I briganti del Riff/19. Un massacro
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19.
UN MASSACRO
La guerra riffo-spagnola era scoppiata forse per la centesima volta, ma tutti gli iberi avevano giurato di andare a fondo, di dare una terribile lezione ai briganti e di spiegare la bandiera dei conquistadores sul Gurugù.
L'assassinio d'un agente della polizia indigena da parte dei briganti, era stata la prima causa.
Il 10 luglio del 1909, il generale Marina, comandante supremo delle forze spagnole, mandava due compagnie armate di mitragliatrici a punire gli assassini. La punizione, bene o male, fu eseguita, e la polvere parlò, ma la risposta dei riffani fu altrettanto pronta.
Presso Monca, alle prime falde del Gurugù, una compagnia spagnola aveva ottenuto il permesso di lavorare quei terreni, ricchi d'ogni sorta di metalli, non escluso l'oro. Ecco che appena le truppe ibere si furono ritirate in Melilla per non correre il pericolo di venire circondate e massacrate senza pietà, i riffani assalirono la miniera e fucilarono parecchi operai europei che non avevano avuto il tempo di mettersi in salvo. Era una sfida? Tale fu ritenuta dal Governo spagnolo e la guerra scoppiò.
Estremamente difficili furono le prime mosse dei discendenti dei conquistadores, anche perché la Catalogna, approfittando dell'occasione per tentare la separazione, e guidata da migliaia di anarchici, si era furiosamente sollevata spargendo il terrore in Barcellona, bruciando conventi e fucilando spietatamente frati e monache. Perfino le tombe delle chiese furono violate, e gli scheletri gettati su immensi falò.
Per un momento parve che la Spagna dovesse rinunciare alla guerra per domare le insurrezioni interne. Ben presto però i cannoni sfondarono le barricate degli anarchici, le mitragliatrici entrarono in azione insieme ai fucili ed a migliaia e migliaia caddero i rivoluzionari.
Sanata quella ferita che poteva avere terribili conseguenze e distruggere fino al fondo Barcellona, che è la prima città marittima della Spagna e la più industriale, il Governo aveva subito rivolto i suoi sforzi sul Riff. L'onore della nazione era impegnato, e la guerra non doveva cessare senza la conquista del Gurugù, eterna minaccia di Melilla.
Fu un affluire di rinforzi sulla costa africana. Quarantacinquemila uomini, con diciotto generali, trentadue colonnelli, molte batterie ed un parco aeronautico, si mossero alla conquista del Riff.
I briganti erano già tutti in armi. Avevano radunate le loro arche e si tenevano in guardia sulle montagne od in agguato entro le profonde gole, niente impressionati dalle cannonate che sparavano continuamente le flottiglie spagnole, distruggendo tutti i duars a portata di tiro.
Il 27 luglio mori e spagnoli venivano per la seconda volta alle mani. Disponevano i primi di molti squadroni di cavalleria, bene armati; i secondi forti di cinque battaglioni al comando d'un generale di brigata, con parecchie batterie da montagna, attaccavano furiosamente i secolari nemici.
Dopo qualche ora di combattimento ferocissimo, il comandante, che si era seduto su un masso per riposarsi un istante, cadeva colla testa fracassata da uno di quei grossi proiettili usati ancora dai riffani.
Il colonnello del battaglione dei cacciatori di Arapiles e di La Novas, si poneva coraggiosamente alla testa delle truppe e le guidava ad un nuovo e più impetuoso assalto, sgominando completamente il nemico ed obbligandolo a rifugiarsi sulla montagna, portando con sé parecchie centinaia di morti.
Quella vittoria ebbe per effetto di rendere i moros più decisi che mai a prendersi una rivincita, ed infatti, tre giorni dopo, con raro coraggio, scendevano a Melilla, sfidando audacemente i loro avversari ad un nuovo combattimento. Gli spagnoli, come sempre, furono solleciti a uscire, ma tutta la loro avanguardia, circondata completamente dalla cavalleria dei mori, venne completamente massacrata, senza che il grosso della truppa avesse potuto accorrere in suo aiuto.
Per quarantotto ore, gli audaci briganti, in numero di cinque o seimila scorrazzarono perfino sotto i bastioni di Melilla, mettendo in grande apprensione la popolazione che temeva un furioso assalto. L'artiglieria spagnola ebbe ben presto ragione e sbarazzò la pianura da quegli audaci cavalieri, ricacciandoli verso i loro monti.
