I briganti del Riff/20. A bordo della Numancia

20. A bordo della Numancia

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20.

A BORDO DELLA NUMANCIA


I riffani, compiuta la strage, rimontavano l'altipiano a gran galoppo, per raggiungere i loro duars e farsi curare le ferite d'arme bianca e di colpi di fuoco. Molti, anzi moltissimi, portavano dei cadaveri attraverso alla sella per seppellirli intorno alle cube, avendo l'abitudine di non lasciare quasi mai i loro compagni nelle mani dei nemici.

— Il vento ci spinge proprio verso la montagna? — chiese Zamora. — Mi sembra che il pallone sia immobile.

— Ed invece corriamo più rapidi dei cavalli — rispose Carminillo. — E l'aria è appena mossa; se soffiasse vento in poche ore saremmo sulla cima della montagna.

— La Numancia!... — esclamò in quel momento Pedro, che osservava dappertutto.

— Che cos'è? — chiese Carminillo.

— Il nome del pallone. È impresso a fuoco sulle casse e sui bordi della navicella.

— I nostri compatrioti le hanno dato il nome d'uno dei nostri migliori incrociatori.

— E che cosa sarà avvenuto degli ufficiali che lo montavano? — chiese Pedro.

— È quello che mi domando anch'io — rispose Carminillo. — Udendo combattere nella gola saranno scesi per rendersi esatto conto di quanto accadeva, allontanandosi imprudentemente dal pallone. Anche quei valorosi, sorpresi dai riffani, devono essere stati assassinati e poi precipitati nell'abisso.

— Hanno commessa una vera imprudenza.

— Non lo nego, Pedro. Potevano lasciare qualcuno sul pallone. Maledetta guerra che spegne tanta gioventù!...

— Ed allora lascia che i briganti scendano in Melilla, massacrino la nostra guarnigione, rapiscano le nostre donne ed i nostri fanciulli e che saccheggino ed incendino.

— È vero — disse Pedro. — Talvolta è una vera necessità. Ah!... Carramba!... E la cassa, che cosa contiene?

— Dei viveri e delle bottiglie.

— Che sia proprio la volta che io possa levarmi la fame e la sete? Corpo d'un cane rognoso!... L'ho sempre fatta ben magra sul Riff.

Aveva aperta la cassa e frugava avidamente dentro. Vi erano quattro bottiglie che pareva contenessero dell'Alicante o del Malaga, poi dei biscotti, due polli arrostiti, tre rivoltelle e parecchi pacchi di tabacco con relativa carta.

— Peccato che quel massacro mi abbia guastato l'appetito! — sospirò Pedro. — È meglio che beva. Un boccone non potrebbe scendere nel mio stomaco, almeno per ora.

— E nemmeno nel mio — disse Carminillo. — Vuoi un po' di pollo, Zamora?

— Mangerò quando mangerete voi — rispose la gitana.

Vi erano nella cassa dei bicchieri ed un paio di cavatappi. Pedro, che si sentiva alquanto debole, sturò una bottiglia piena di squisito Alicante e servì i compagni.

— Al trionfo delle armi spagnole! — esclamò Carminillo, toccando i bicchieri.

— Che si riprendano una grossa rivincita? — chiese Pedro.

— Sono già ai piedi del Gurugù. Ciò vuol dire che hanno respinto i riffani dai dintorni di Melilla.

— Cercheranno essi di occupare la montagna?

— Ne sono più che certo — rispose Carminillo. — Tutti i più grandi duars, ed i più popolosi villaggi si trovano nelle vallate, e se i nostri riusciranno a distruggerli tutti, i briganti finiranno col deporre le armi, non ostante la loro testardaggine.

— Noi giungeremo i primi lassù.

— Il vento tende ad aumentare, la Numancia affretta la corsa.

— E Janko? E la Strega dei Vènti? Abbiamo dimenticato l'uno e l'altra.

— Non crederlo, señor — disse la gitana. — Penso continuamente a loro.

— Che salgano anch'essi il Gurugù per ricercare il totem?

