I conti di Ventimiglia, il priorato di San Michele e il principato di Seborga/Capo II

Capo II

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Capo I Appendice
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CAPO II


Noi rivolgeremo ora i nostri sguardi a quella piccola terra di Seborga assai più tardi decorata dai monaci del titolo di principato e divenuto il dominio più cospicuo dell’Abbazia di Lerino in queste contrade.

La guerra accanita contro i Conti di Ventimiglia mossa dai Genovesi or sordamente e per intringhi ed or coll’armi a viso aperto, come da noi si è già brevemente esposto, avea finito col ghermire a quella famiglia l’avito potere sulla città e diminuirlo d’assai nel contado: ma al tempo stesso avea pure impedito il progredire prosperoso del Monastero di S. Michele. Ma come l’incuria dei monaci li avea danneggiati a Ventimiglia, così altre cause e di difficile riparo arrecavano danni assai maggiori ai loro poderi a Seborga. Erano usurpazioni dei possessori confinanti che occupavano terreni, che svellevano i boschi, che saccheggiavano i campi e ne derubavano i frutti, mentre l’autorità monastica, perchè lontana e perchè monastica, già fin d’allora provava difficoltà ad ottenere giustizia.

Era però ovvio il ravvisare in quei fatti l’opera dei Genovesi che ogni altro potere in quello contrade vedeano di mal occhio e mettevano ogni arte e usavano mezzi anche meschini pur di riuscire a scemarlo alquanto. Già varie volte aveano cercato di sottoporre i terrazzani di Seborga a tributo di denaro e di persona, come le altre terre vicine di loro dipendenza già pagavano. Il monastero resisteva e poi troviamo nel 1272 una dichiara dal medesimo promossa1, [p. 52 modifica]di sette testi che individualmente affermano con giuramento innanzi Simone Panzani, podestà di Ventimiglia, quod castrum sebulcaris et territorium ipsius sunt ecclesiae sancti Mich. de Vintimilio pertinentis ad monasterium sancti honorati Lirinensis et quod omnis iurisdicio et omne dominium ipsius castri expectant pertinent ad ecclesiam sancti Mick. iam dicti ed inoltre dichiarano quod Com. Jan. et Com. Vinct. sunt sine eo quod habeant aliquam iurisdictionen in dicto castro subulcaris vel in eius territorio et quod homines dicti castri sunt et fuerunt liberi et immunes ab omni mandato et bannimento Com. Jan. et Vinct, et semper fuerunt inrequisiti ire in exercitu eorum.

Pare che Genova e Ventimiglia dovessero rinunziare a queste loro pretese poichè alcun altro atto su tale proposito più non s’incontra.

Fu verso quest’epoca, nel 1288, che i monaci a meglio tenere le possessioni già loro in Saborga, comprarono ivi per il prezzo di 28 lire genovesi un podere detto La Braia2, e questo colla casa abbaziale conservò tal nome fino ad oggi e servì di residenza al podestà e ai monaci e fu anzi il palazzo della Zecca quando questa vi fu più tardi stabilita.

Ma la decadenza dei religiosi ora allora principiata e la situazione finanziaria di essi non dovea esser troppo florida, da quanto ne risulta dai documenti. Essi avean dovuto contrarre un imprestito e dare apzi a pegno la loro signoria di Seborga ad un certo signor Tedisio Tana, probabilmente di Chieri. Per pagare alla scadenza questo debito di 6 lire genoresi e per svincolare Seborga avean avuto ricorso al sacerdote Vivaldo Grassino, cappellano della Chiesa di S. [p. 53 modifica]Antonio in Genova, che avea dato tale somma ad imprestito con obbligo verbale dei monaci; nel 1298 il priore Sycard lo rimborsava3.