Il generale Marina non tardò a rispondere alla fiera provocazione che gli era costata un bel numero di valorosi soldati combattenti in prima linea, ed avendo appreso che fra gli assalitori si trovavano anche parecchie centinaia di guerrieri dei Beni Urriaguel, fece puntare i cannoni sui loro duars di Souk e li coprì di granate, tutto incendiando tutto distruggendo. Malgrado le gravi perdite subite, appena calata la notte i terribili cavalieri del Riff osarono mostrarsi sotto il forte di Alucemas per subire una nuova rotta a colpi di mitraglia.
Il generale Marina, che oramai aveva ricevuto rinforzi in abbondanza, approfittò per far sapere agli sceicchi della tribù dei quedbana, che avevano commesso degli assassini in El Ara su carovanieri spagnoli, di accordare loro uno spazio di tempo di quarantotto ore per consegnare i colpevoli.
Fiato sprecato. I riffani incoraggiati anche di sotto mano da Mulay Hafid, il nuovo Sultano del Marocco, che aveva strappato il trono al proprio fratello, chiamarono a raccolta le tribù dei ledhara e risposero arrogantemente ai messi spagnoli che se volevano i colpevoli andassero a cercarseli in mezzo ai duars in armi. Il generale Marina, che già s'aspettava quella risposta, aveva intanto prese tutte le misure per infliggere a quegli assassini un'altra crudelissima lezione.
Il 7 settembre, alle sette del mattino, due forti colonne lasciavano El Arbo. La prima, comandata dal generale Aguilera, si avanzava per cinque chilometri sopra un terreno sabbioso nel quale i riffani avevano costruito qualche trincea protetta da grosse pietre. Non appena gli esploratori ebbero avvistato il nemico, sempre numerosissimo e sempre pieno di baldanza, malgrado le gravi disfatte subite, le truppe spagnole si spiegarono rapidamente facendo un movimento aggirante.
La batteria Schneider, presa buona posizione su una collina, aprì un fuoco infernale sostenendo la fanteria che avanzava sparando a salve e validamente appoggiata dalla squadriglia del Mar Chica che scagliava dei proiettili da sessantacinque.
I riffani erano quattromila, fra i quali duemila cavalieri. Tentarono una disperata difesa, ma decimati dalle granate si misero in rotta e andarono ad urtare contro la seconda colonna spagnola comandata dal colonnello Santa Colona.
Presi fra due fuochi la loro ritirata si tramuta in una fuga disastrosa, e nondimeno, riuscirono ancora a salvarsi sulle montagne.
Gli spagnoli, ormai padroni del campo, aiutati sempre dalle artiglierie della flottiglia del Mar Chica che non cessavano di lanciare a grandi distanze i loro grossi proiettili, s'avanzarono e bruciarono inesorabilmente duars e piantagioni, e fecero saltare colla dinamite, le case in muratura dei caid.
I riffani, impotenti a riprendere l'offensiva, vigorosamente bombardati anche dalle artiglierie, rimasero a lungo esposti al fuoco, contemplando da lontano, frementi di rabbia, gli incendi che li privavano d'ogni ricchezza. Non era però che un'altra sosta. Un altro avversario si sarebbe deciso di scendere a patti, tanto più che gli spagnoli li offrivano con una certa larghezza, i riffani no.
Aspettavano essi pure il buon momento per prendersi un'altra rivincita, e lo aspettavano alle falde del Gurugù.
Il generale Marina, ben assicuratosi di El Arba, dopo un lungo periodo d'inazione causato dal gran caldo e dalle febbri palustri che colpivano i suoi soldati, il 12 settembre tornò alla riscossa deciso di condurre rapidamente alla fine la costosissima guerra.
Mandò il colonnello Larrea, alla testa di due compagnie di polizia indigena, le quali si spinsero animosamente fino a Muley Idris, passando l'intera notte su quella posizione, in attesa del nemico divenuto, pel momento, estremamente prudente. Non vedendolo comparire batterono il territorio per un vastissimo tratto, e ritornarono in buon punto per accorrere in aiuto del reggimento Carlo V accampante a Sidi Ahmed Radi, che era stato attaccato. Anche questa volta i briganti subirono una mezza disfatta, e solo una pronta ritirata fra le montagne li mise al coperto da un pericoloso inseguimento.
Ma il generale Marina aveva intanto saputo da alcune spie indigene, che tutte le arche del Gurugù erano scese per concentrarsi in Seluan, posizione assai strategica.