— Io ne sono quasi convinto, — dichiarò Carminillo — ma giungeranno troppo tardi. Solo col disegno tracciato sul fazzoletto, che io porto sul petto, si può scoprire la tomba del primo re degli zingari, e Janko non lo possiede né ha mai pensato a rapirmelo.

— Credi di scoprirla quella sepoltura? — chiese Pedro.

— Certo — rispose Carminillo.

— Purché il pallone non si abbassi prima di aver raggiunta la cima del Gurugù.

— È troppo ben fornito di gas.

— A quale altezza siamo?

— A circa duemila metri.

— Mi pare che vi sia della nebbia sul monte — disse Pedro.

— È vero, amico, e perciò prendo le mie misure per discendere prima che il vento schiacci la Numancia contro qualche picco. Vi è l'altra àncora?

— Sì, Carminillo.

— Legala saldamente alla fune, poi cala tutto.

— Anche la scala?

— Anche quella.

— Non vuoi passare dunque sopra la punta del Gurugù?

— Niente affatto. Ci sarebbe troppo da faticare poi a scendere i fianchi che si dice siano quasi tagliati a picco.

Snodò una funicella che era legata intorno al cerchione della navicella e diede un forte strappo.

— Che cosa fai, Carminillo? — chiese Pedro.

— Vuoto il pallone — rispose l'ingegnere, il quale si era affrettato a gettare via la sigaretta. — Vi raccomando di non accendere fiammiferi, poiché sulle nostre teste vi è una specie di polveriera pronta a scoppiare.

— Sfido io!... È gas quello che scappa!... Bell'affare se prendesse fuoco.

La Numancia per cinque o sei minuti mantenne la sua altezza, poi cominciò ad abbassarsi con un largo dondolìo. L'idrogeno sfuggiva rapidamente attraverso la valvola di sicurezza appestando l'aria, e delle lunghe pieghe cominciavano a formarsi nella seta.

Pedro, aiutato dalla gitana, la quale voleva essere sempre utile in qualche cosa, aveva già gettata l'ancora ed anche la scala. Il vento era aumentato e trascinava l'aerostato in una corsa piuttosto violenta.

— Millenovecento... milleottocento... mille e seicento — disse Carminillo, il quale non staccava gli occhi dai due barometri appesi ai bordi della navicella.

— Scendiamo rapidamente.

— Non ci romperemo le gambe urtando contro le rocce? — chiese Pedro, a cui quell'odore acuto di gas dava molta noia.

— Non credo — rispose Carminillo.

— Hai fatto anche l'aerostiere, tu?

— No, ma un ingegnere deve intendersi un po' di queste cose.

La Numancia aveva fatto un altro salto in discesa, dondolandosi sempre in modo un po' inquietante.

— Mille metri — disse Carminillo. — Fra dieci o quindici minuti noi saremo a terra.

— Non si vede più nulla.

— È nebbia folta. Meglio per noi, amico, così i briganti non ci vedranno scendere.

— E noi non vedremo dove caleremo.

— Io spero che l'ancora sarà gettata prima che il vento ci porti sulla più alta cima del Gurugù.

— Sai, Carminillo, che ho un po' di paura dell'atterramento.

— Tutti gli aeronauti non si sentono proprio tranquilli quando cominciano la discesa, e perciò i tuoi timori sono più che scusabili. Neppure io sono perfettamente calmo.

— Speriamo che tutto vada bene e che non troviamo subito dei briganti pronti a saltarci addosso. È vero che ora possediamo tre buone rivoltelle e parecchie scatole di cartucce.

— Dove caleremo non troveremo anima viva — rispose Carminillo, lasciando andare la corda della valvola, per evitare un urto troppo brusco.

La Numancia si dibatteva in mezzo a ondate di nebbia, le quali l'assalivano da tutte le parti, aumentando, colla loro umidità, rapidamente il suo peso. Dondolava sempre in modo inquietante, e vi erano certi momenti in cui pareva che volesse precipitare tutto d'un colpo e schiacciarsi contro il suolo.

Carminillo cercava invano di orizzontarsi. Dove si trovavano in quel momento? Era impossibile saperlo, se il sole non accorreva, insieme al vento, a dileguare quelle masse di vapori.

