I cacciatori di foche della baia di Baffin/12. Il deserto di neve

12. Il deserto di neve

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CAPITOLO XII.

Il deserto di neve.


L
’indomani, verso il mezzodì, i naufraghi della Shannon abbandonavano quelle sponde per intraprendere il lungo viaggio al fiord del deposito dei balenieri.

Il cielo si era un po’ rischiarato, ma delle masse vaporose, che si addensavano sull’orizzonte, promettevano un’abbondante nevicata. Il sole non si era fatto vedere; invece il freddo era diventato più acuto, gelando un grande tratto della baia di Baffin.

Superato l’alto bastione, aiutando Grinnell che era ancora debole, si misero animosamente in marcia seguendo la costa, non volendo allontanarsi dalle vicinanze del mare per avere la possibilità di provvedersi più facilmente di selvaggina, soprattutto di qualche foca o di qualche morsa, animali che non si trovano nell’interno delle terre.

Quelle numerose pianure, coperte di neve gelata, senza una pianta, senza una roccia, senza una macchia di diverso colore su cui riposare gli sguardi abbagliati da quella candida bianchezza, producevano una tristezza profonda sugli animi dei disgraziati naufraghi. [p. 222 modifica]

Persino mastro Tyndhall, l’ardito navigatore di quei mari perduti sui confini del mondo abitato, già da lunghi anni abituato a percorrere quelle regioni dei ghiacci e delle nevi, si sentiva indosso un vivo malessere nel guardare quelle lande sconfinate che si estendevano al di là del circolo artico, sulle quali fra breve dovevano accumularsi altre nevi, altri ghiacci ed altre nebbie e poi doveva scendere quella lunga e tenebrosa notte polare, lo spauracchio di tutti i naviganti.

La via era aspra, ma nessuno si arrestava, nè nessuno esitava. Scalavano animosamente i cumuli di neve, i ghiaccioni vomitati sin là dai ghiacciai delle vallate celate entro i profondi fiords, si calavano nei crepacci aperti fra le rupi, s’arrampicavano sulle coste e dove trovavano una superficie liscia, si mettevano a scivolare per guadagnare pochi passi di più. La paura di venire sorpresi dai tremendi uragani del polo senza un rifugio, e di dover lottare colla fame in mezzo a quei freddi, li spronava ad avanzare ed a superare tutti gli ostacoli.

Ormai sapevano che se non giungevano al deposito dei balenieri prima delle grandi nevicate, non sarebbero sfuggiti alla morte.

Quella marcia penosa si prolungò fino alle sei di sera e l’avrebbero continuata, se Grinnell non avesse dichiarato di non poter più reggersi in piedi.

Rizzarono la tenda contro un masso di ghiaccio che incrostava una grande rupe e vi si cacciarono sotto per prepararsi la magra cena consistente in un po’ di pemmican e negli ultimi biscotti. La mancanza di un po’ di liquido caldo, dopo quella marcia fatta con un freddo di -10°, riusciva penosa, quantunque quegli uomini fossero abituati alle privazioni da lunga pezza, ma non possedevano la più piccola lampada per prepararsi un [p. 223 modifica] buon brodo col pemmican e mancavano per di più di legna o di alcool.

La notte fu cattivissima. Cadeva la neve a larghe falde sull’immensa pianura e soffiava un vento gelido che scendeva dalle regioni polari. La tenda più volte fu abbattuta e quei disgraziati furono parecchie volte coperti dalla neve, accumulatasi sopra quel debole riparo.

I ghiacci della costa non stettero un minuto silenziosi. Di tratto in tratto tuonavano come se si spezzassero violentemente e Tyndhall udì anche quei muggiti paurosi prodotti dalle pressioni.

Guai se invece di porsi in riparo sull’altipiano, si fossero trovati ancora sui banchi!... Forse qualcuno ci avrebbe lasciata la vita.

Quando i naufraghi decisero di riporsi in marcia, continuava a nevicare ed il vento, cresciuto di violenza, sollevava furiosamente il bianco strato spingendolo innanzi in forma d’immense cortine.

Non era forse prudente avventurarsi su quell’immensa pianura spazzata dall’uragano, ma i minuti erano preziosi e non vi era da scegliere fra il pericolo di smarrirsi e quello di morire di fame.

Mastro Tyndhall si era messo alla testa e marciava colla bussola in mano, non riuscendo più a scorgere la costa fra quei continui turbini di neve, che il vento ora sollevava a grande altezza ed ora abbatteva con estrema violenza. Infagottati nelle loro pellicce, col cappuccio calato sul viso per difendere il naso dalle congelazioni, quei disgraziati procedevano a casaccio, avvolti in una specie di nebbia prodotta dall’evaporazione dell’umidità dei loro corpi e cogli occhi gonfi e lagrimosi pel freddo che diventava sempre più acuto.

Marciavano nondimeno con una specie di accanimento, [p. 224 modifica] coll’unica intenzione di guadagnare via, per diminuire la distanza, forse immensa, che ancora li divideva dal deposito dei balenieri, unica loro salvezza.