Ma non passarono molti anni senza che di puovo fossero costretti di indebitarsi. Si rivolsero ai marchesi Doria per mezzo del priore Ugo Raymondo nel 13174. Questo fatto è giunto fino a noi per la cessione di questo credito di 190 lire genovesi fatta nel 1345 dal marchese Morfello Doria di Dolceaqua al proprio fratello Oliviero, marchese d’Apricale.

Ma i debiti del monastero in quel frattempo non facevano che aumentare e la miseria degli abitanti di Seborga erasi fatta tale che era necessità il provvedervi a qualunque costo. Cosi nell’anno 1584 i buoni religiosi per venire in aiuto ai loro vassalli e poter sopperire alle proprie strettezze risolsero di contrarre nuovamente un oneroso imprestito. Lo contrattarono colla Repubblica stessa di Genova, veri, iusti ac finiti pretii scutorum mille auri in auro Italiae boni auri iusti ponderis ac stamparum. Il reverendo D. Benedictus de Venetys, abbate della Congregazione di monte Cassino e Antonio da Nizza, decano celerario di quel monastero, per gli uni e Giac. de Franchis e Battista Negroni per gli altri, fecero questo contratto.

Il monastero dichiarava, quod indiget aliquibus pecuniarum summis pro subventione urgentium necessitatum earunden nec non et pro suffragio subditorum dicti Abbatis conventus et monasterii dicti loci Sebolci. Esso prometteva alla Repubblica un censo annuo di 50 scudi d’oro e, a garanzia, ipotecavano la terra di Seborga con ogni suo [p. 54 modifica]diritto: Locum subulci seu sepulchri cum eius territorio et districtu, eiusdemque dirictum dominium, tam in spiritualibus quam in temporalibus, nec non et fortalitia, villas, terras, territoria et pertinencias quascumque, cum hominibus, vassallis, omagiis, vassalorumque redditibus, angarijs, perangarijs, fructibus, introitibus, censibus, decimis, albergaris, domibus, edificijs, terris, pratis, hortis, montibus, planis, nemoribus, molendinis tam a grano quam ab oleo, communalibus, gabellis, dacitis, pedagijs, passibus, pascuis, franchicijs, immunitatibus, privilegijs regalibus, acquis acquarumque decursibus, fluminibus, venationibus, pescationibus et cum tanco iustitiae civilis et criminalis ac mixto meroque imperio, gladij potestate. Nel caso in cui il monastero non avesse soddisfatto al censo, la Repubblica avea diritto di pagarsi da sè, esigendo direttamente i redditi di qualunque specie da Seborga e infine di far sua l’intiera signoria, beni e giurisdizione. Tali erano le condizioni del contratto, ma si trattara di soccorrere all’indigenza della popolazione; ed infatti i monaci con atti del 29 luglio e 9 sett. di quell’anno imprestavano, paterna pastorali ac patronorum ducti affectione, la maggior parte di quella somma individualmente a quasi ognuno dei terrazzani di Seborga, onde potessero alla lor volta pagare i propri debiti, quorum nexibus valde stringantur. Non fu poi che all’epoca della vendita di Seborga a Casa Savoia che questo debito fu estinto anzi perdonato a quel popolo sempre maggiormente impoveritosi.

Gioverà ora sapere quali erano i diritti che al monastero competevano sui loro vassalli. Si hanno su tale oggetto varie pergamene, ma ci contenteremo di arrecare un solo documento come esempio, poichè sebbene le piccole differenze nell’esercizio delle decime che gli abitanti dovean soddisfare fossero questione di gran momento per loro e pel monastero, [p. 55 modifica]l’enunciato di esse nelle sentenze e transazioni non varia abbastanza, perchè noi di quelle differenze ci occupiamo con profitto. Ci siamo dunque contentati di trascrivere l’atto del 3 dicembre 13945.