— Io credo che anche la zona dei boschi l'abbiamo superata — disse. — Cadremo quindi su un terreno scoperto e tutto andrà bene se non incontreremo delle rocce.

La Numancia, quantunque ormai quasi vuota, sorretta dal vento, continuava a discendere rapidamente.

Ad un tratto avvenne un urto, che parve dovesse strappare tutta la rete e disarticolare la navicella di vimini.

Pedro e la gitana stavano per slanciarsi verso il cerchio, quando Carminillo, con un grido, li trattenne.

— L'ancora ha fatto presa!... Il pallone ormai non scappa più!...

— Possiamo scendere?

— Aspetta che lasci prima fuggire il gas.

— Lo vuoti del tutto?

— È necessario, Pedro... Prendete i viveri, le armi, il tabacco, queste tre coperte di lana che sono ammucchiate in quell'angolo e scendiamo.

— Non dimentichiamo i nostri yatagan — disse la gitana. — Ci potrebbero essere più utili delle armi da fuoco. Ed anche quella lampada.

— Hai ragione, Zamora — rispose Carminillo. — Ci serviranno per scavare la terra... Se siete pronti, andiamo.

Scavalcò pel primo la navicella, portando la sua parte di carico, e si mise a scendere rapidamente la scala. In meno di mezzo minuto fu a terra.

Come aveva previsto, l'ancora si era impegnata saldamente fra un gruppo di rocce. Intorno non gli parve di scorgere nessuna pianta d'alto fusto.

— Dove siamo? — chiese Pedro. — Nel mondo della luna?

— In mezzo a delle pietre, a quanto pare — rispose Carminillo. — Finché la nebbia non se ne andrà non potremo saper nulla.

— Potrai poi trovare il luogo dove si trova sepolto quel famoso totem col relativo re mummificato?

— Ne sono quasi sicuro. Le bussole della navicella mi aiuteranno molto per orientarmi sulle linee tracciate sul fazzoletto.

Gli studenti e la gitana avevano lasciato il cumolo di pietre, dopo d'essersi però bene accertati dell'ancora, e trovato uno spazio abbastanza piano, stesero le coperte di lana, accesero la lampada a grosso riflettore che doveva servire agli ufficiali aerostieri per fare delle segnalazioni.

Si misero a mangiare i polli ed i biscotti, senza più pensare né a Siza Babà, né a Janko, né ai banditi della montagna che potevano, invece, approfittando della nebbia, accostarsi inosservati e fare una brutta sorpresa.

Intanto il pallone si dibatteva fra le ultime strette dell'agonia, a cinquanta metri dall'accampamento. Le sue pieghe si affondavano sempre più, allungandosi smisuratamente verso la navicella, e dalla valvola gli ultimi rimasugli d'idrogeno sfuggivano, scoppiettando e appestando l'aria.

I due fuggiaschi, che stavano terminando la loro cena, inaffiata da una bottiglia di Malaga, videro la Numancia dibattersi ancora tre o quattro volte, avvolgersi quasi tutto su se stesso, poi rovinare bruscamente al suolo come un enorme masso di stracci, spaccando la navicella contro la punta d'una roccia.

— Meno male che noi non ci trovavamo nella cesta — disse Pedro, poiché ormai non vi era nessun pericolo di provocare alcun scoppio. — Non so come si troverebbero a quest'ora le nostre povere gambe. Carrai!... Ha picchiato sodo sulla roccia!... Scommetterei che anche le due casse sono state sventrate. E gli strumenti non si saranno infranti?

— Ho avuto la precauzione di prendere con me una bussola prima di atterrare — dichiarò Carminillo.

Così scherzando e fumando, gli studenti cercavano d'ingannare il tempo in attesa che quel nebbione si sciogliesse, e che il sole facesse la sua ricomparsa.

Faceva un po' freddo sull'alta montagna, ed il vento soffiava alquanto violento, rumoreggiando e scrosciando dentro le boscaglie di querce e di sugheri.

Verso le quattro del mattino le nebbie, lacerate da una poderosa raffica che saliva impetuosamente dall'altipiano, cominciarono a dileguarsi. L'astro diurno stava per sorgere.