Alle dieci del mattino incontrarono un profondo fiord che pareva si addentrasse entro terra per parecchie miglia. Non sentendosi in grado di girarlo, scesero fra mille pericoli le pareti tagliate quasi a picco, aiutandosi l’un l’altro e servendosi degli arpioni per non rotolare fino in fondo, dove si sarebbero infallantemente fracassate le ossa.

La superficie del fiord era gelata e permetteva la traversata. Tyndhall stava per scandagliare lo spessore del ghiaccio, quando, a cinquanta passi dalla sponda, scorse una macchia oscura apparire sull’orlo di un foro di forma circolare.

– Fermi, ragazzi!... esclamò. Abbiamo una foca!...

– Dove? chiesero i marinai.

– È venuta a respirare in questo momento, sull’orlo di quel buco.

– Non lasciamola sfuggire, mastro, disse Charchot. Ci somministrerà del grasso per prepararci il pemmican.

– Avete ancora le pentole di ferro?

– Le tengo io, rispose Mac-Chanty.

– Seguimi, Charchot, e voi riparatevi sotto quella roccia gelata e trattenete il cane. La foca non tarderà a riapparire, se vorrà respirare e la uccideremo con un buon colpo di rampone.

Mentre i marinai s’affrettavano a ricoverarsi sotto la roccia per difendersi dalla neve che continuava a cadere, il mastro e Charchot, armatisi di due ramponi, si misero a strisciare sulla gelata superficie del fiord, accostandosi al buco che l’anfibio si era aperto per venire a respirare. [p. 225 modifica]

– Guarda giù, Charchot, disse Tyndhall, sottovoce.

– State pronto a colpirla.

– Non temere.

Il marinaio si curvò guardando entro il buco, ma subito si trasse indietro. Aveva scorto attraverso l’acqua, che era ancora limpida, un’ombra apparire presso l’orlo inferiore del ghiaccio e poi subito calare a picco.

– L’hai veduta? chiese Tyndhall.

– Sì, mastro, ma si è inabissata.

– Non importa, tornerà a mostrarsi, se non vuole morire asfissiata.

Mentre Charchot spiava l’acqua, impugnò il rampone e si tenne pronto a colpire, stringendo nella sinistra la fune legata all’asta.

Passò un minuto lungo come un’ora pei due marinai; poi entro il buco si udì un leggero gorgoglìo seguìto da un respiro tosto represso.

Il mastro, scorgendo emergere una testa rotonda, rapido come il lampo abbassò la fiocina, senza abbandonare la fune. Entro il buco echeggiò un acuto gemito, e l’arma sparve sott’acqua, mentre intorno all’apertura si allargava una macchia di sangue.

– A me, camerati! urlò Tyndhall.

Charchot e gli altri, che si erano lentamente avvicinati, afferrarono la fune e si misero a tirare con tutte le loro forze.

Poco dopo riappariva il rampone e quindi la foca, la quale fu tosto issata sul ghiaccio.

Era un vecchio beack-master, ossia una foca della famiglia delle otarie, colla testa rassomigliante un po’ a quella dei cani, cogli occhi grandi, colle orecchie appena visibili, non avendo che un principio di materia cartilaginosa, sola cosa che distingue le otarie dalle altre [p. 226 modifica] foche, le quali non hanno per orecchi che una semplice apertura. Era lungo due metri e abbastanza grasso quel vecchio solitario ed aveva ricevuto il colpo di rampone sul collo in modo da riportare la frattura completa della spina dorsale.

Fu tosto trascinato sotto la rupe e Mac-Chanty, che possedeva una scure, si affrettò a farlo a pezzi, senza prendersi la briga di scuoiarlo.

Furono messi da parte il cuore ed il cervello, due bocconi discreti, poi venne raccolto con cura minuziosa il grasso, che era assai abbondante. La carne che è nera, di sapore oleoso, non fu però gettata via; poteva tornare di grande vantaggio, malgrado la sua ripugnanza, a uomini che possedevano così scarsi viveri.

Essendo il tempo sempre cattivo ed essendo tutti intirizziti dal freddo, rizzarono la tenda contro la rupe, assicurandola con dei massi di ghiaccio onde potesse meglio resistere ai soffi impetuosi del vento e si affrettarono ad accendere un po’ di fuoco.

Non fu una cosa nè lunga, nè difficile. Un pezzo di canapa cacciato entro la pentola di ferro colma di grasso, bastò per produrre una bella fiamma, di poco inferiore a quella che avrebbe data una lampada ad alcool.

Fusa della neve nella seconda pentola, i marinai vi misero dentro alcune manate di pemmican, miscuglio composto di carne di bue prima ben seccata, poi pestata fino ad essere ridotta in briciole e quindi mescolata con del grasso e che dà un brodo eccellente dopo pochi minuti di bollitura.

Quella sera i naufraghi della Shannon, dopo tre giorni di privazioni e di marcie sotto un freddo glaciale, poterono regalarsi una buona zuppa bollente e dormire sotto una tenda discretamente riscaldata.