I divoratori/Libro primo/II
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II.
Un febbraio mite moriva blandamente sulla campagna inglese, quando marzo irruppe con urli di vento e scrosciar di pioggie. Respinse i diffidenti boccioli e il trepido verdeggiare; e via, fischiando per le lande villanamente, se ne andò. La stagione si fermò, timida e intirizzita.
Una mattina, ecco Primavera far capolino sopra le siepi. Scappò presto inseguita dal vento; ma gettò, fuggendo, una manata di crochi, e lasciò anche cadere una primola o due. Più tardi tornò piano, tra due acquazzoni, a dare una occhiata in giro... E all’improvviso, un giorno, eccola: alta, flava e inghirlandata! Gli astri di brina si sciolsero ai suoi piedi, e le allodole si lanciarono nei cieli.
Valeria chiese a prestito da Edith il suo grande cappello da giardino, lo legò sotto il mento con un nastro nero, e uscì nel giovane sole, attraverso la campagna di smeraldo.
Intorno, la lucentezza della verzura nuova si spingeva appassionatamente verso l’adolescente azzurro del cielo. E Tom era morto.
Tom giaceva nelle tenebre, lontano da tutto ciò, sotto la terra del piccolo cimitero di Nervi, dove il mare, che egli aveva tanto amato, scintillava e danzava a pochi passi dai suoi occhi chiusi, dal suo cuore immoto, dalle sue mani incrociate.
Ah, le mani incrociate di Tom! Ecco l’unica cosa che ella potesse rammemorare di lui quando, chiudendo gli occhi, tentava di rievocarlo.
Non le riusciva di veder altro. Per quanto ella si provasse, concentrandosi, con occhi chiusi ed appassionata volontà, rievocarne il viso — ahimè! i cari, noti lineamenti si confondevano, si dileguavano, e nulla restava davanti a lei che quelle tristi mani scolorate, quali le aveva vedute per l’ultima volta. Terribili, inavvicinabili mani!
Erano quelle, le mani di cui Tom aveva sempre avuto tanta cura? di cui si era compiaciuto con ingenua vanità? quelle, le mani che ella aveva accarezzate, poggiando sovr’esse la guancia? Il solo pensarlo le faceva paura. Quelle mani fisse, finite, rinunzianti, erano dunque le mani che avevano dipinto i delicati paesaggi d’Italia, che ella aveva amato, e gli altri quadri che ella aveva aborrito, perchè in tutti appariva la perlata nudità della bionda modella di Trastevere? Quelle, le mani che remavano nella barca «Luisa» sul Lago Maggiore, conducendo lei e lo zio Giacomo all’Isola Bella? Le mani che improvvisamente avevano afferrate le sue, una mattina alla Madonna del Monte — quella mattina che ella portava un vestito celeste col colletto alla marinara e una cravatta rossa...
Le pareva ancora di vederlo fermarsi subitamente davanti alla Quinta Cappella e dire, con quel suo strano e caro accento inglese: «Volete essere sposina mia?» Ed ella si era messa a ridere, e gli aveva risposto in inglese, colle sole tre parole che sapeva e che egli stesso le aveva insegnate attraverso la table-d’hôte — : «Yes. Please. Thank-you!»
Poi, avevano riso tutt’e due, tanto, che lo zio Giacomo aveva detto che la Madonna li punirebbe.
E la Madonna li aveva puniti. Lo aveva fulminato nel suo venticinquesimo anno, pochi mesi dopo il loro matrimonio, spezzandogli la giovinezza come una bolla di cristallo. A Valeria era toccato udirlo tossire, giorno per giorno, notte per notte, tossire, tossire, tossire; distaccandosi dalla vita a piccoli colpi di tosse secca, e raspamenti di gola; e più tardi in terribili parossismi che lo lasciavano estenuato e senza respiro; e poi in una tosse molle e facile a cui egli quasi non badava più. Erano corsi da Firenze dove c’era troppo vento, a Nervi dove c’era troppo caldo; da Nizza dove c’era troppo rumore, ad Airolo dove c’era troppo silenzio; finalmente, con un impeto di speranza, con un affrettato raccogliere di scialli e pastrani di pennelli e colori, di pattini e ski, erano partiti per Davos.