Il Capitolo di Lerino riunito nella chiesa di S. Onorato ratifica quanto fu fatto dal priore di San Michele, Giovanni di Ventimiglia. Gli abitanti di Seborga si riconoscono homines dicti monasterii e si dichiarano tenuti a certe prestazioni, cioè alla decima del grano, orzo, fave o segala. Riconoscono il detto priore di S. Michele, finchè sarà investito di tale dignità, come loro signore, promettendo di nulla fare o lasciar fare contro di lui, e di difenderlo anzi con ogni loro potere. Il priore prometteva al tempo stesso di proteggerli, di non muover contro loro querele o giudizi, di non pretendere cosa alcuna oltre il pattuito, che per gli altri cereali, per i fichi, il vino, l’uva et aliis leguminibus, avrebbero la più completa libertà nel disporne. Giuravano sul Vangelo di osservare questo patto. Tali erano le prestazioni ed obbligazioni del contratto, ma frequenti discussioni sorgevano su di esse e il più delle volte a mezzo di transazioni anche temporarie si finivano, il priore. facendo sempre riserva dei vari diritti del monastero. Nel 1325 gli abitanti si obbligano a pagare la nona parte di ogni grano e frutta. Nel 1425 il priore o gli abitanti transigono per la decima sebbene il monastero pretendesse la nona. Nel 1439 si fa altra transazione. Gli abitanti saranno tenuti, oltre la decima, a lavorare pel podere La Braia a ragione di due giornate per paio di buoi e per uomo al disopra dei 20 anni. Nel 1475 altra transazione. Oltre questi concordati per le decime citeremo qui un atto del 1427 di prestazione [p. 56 modifica]d’omaggio e fedeltà da un tal Oberto Someria di Prelà, che erasi stabilito nel paese di Seborga, per sè e per i beni che ivi possiede; egli promette debitam et puram fidelitatem et homagium6; poi l’atto di omaggio che gli abitanti prestano nel 1469 al ven. Fr. Nicolao di Ventimiglia d’Aurigo, priore di S. Michele7. Giurano sul Vangelo di essergli fedeli e leali, promettono che non saranno causa che per loro fatto il detto priore perda la vita o un membro, impediranno ogni atto che possa essergli pregiudizievole, denuncieranno qualunque simil fatto che potrà da essi sapersi, manterranno i segreti che loro si affidassoro dal medesimo, gli daranno buoni consigli e lo aiuteranno a conservare tutti i diritti od onori che gli sono dovuti. Il priore dal canto suo, dietro loro domanda, prometteva, ponendo manus suas super pectum suum per modum solemni iuramenti, di non pretender da essi più della decima parte dei cereali, secondo la vecchia usanza.

Oltre a queste rendite il priorato area anche quelle provenienti dall’affittamento dei beni particolari del priorato in questa terra. Noi abbiamo trascritti due atti di locazione di quest’epoca 1405 a 1441. Il primo si fa dal priore Pellizopo8.

Si espone in esso che non potendo il priore per cause giuste e ragionevoli e specialmente per la lontananza di quei beni sorvegliarli a dovere e di presenza, egli affitta a Giovanni di Ventimiglia, monaco di S.t Onorato, priore di S. Maria di Virgys, tutti i beni e redditi del Priorato di S. Michele nella città e nella diocesi di Ventimiglia, per la durata di [p. 57 modifica]nove anni, per il prezzo di 10 fiorini in ragione di 25 soldi per fiorino di Genova.

Col secondo atto Giorgio di Ventimiglia, priore di S. Michele9, affitta a diversi particolari di Vallebuona e a Giovanni di Ventimiglia le terre, case e proventi specificati e siti in Seborga, fra i quali il podere della Braia, nonchè le decime che gli abitanti devono al monastero ed il diritto alla metà delle bandite e pascoli di detto luogo e le prestazioni in natura con buoi e personalmente pel lavoro dei grani e delle viti; così pure i diritti e proventi del podere di Massatorta e vari diritti di bassa giustizia. Erano eccettuati quelli di alta giustizia e quelli di podestaria . Il prezzo della locazione era fissato a 105 lire.

