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10 annie vivanti


lasciavano estenuato e senza respiro; e poi in una tosse molle e facile a cui egli quasi non badava più. Erano corsi da Firenze dove c’era troppo vento, a Nervi dove c’era troppo caldo; da Nizza dove c’era troppo rumore, ad Airolo dove c’era troppo silenzio; finalmente, con un impeto di speranza, con un affrettato raccogliere di scialli e pastrani di pennelli e colori, di pattini e ski, erano partiti per Davos.

E a Davos brillava il sole — e nacque béby! Tom Avory usciva con pattini o «bobsleigh» ogni mattina, e in otto settimane era cresciuto di peso quasi tre chili.

Ecco che un giorno una signora americana, di cui il figlio era moribondo, disse a Valeria:

— Non è bene per la vostra piccina di stare quassù. Mandatela via da Davos; o quando avrà quindici anni comincierà a tossire anche lei.

«Mandatela via!» Sicuro; bisognava mandar via béby. Valeria capiva che bisognava fare così. Sentiva lei pure che lo stormo di microbi che usciva da tutti quei polmoni malati la ravvolgevano, lei e la sua creatura, in un nembo di morte. I germi dell’etisia! essa li sentiva, li vedeva, li respirava. Le pareva che l’odore ne fosse sul suo guanciale la notte; che le lenzuola e le coltri li esalassero; che il cibo ne fosse pregno. Poco le importava per sè; ella si sentiva forte e sana. Ma la sua creatura! Quel fragile fiore del suo sangue, era anche del sangue di Tom! Tutti i fratelli e le sorelle di Tom, meno una sola — una ragazzetta chiamata Edith, che viveva in Hertfordshire — tutti eran morti nell’adolescenza: uno a Bournemouth, uno a Torquay, uno a Cannes, una — la piccola Sally, la sorella prediletta di Tom — a Nervi. Tutti erano morti, fuggendo la morte che portavano in seno. Ora Davos aveva salvato Tom. Ma bisognava mandar via la piccina.

Chiesero consiglio a due dottori. L’uno disse: «Eh! si sa!...» e l’altro disse: «Eh! non si sa!...»