E a Davos brillava il sole — e nacque béby! Tom Avory usciva con pattini o «bobsleigh» ogni mattina, e in otto settimane era cresciuto di peso quasi tre chili.
Ecco che un giorno una signora americana, di cui il figlio era moribondo, disse a Valeria:
— Non è bene per la vostra piccina di stare quassù. Mandatela via da Davos; o quando avrà quindici anni comincierà a tossire anche lei.
«Mandatela via!» Sicuro; bisognava mandar via béby. Valeria capiva che bisognava fare così. Sentiva lei pure che lo stormo di microbi che usciva da tutti quei polmoni malati la ravvolgevano, lei e la sua creatura, in un nembo di morte. I germi dell’etisia! essa li sentiva, li vedeva, li respirava. Le pareva che l’odore ne fosse sul suo guanciale la notte; che le lenzuola e le coltri li esalassero; che il cibo ne fosse pregno. Poco le importava per sè; ella si sentiva forte e sana. Ma la sua creatura! Quel fragile fiore del suo sangue, era anche del sangue di Tom! Tutti i fratelli e le sorelle di Tom, meno una sola — una ragazzetta chiamata Edith, che viveva in Hertfordshire — tutti eran morti nell’adolescenza: uno a Bournemouth, uno a Torquay, uno a Cannes, una — la piccola Sally, la sorella prediletta di Tom — a Nervi. Tutti erano morti, fuggendo la morte che portavano in seno. Ora Davos aveva salvato Tom. Ma bisognava mandar via la piccina.
Chiesero consiglio a due dottori. L’uno disse: «Eh! si sa!...» e l’altro disse: «Eh! non si sa!...»
Tom e Valeria decisero di non correre rischi. Una mattinata nevosa, si misero tutti in viaggio per Landquart; ivi Tom doveva lasciarle proseguire da sole, il dottore avendogli raccomandato di tornare subito a Davos. Ma a Landquart la bambina piangeva, e Valeria piangeva; dunque Tom saltò nel treno con loro e disse che le accompagnerebbe fino a Zurigo; colà lo zio Giacomo sarebbe venuto a prenderle per condurle in Italia.
— Allora sarete sane e salve, mie due povere scioccherelle sperse, — disse, cingendole tutt'e due con braccio protettore, mentre il treno li portava giù verso le nebbie. E porse alla sua piccolissima bimba un dito, a cui la minuscola mano si avviticchiò.
Ma Tom non arrivò mai a Zurigo. Ciò che vi arrivò era una forma inerte e terribile, colle membra abbandonate e la bocca piena di sangue.
Valeria pianse, e la bambina pianse; e una folla di impiegati e di curiosi si radunò intorno a loro. La bambina pianse, e Valeria pianse; ma Tom non poteva più consolare le sue due povere scioccherelle sperse.
Gli trovarono nella tasca il testamento:
«Valeria, my darling; lascio a te tutti i miei beni terreni. Conduci in Inghilterra la bambina. Fammi seppellire a Nervi, vicino a Sally. Mi hai reso molto felice. — Tom.»
...Questi erano i ricordi di Valeria, mentre camminava nel mite sole inglese, e piangeva amaramente sotto l'ala del vecchio cappello di Edith.
Giunta ad un ponticello gettato sopra un torrente, Valeria si fermò, appoggiandosi al parapetto; e, come si sporgeva a guardar giù, il cappello di Edith le cadde dalla testa, battè sull'acqua e seguì il filo rapido della corrente.
Valeria lo rincorse lungo la sponda, ma il cappello, girando in mezzo all’acqua, si fermò contro un sasso sporgente. Valeria gettò dei fuscelli e dei ciottoli per farlo muovere, e finalmente, galleggiante e frivolo, esso riprese la sua via... Valeria corse lungo la sponda in pendìo, scivolando sull’erba bagnata e sui sassi umidi; e il cappello sobbalzava e dondolava laggiù, sulle minuscole onde, con un lungo nastro nero teso dietro di sè, come un magro braccio invocante.