Noi vedremo in documenti posteriori riprodotti con maggiori particolari la specificazione dei redditi tutti del priorato a Seborga.

I documenti ora presi ad esaminare ci hanno condotto alla metà del secolo xvi.

Cominciò allora l’età dei dubbi, delle usurpazioni, delle rivendicazioni.

È l’anno 1583. L’abbate ed il Capitolo di Lerino dirigono alla Republica di Genova una rimostranza contro le genti di Vallebona che continuamente commettono usurpazioni e guasti sui beni della Seborga, poichè oltre l’atterrare alberi, si sono perfino permessi d’imprigionare sudditi del monastero perchè questi scacciavano dalle proprie terre il bestiame di quei di Vallebona che vi pascolavano e producevano gravi guasti. Il Capitano di Ventimiglia, una specie di Governatore per la Repubblica, non pareva prendersi gran fastidio di questi reclami, e si pregava il Senato di mandar [p. 58 modifica]ordini al detto capitano perchè di conserva cogli agenti del monastero si facessero cessare i guai lamentati e si dessero le indennità a chi di ragione.

Nel 1585, 7 maggio, abbiamo la stessa querela. L’abbate si dirige al Doge e alla Republica perchè questa nomini commissari che si rechino alla Seborga e sul posto prendano in esame le usurpazioni di cui sono vittima i beni del monastero, specialmente alla regione del Cuneo, dacchè gli abitanti di S. Remo e Vallebona, sudditi genovesi, poco a poco s’impadroniscono di quei beni che con i loro confinano.

Per contrario noi leggiamo che quello stesso: anno ai 2 di novembre il Comune di S. Remo muoveva lagnanze al Podestà della Seborga in nome dei canonici di quella città contro vari sudditi del monastero che possedono beni al Cuneo sul territorio genovese e rifiutano di pagare le decime ai canonici. Due anni trascorrono ed ai 19 febbraio 1587 i monaci rinnovano alla Repubblica la loro domanda di mandare commissari per verificare le usurpazioni commesse. Indi non è più solo contro quei di S. Remo ma ben anche contro quei di Ventimiglia che muovono querela e specialmente per l’usurpazione dei Mulini dei Gorretti.

Nel 1614 noi vediamo la stesso podestà di Ventimiglia rivolgersi al Capitano della città, perchè quei di Vallebona distruggono i boschi della Seborga.

Insomma il monastero di Lerino vede in tutto usurpazioni. Persino nel 1624 il Vescovo di Ventimiglia vuol visitare la chiesa di Seborga e di S. Michele. I monaci vi si oppongono e ne appellano al Pontefice. È una lunga contesa e solo nel 1725 si ottiene una transazione. Il vescovo potrà ogni tre anni visitare quelle chiese, ma s’egli giudicherà ne[p. 59 modifica]cessaria alcuna riparazione, non ne darà l’ordine direttamente, ma per via del parroco del luogo ne sarà dato avviso all’economo del monastero, che vi provvederà.

Frattanto tutti quei molti reclami contro i luoghi confinanti alla Seborga non avevano arrecato alcun effetto e l’abbate di Lerino nel 1625 iniziò un processo formale contro il Comune di S. Remo per la montagna del Cuneo ed il braccio secolare essendo impotente a metter freno ai danni che commettevansi contro gli uomini e terre del monastero, il Capitolo provò finalmente di ricorrere alle armi religiose e al medesimo tempo si rivolse direttamente alla Santa Sede. Urbano VIII, volendo render ragione alle querele dei monaci, delegò i Vescovi di Nizza, Albenga e Grasse perchè giudicassero sui dissensi insorti per i beni del Cuneo.