Il mare verso Melilla, cominciava a luccicare, prendendo le tinte del ferro per passare poi rapidamente a quelle dell'oro.

La luce s'avanzava scompigliando e dileguando le tenebre, e nel cielo, che si tingeva di rosa, sfilavano grossi stormi di cicogne dal becco lungo e le penne bianche.

La montagna si delineava chiaramente, coi suoi fianchi rocciosi tagliati in certi punti a picco, e colle sue cime ardite, dalle quali i riffani per molti secoli avevano guardata impunemente la piccola fortezza spagnola.

Carminillo aveva gettata la sigaretta ed aveva estratto la bussola e il famoso fazzoletto di seta, ancora ben conservato, malgrado i suoi duecento e più anni.

Lo aveva spiegato sulla coperta di lana e lo osservava attentamente.

— E li capisci, tu, tutti quegli sgorbi? — chiese Pedro, il quale osservava con viva curiosità quell'anticaglia.

— Io credo di averli decifrati e senza tema d'ingannarmi — rispose il giovane ingegnere. — Sono quasi tre mesi che mi rompo la testa su questo rebus, è vero, Zamora?

— Sì, mio señor — disse la gitana, con voce dolcissima.

— E tu sei certo di poterti orientare? — chiese Pedro.

— Colla bussola sì.

— Sarà lontana quella sepoltura?

— Meno di quanto crediamo. Premetto che non la troveremo oggi, poiché io devo far molte osservazioni sotto la terza punta del Gurugù, che è segnata distintamente sul fazzoletto.

— Oh, non vedi quel quadro bianco che spicca così vivamente sul fondo grigio delle rocce, tre o quattrocento metri più in su di noi? — chiese Pedro.

— Si tratta di una cuba — rispose Carminillo. — Nell'Algeria, nel Riff e nel Marocco se ne trovano moltissime, mio caro, e qui abbondano anche i santoni, i quali poi non sono altro che dei pazzi, e talvolta anche pericolosi.

— Mi è venuta un'idea.

— Esponila.

— Se il re zingaro fosse stato sepolto là dentro?

— È impossibile, anche pel fatto che non doveva essere un vero maomettano, e poi a quest'ora chissà quanti hanno frugato quella cuba colla speranza di trovare il totem, e più di tutto le ricchezze, che il vecchio gitano aveva avuto la malinconia di tentare di portarsi all'altro mondo. Tuttavia, siccome quell'edificio si trova su una linea del fazzoletto, noi andremo a visitarlo.

— Torneremo ad accampare qui?

— No, portiamo via tutto, poiché potremmo andare anche lontani, e l'ultima cima del Gurugù sta sulle nostre teste ad un'altezza di otto o novecento metri.

Arrotolarono le coperte, presero le armi e le poche provviste che erano loro rimaste, e dopo d'aver dato un ultimo sguardo verso i foltissimi boschi dai quali potevano irrompere, da un momento all'altro, dei drappelli di cavalieri, si misero ad arrampicarsi, lasciando sulla loro destra la Numancia.

I fianchi della montagna erano tutti cosparsi di pietre enormi, accavallate disordinatamente.

Piante invece pochissime. Magrissimi fichi d'India e gruppi di aloè in fiore che spandevano intorno degli acuti profumi.

I due studenti e la gitana si avanzavano animosamente, raccogliendo qua e là qualche fico ben maturo che avrebbe potuto servire da colazione. Agilissimi tutt'e tre, s'arrampicavano come le capre.

Il sole era diventato ardentissimo e la sua luce abbagliava.

Adagio adagio, raccogliendo sempre fichi e facendo frequenti soste, i cercatori del totem s'avanzavano verso la cuba che pareva fosse stata dipinta recentemente, tanto era bianca. Soltanto verso le dieci il minuscolo drappello potè trovarsi dinanzi ad essa.

Non differiva, né per dimensioni né per forma, da tutte le altre che rendono pittoresche le alture dei villaggi berberi e marocchini, e come quelle aveva la sua cupoletta.

La porta era aperta sicché i due studenti e la gitana poterono entrare tranquillamente.