Alle quattro del mattino del 21 settembre, le truppe spagnole formate dalla divisione del generale Fovar, forte di quindicimila uomini con numerosa artiglieria e cavalleria, si avanzarono audacemente verso Seluan, precedute dalla polizia indigena che conosce il paese. Appena oltrepassato il forte di Rostrogarda, tutte le alture si coprirono di riffani.
Le batterie dei forti di Sidi Guariah, Camellos e Gabrerizaz, aprirono tosto un cannoneggiamento violentissimo che venne subito appoggiato anche dai pezzi del Rostrogarda e dalle venticinque bocche da fuoco della brigata. Una vera pioggia di granate cadde sui duars e sulle abitazioni incendiando le prime ed abbattendo le seconde. Malgrado che il terreno fosse assai accidentato, la fanteria spagnola, protetta dalle artiglierie, non cessava di avanzare al grido di: «Viva el Rey!».
Un panico indescrivibile s'impadronisce dei briganti della montagna i quali, dopo poche fucilate, fuggirono all'impazzata attraverso i burroni, preceduti dalle loro donne e dai loro fanciulli scacciati dalle loro case da quel diluvio di fuoco che continuava inesorabilmente la sua opera di distruzione.
Un forte gruppo di cavalieri, rimasto tagliato fuori, si rifugiò nel cimitero situato presso Sidi Guariah, e venne così furiosamente mitragliato che in pochi minuti uomini e cavalli erano a terra morti o moribondi. Frattanto la fanteria, divisa in due colonne, spinse continuamente l'attacco arrampicandosi su per le alture. Il generale Arizon, governatore di Manilla, percorse infaticabilmente le posizioni spagnole, esponendosi al fuoco del nemico. Per sei ore la fucilata durò intensissima. I soldati sparavano su tutti i gruppi di cavalieri che osavano di quando in quando, mostrarsi, distruggendoli alla lettera. Alle due pomeridiane le due colonne occupavano il campo di Huerta, presso Seluan, facendo buon numero di prigionieri, per lo più donne e fanciulli.
Anche in questa battaglia i riffani, sempre galoppanti sui loro rapidissimi cavalli, si erano mostrati pessimi tiratori, sicché le perdite degli spagnoli erano state insignificanti.
Non dormirono sugli allori i vincitori, che nei giorni seguenti s'impadronirono dei pozzi di Dalad, che erano loro necessarissimi, poi il Capo Huerta, bombardando sempre micidialmente il nemico, il quale non poteva opporre nessuna bocca da fuoco che fosse grossa nemmeno come una spingarda.
Poi venne la volta della presa di Nador, e la distruzione di Seloman, compiute rapidamente, poiché i moros ormai scoraggiati, non opponevano che scarsa resistenza.
Così gli spagnoli, a passo a passo, dopo numerosi combattimenti, erano giunti ai primi contrafforti del Gurugù. Volevano conquistare la temuta montagna, a costo di grossi sacrifici, pur di far sventolare lassù la bandiera della patria. Vegliavano però i riffani, sempre battuti ma mai completamente vinti, ed una brutta notte, entro una profonda gola chiamata del Gran Lupo, tesero ai loro tenaci avversari un agguato, con forze imponenti abilmente nascoste fra i foltissimi cespugli.
Su quella gola, come abbiamo detto, si erano fermati i due studenti e la gitana, udendo le prime fucilate.
— Carminillo!... — disse Pedro.
— Che cosa vuoi fare, mio povero amico? — rispose il giovane ingegnere.
— Non è possibile che io stia fermo, mentre si massacrano i nostri compatrioti.
— Ti faresti trucidare inutilmente. Quale aiuto porteremmo noi? Di una vecchia pistola e di due yatagan? Credi che non sia commosso anch'io?
— I nostri sono stati attirati in un agguato.
— Purtroppo, Pedro! Ed a noi non rimane che di assistere alla lotta e di prendere il largo se i riffani avranno ragione dei nostri.
Una furiosa fucileria, accompagnata subito da alcuni colpi di cannone, impedì loro di continuare quel dialogo.
Nella profonda gola del Gran Lupo, che conduceva ad una delle salite del Gurugù, si combatteva ferocemente. Una forte avanguardia spagnola, appartenente alla divisione Sotomayor, che in quei giorni operava lungo i primi contrafforti della fatale montagna, era caduta in un agguato abilmente teso dai moros.
Distaccata dal grosso delle truppe, che aveva un bel da fare a difendersi contro migliaia e migliaia di cavalieri che caricavano all'impazzata, si era trovata presa d'improvviso fra due fuochi che partivano dai due lati della gola. Invano i soldati spagnoli tentavano di accorrere in aiuto dei disgraziati, destinati ormai a lasciar le loro ossa nella gola, a pasto delle jene, dei leoni e degli sciacalli.