Per ultimo verso il 1678 il monastero fece perfino un ricorso al Governo di Francia rivolgendosi al Chevalier de Rouille, comte de Meshay, conseiller du Roi de France, maître des Requêtes, intendant de la Justice, Police et Finance en Provence. Tali sono i suoi titoli. Il monastero richiedeva che il Re di Francia facesse rispettare i diritti spirituali e temporali della Signoria di Seborga dipendenti dall’isola di sant’Onorato, specialmente per ciò che spettava alla Montagna di Cuneo, contro gli abitanti di Ventimiglia, S. Remo e Valbona.

Neppur con ciò i poveri monaci riuscivano ad ottenere giustizia in favore dei vassalli del loro principato di Seborga.

Vediamo ora dalle carte dei tempi in che cosa consistesse questo loro feudo.

Il suo territorio dai confini di Rocca Scura a Colla Croce avea in lunghezza una distesa di circa 4 miglia, ma buona parte di esso era stato invaso nel modo che abbiamo veduto. Metà del territorio era occupato da boschi di pino, di [p. 60 modifica] castagni e di faggi. Dell’altra metà la maggior parte rimaneva quasi incolta per difetto di braccia per coltivarla a cereali, ed anche per la miseria e lo scoraggiamento dei suoi abitatori che da molti anni eran divenuti così infingardi ed inoperosi, che invece di applicarsi colla necessaria costanza a dissodare e coltivare le loro terre, le abbandonavano incolte e preferivano emigrare un sei mesi dell’anno in altri paesi ove il guadagno fosse più facile e sicuro e quindi ritornavano a casa a consumare in gozzoviglie quanto aveano potuto avanzare lavorando all’estero. Tali sono i lamenti che sulla condotta dei loro vassalli si fanno dai monaci: e diffatti così stando le cose facilmente si capisce che non potessero farsi pagare le decime dovute. Queste in quest’epoca consistevano per gli abitatori oriundi di Seborga nel tredicesimo dei raccolti, per quei di Vallebona che possedevano terre a Seborga nel novesimo. Il diritto del macinate era del sedicesimo, quello del forno del 32, quello del torchio del 4. I diritti di laudemio per vendita o permuta erano del 8%.

La popolazione dividevasi in 40 fuochi e si componeva di 190 individui, oltre le famiglie di Vallebona. Il paese era circondato da mura, ma molte delle case erano pressochè inabitabili. Un rapporto del Podestà dell’anno 1640 dice che la maggior parte di esse eran costrutte con fango al posto della calce, Il solo edifizio che avesse apparenza signorile era il palazzo abbaziale ricostrutto pochi anni prima con una spesa di 3200 lire. Era aggregato al palazzo un piccolo podere detto la Braia che dava il reddito di circa 200 lire. Non lungi era la chiesa parrocchiale dedicata a S. Martino, da poco costrutta e la casa parrocchiale. Li presso stavano il forno, il molino ad olio, il torchio per le uve. Fuori le mura erano il molino a grani di recente costru[p. 61 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/65 [p. 62 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/66 [p. 63 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/67 [p. 64 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/68 [p. 65 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/69 [p. 66 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/70 [p. 67 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/71 [p. 68 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/72 [p. 69 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/73 [p. 70 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/74 [p. 71 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/75 [p. 72 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/76 [p. 73 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/77 [p. 74 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/78 [p. 75 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/79 [p. 76 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/80 [p. 77 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/81 [p. 78 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/82 [p. 79 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/83 [p. 80 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/84 [p. 81 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/85 [p. 82 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/86 [p. 83 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/87 [p. 84 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/88 [p. 85 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/89 [p. 86 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/90 [p. 87 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/91 [p. 88 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/92 [p. 89 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/93 [p. 90 modifica]Pagina:Cais di Pierlas - I conti di Ventimiglia.pdf/94

  1. Doc. 30.
  2. Doc. 32.
  3. Doc. 33.
  4. Doc. 35.
  5. Doc. 36.
  6. Doc. 38.
  7. Doc. 40.
  8. Doc. 37.
  9. Doc. 39.