— Oh, miseria delle miserie!... — esclamò Pedro. — Questo non è altro che un covo di pulci.

— E di pulci affamate da chissà quanti mesi, pronte a succhiarci vivi — rispose Carminillo.

Avevano ragione di prepararsi a fuggire subito, poiché nella cuba, proprio sopra la tomba di chissà quale santone, non vi erano che tre o quattro tappeti scoloriti e sfilacciati che dovevano essere ben pieni d'insetti. Era l'unico arredamento della piccola costruzione la quale non conteneva nemmeno dei vasi di terracotta.

— Scappiamo — disse Pedro. — Noi non sappiamo che cosa fare di queste miserie, e non è qui certo che sarà stato sepolto il primo re gitano.

— Ti ho detto che noi troveremo il suo scheletro nascosto entro una caverna — soggiunse Carminillo. — Il fazzoletto segna bene tutto e, pare impossibile, con una chiarezza meravigliosa.

— Dove sarà quel sepolcreto?

— Non deve essere molto lungi di qui... Tu, Zamora, che hai l'orientazione naturale e che come tutti i tuoi compatrioti devi sentire qualunque cosa che sa di zingaro, aiutami.

— Io credo che noi siamo ben vicini alla caverna.

Si allontanarono in fretta da quella tana e si misero a risalire, osservando tutto attentamente.

Carminillo, di quando in quando, tirava fuori il fazzoletto, vi gettava sopra un lungo sguardo, consultava la bussola, poi riprendeva la marcia, dimostrando una perfetta tranquillità.

Salirono così, attraverso ad enormi cumuli di pietroni, per altri duecento metri, poi l'ingegnere si fermò guardando una rupe che sorgeva isolata, alta non più di cinquanta metri. Anche Zamora la guardava.

— Avanti!... — comandò, quasi imperiosamente, il giovane ingegnere, il quale si avanzava col fazzoletto spiegato in mano. — Se non troveremo il totem entro quella roccia non lo troveremo mai più.

Si misero a scalare con grande ardore altri cumuli di massi, malgrado il caldo opprimente e la quasi totale mancanza di brezza, e dopo mezz'ora raggiungevano la roccia. Roccia assolutamente nuda, senza un filo d'erba, tutta grigia e senza screpolature, almeno a primo colpo d'occhio.

— Non può essere stato sepolto che qui — disse Carminillo.

Si misero a girare intorno a quella specie di scoglio, osservando tutto attentamente.

Avevano già qualche timore, quando Zamora, con un vero salto da pantera, si slanciò verso una parete del masso gridando: — Il segno!... Il segno dei gitani!...

— Dove? — chiese Carminillo.

— Là, presso quella leggera screpolatura che scende dall'alto. È uno dei tanti segni che noi tracciamo lungo le grandi strade quando intraprendiamo le nostre emigrazioni.

— Mostramelo.

— Non dirà nulla a te, mio señor.

— Non importa, mostramelo.

— Guarda qui.

Sulla roccia, con un ferro, erano state impresse tre linee tagliate trasversalmente da una quarta, con un minuscolo triangolo da un lato.

— Qui, qui!... — gridò Zamora. — Il totem che mi darà il supremo potere, rapito a mia madre, su tutte le tribù della Spagna, si trova qui dentro. Conosco i segnali nostri, insegnati solamente ai capi tribù e alle regine.

— Ecco perché Janko, anche se fosse giunto quassù, non avrebbe compreso nulla — disse Pedro.

— Assolutamente nulla.

L'ingegnere intanto, armato d'un yatagan, guardava attentamente la screpolatura, la quale s'incrociava con un'altra pochi metri più in alto. Cacciava la robusta lama qua e là, smuovendo il terriccio. Ad un tratto si volse verso Pedro.

— Quante cartucce abbiamo?

— Duecento almeno.

— Prepariamo una mina e squarciamo questa parete. Ci vorrebbero dei picconi e noi, disgraziatamente, non ne abbiamo.

— Al lavoro!... — disse l'allegro chitarrista. — Lascia prima che decapiti una bottiglia e beva un gocciolino. f — Anche due, ma fa' presto.