Tutta la gola del Gran Lupo era solcata da lampi che si succedevano senza interruzione.
Urla ferocissime di muerte al cristiano si confondevano alle detonazioni che rumoreggiavano furiose insieme alle grida dei poveri attaccati che tentavano, con cariche disperate alla baionetta, di aprirsi il passo, urlando Viva España!
Il grosso della divisione, minacciato da tutte le parti da migliaia e migliaia di cavalieri che tentavano un accerchiamento, aveva ormai abbandonato quei prodi. Perfino l'artiglieria era stata quella notte impotente a sgominare i banditi della montagna, che pure avevano una grande paura delle granate e della mitraglia. Si ritirava, fremendo di rabbia, attraverso a terreni difficili, continuamente minacciata di un totale esterminio.
Eppure al mattino e nel pomeriggio del giorno precedente, il pallone militare aveva segnalato per due volte assenza di moros, poi non si era saputo più nulla dei tre ufficiali che lo montavano, e che forse erano caduti sotto il fuoco incrociato, e per la prima volta ben diretto, dei riffani.
Pedro, pallido come un morto, coperto di sudore, nascosto in mezzo agli ultimi cespugli del fondo della terribile gola, seguiva con ansia estrema lo svolgersi del combattimento, e non cessava d'interrogare Carminillo.
— Ma che non possano, a colpi di baionetta, aprirsi un gran solco sanguinoso e raggiungere i banditi?
Il giovane ingegnere, non meno pallido, non meno impressionato per quel disastro rispondeva invariabilmente: — È impossibile!... E poi troverebbero sulla loro ritirata i cavalieri impazienti di sciabolare. È uno dei tanti disastri che succedono nelle guerre.
— Gettiamo sulla testa dei riffani delle pietre!...
— Cadrebbero poi anche sulle teste dei nostri, Pedro. Vorresti tu affrettare il massacro?
— Ah no!... No!... — esclamò il giovane che aveva le lagrime agli occhi, e che si sentiva prendere da una voglia furibonda di scagliarsi col pistolone e coll'yatagan alle spalle di quelle migliaia di moros.
— Allora chiudi gli occhi, se non hai il coraggio di assistere ad una strage.
— Sì, señor — disse la gitana. — Chiudi gli occhi. Tuttociò è spaventevole.
E spaventevole era infatti il tremendo spettacolo che si offriva agli occhi, bagnati di lagrime, dei due studenti.
L'avanguardia, ormai abbandonata alla sua sorte, si sacrificava generosamente per lasciare tempo al grosso della divisione di disimpegnarsi dalle torme di cavalieri e di mettersi in salvo. Le cariche alla baionetta si succedevano alle cariche.
Quei bravi ragazzi invano si scagliavano su pei fianchi della gola, gettandosi all'impazzata in mezzo ai cespugli entro i quali si trovavano nascosti i banditi. Un fuoco d'inferno li sorprendeva da ogni parte, rovesciandoli a drappelli.
A mezzanotte, quando la luna, ben alta sull'orizzonte, sfiorò coi suoi raggi azzurrini i margini della gola del Gran Lupo, l'avanguardia, orribilmente decimata, combatteva ancora con folle coraggio. Il grosso della divisione ormai era scomparso fra le ombre della notte verso Seluan, sparando qualche cannonata contro la cavalleria riffana che lo stringeva da vicino. Le detonazioni diventano sempre più deboli; pareva che gli Schneider avessero perduta la loro voce e la loro potenza distruttiva.
Per l'avanguardia, quegli ultimi colpi, suonavano come campane a morto, ed i valorosi, ormai rassegnati, dopo d'aver consumate tutte le loro munizioni, dopo d'aver moltiplicati gli attacchi, continuavano a cadere sotto la fucileria dei briganti, colmando il fondo della gola.
— Carminillo!... — esclamò Pedro, in preda ad un vero accesso di disperazione. — Fuggiamo!... Non assistiamo all'ultima scena del sanguinoso dramma.
— Sì, fuggiamo — rispose il giovane ingegnere, il quale non aveva perduto il suo sangue freddo. — Ormai quei valorosi sono perduti, e solamente Dio potrebbe salvarli. Vieni, Zamora, allontaniamoci prima che i vincitori salgano fino a noi e ci prendano.
