo e forse inutilmente, essendovi in questa regione troppi boschi. Noi lanceremo i cavalli a gran galoppo e cercheremo di fargli perdere le nostre tracce.

— Partiamo subito?...

— Credo sia la miglior cosa.

— E il nostro zucchero?...

— Ne faremo a meno, se non ne troveremo fra le Teste Piatte.