Dove il torrente piegava verso un bosco di faggi il cappello girò con esso, e dietro al cappello Valeria.
A un tratto un’esclamazione di sorpresa la fece trasalire; e alzando il viso accaldato vide sull’altra sponda un giovane alto, biondo e abbronzato, che pescava.
— Accidenti! — esclamò lo sconosciuto, alla vista del galleggiante adornamento. — Addio, trota!
E Valeria, timidamente:
— Scusi, potrebbe ripescarmi il cappello?
Il giovane rise e salutò. Poi a grande stento riuscì a fermare il cappello colla canna, attirandolo a sè con pazienti manovre.
— Ahi, quella mia grossa trota! — mormorò. — Da tre giorni — tre lunghi giorni! — le stavo dietro, e adesso era lì...! Basta! — sospirò, e trascinò fuor dall’acqua l’inzuppato copricapo. — Ecco il vostro cappello!
Lo sollevò con due dita, tenendolo pel nastro sgocciolante.
Non era mai stato un bel cappello: era anzi una vecchia e orribile pastorella che Edith portava, protestando, da molto tempo. Certo non pareva un oggetto pel quale valesse la pena di pescare tre giorni.
— Oh, grazie tanto! — disse Valeria. — Ma, adesso come faccio a prenderlo? — E tese, dalla sua sponda, sopra l’acqua larga che li separava, una piccola mano, breve e vana.
— Glielo porterò io, — disse il giovane, tenendo ancora a braccio teso la sgocciolante acconciatura.
— Oh, non si disturbi, — disse Valeria, — me lo può gettare!
Il giovane rise.
— Stia indietro, allora; se la tocca, le darà il raffreddore!
E con gesto allegro scagliò il cappello, che cadde floscio e molle ai piedi di Valeria.
— Dio, che roba! — disse lei, raccogliendolo; e con fronte turbata contemplò la guarnizione di tulle nero che pendeva madida e lamentevole dal bordo. — E adesso cosa ne faccio? Metterlo è impossibile. E se m’arrampico su per queste rive, così ripide e sdrucciole, non credo neppure di poterlo portare in mano...
— Ebbene, me lo torni a gettar qui, — disse il giovane ridendo, — e lo porterò io fino al ponte.
Allora ella, prendendolo ben di mira, gli gettò in pieno petto il pesante e malinconico oggetto; poi si avviarono, ognuno dalla sua parte dell’acqua, e camminarono così, sorridendosi da una riva all’altra. Sul ponte s’incontrarono e si stesero la mano.
— Mi spiace tanto per la sua trota, — disse lei. —
— Mi spiace tanto pei suo cappello, — disse lui.
E risero entrambi. Poi non seppero più che cosa dirsi.
Egli, allora, vedendole i riccioletti umidi sulla fronte bianca, e le fossette nelle guancie, soggiunse:
— E domani che cosa si metterà in capo... quando viene qui?
— Domani? — domandò lei, alzando due occhi ingenui.
— Sì, domani. Verrà, nevvero? — disse egli, ed arrossì un poco, perchè era assai giovane. — A quest’ora, vuole? — E guardò l’orologio. — Alle undici, dunque...
A quelle parole anche Valeria arrossì. Ma d’un rossore avvampante ed improvviso che poi le lasciò subito la faccia lattea di pallore.
— Le undici! Sono le undici? — esclamò con gli occhi larghi ed esterrefatti.
— Sì. Ma che cos’ha? Perchè si agita?
— Mio Dio! Il béby! — fece lei ansante. — Ho dimenticato il béby! — e senz’altro si volse e corse via traverso i prati, con i riccioli al vento, e col cappello inzuppato che le batteva sulla gonna nera.
Giunse a casa trafelata e pallida. Vide la nurse, rigida ed aspettante, sulla terrazza.
— Sono in ritardo, Wilson? — balbettò lei.
— Sissignora, — disse la serva, con voce aspra e severa. — Molto in ritardo.
— Oh Dio! e béby? Ha pianto? — chiese Valeria ansante. — Come sta? Cosa fa la mia creatura?...
— La sua creatura — disse la donna austera — ha fame.