La voce del cannone diventava sempre più fioca. Gli artiglieri, impotenti a decimare la cavalleria riffana, fuggivano ripiegandosi sul grosso che scendeva a precipizio le balze aride dei primi contrafforti del Gurugù. Nella gola, i pochi superstiti, combattevano sempre disperatamente, prendendo ai compagni caduti qualche cartuccia non ancora sparata, e morivano da prodi sotto il fuoco infernale dei briganti.
Si dice che nella gola del Gran Lupo ottocento soldati soccombessero dopo un combattimento omerico, ma forse nessuno mai ne ha conosciuto esattamente il numero.
I due studenti, col cuore gonfio, fuggivano attraverso i cespugli dell'altipiano, tenendo per mano la gitana. Cercavano di mettersi in salvo sui primi contrafforti della montagna maledetta. Dalla gola dense nuvole di polvere si alzavano, spandendo un acre odore, miste a continui lampi.
— Via!... Via!... — continuava a gridare Carminillo.
Salirono di gran corsa una collina boscosa, mentre le ultime fucilate distruggevano l'avanguardia ancora rimasta in campo, poi scesero verso un burrone profondissimo.
Ad un tratto un grido di stupore sfuggì dalle loro bocche. Sull'altro versante del burrone si librava maestosamente un grosso pallone appartenente, senza dubbio, al parco aeronautico degli spagnoli, conservante quasi una immobilità assoluta, poiché una lunga fune lo tratteneva a terra. Colpito in pieno dalla luna, luccicava come un gran globo d'argento.
— Amici!... — gridò Carminillo, appena passato il primo istante di stupore. — Là è la nostra salvezza!... Andremo al Gurugù in pallone giacché il vento spira favorevole.
— Vi sono degli ufficiali nella navicella? — chiese Pedro.
— Avrebbero tagliata già la fune sacrificando l'ancora — rispose Carminillo.
— Io vedo anche una scala di corda che pende lungo la fune — disse la gitana che aveva la vista più acuta degli studenti. — Scappiamo!... I riffani non tarderanno, dopo completata la strage, a spingersi anche qui. Forse il pallone è stato da loro segnalato.
Si presero per mano, essendo il burrone irto di rocce e cosparso di fitti cespugli, e risalirono, quasi sempre correndo, il versante opposto.
Il pallone si librava a meno di cinquanta metri sopra le loro teste e tendeva, di quando in quando, la fune sotto i primi colpi della brezza mattutina, come se fosse premuroso di solcare nuovamente il cielo.
Zamora non si era ingannata. Una scala di corda giungeva fino a terra, aggrovigliandosi ad una spalliera di fichi d'India.
I due studenti guardarono attentamente nella navicella, sperando di vedere qualcuno, ma invano. Gli uomini che guidavano il pallone erano misteriosamente scomparsi.
— Saliamo — disse Carminillo, dopo d'aver rapidamente liberata la scala dalle piante che la trattenevano.
— Potremo sollevarci tutti e tre in aria? — chiese Pedro.
— I palloni militari hanno, di solito, una cubatura capace di portare anche cinque o sei persone. E poi troveremo certamente della zavorra e chissà, fors'anche delle armi.
— Che noi scaricheremo contro i banditi che hanno macellato i nostri nella gola, non è vero? — disse Pedro.
— Non le lasceremo riposare — rispose Carminillo, slanciandosi pel primo su per la scala.
Il suo compagno e la gitana, la quale non dimostrava nessuna commozione per quel viaggio aereo, lo avevano seguito. In mezzo minuto i due studenti e Zamora raggiunsero la navicella la quale non conteneva nessun essere vivente.
— Taglia la fune dell'ancora, Pedro — disse Carminillo, il quale faceva rapidamente l'inventario di ciò che portava il pallone.
— E poi?
— Ve n'è un'altra di ricambio... Taglia, taglia!... Ecco i briganti che escono dalla gola, dopo aver compiuta la strage.
Pedro, con un poderoso colpo di yatagan, recise la fune ed il pallone si librò subito in aria, salutato da alcuni colpi di fucile, fortunatamente andati a vuoto.
Nella navicella, oltre a molti cannocchiali, bussole, termometri e barometri, vi erano sei grossi sacchi di zavorra e una cassa che doveva contenere forse qualche cosa d'importante pei fuggiaschi. I due studenti, udendo le palle fischiare a non molta distanza, rovesciarono rapidamente tutta la sabbia.
Il pallone, liberato di qualche centinaio di chilogrammi, fece un secondo e più impetuoso lancio in aria, raggiungendo in un baleno i duemila metri.