I bambini delle diverse nazioni/I bambini di Turchia
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I BAMBINI DI TURCHIA
Gli antichi credevano che quei due scogli stritolassero ogni nave che cercava di passare, finchè Orfeo, nella spedizione degli Argonauti, non li incantò, rendendoli immobili al posto che occupano adesso.
Tante grazie a Orfeo e al suo flauto magico, e nonostante che il passaggio di quello stretto sia difficile, pure il nostro bastimento è entrato sano e salvo nelle acque tranquille del Bosforo.
Un numero immenso di delfini lo circondano. Essi saltano fuori dell’acqua cercando di attirare la nostra attenzione, e ci guardano con occhio di desiderio.
Signori delfini, vi conosciamo, non dubitate! Abbiamo letto le vostre lodi in poesia e in prosa, vi abbiamo veduti nei quadri, nelle incisioni e nei bassorilievi vogare tranquillamente sulle onde azzurre del mare, circondati di sirene e con piccoli tritoni sul dorso. In quei quadri mitologici facevano fare la parte di cavalli, che non fate in realtà. Ma se poteste parlare, voi, delfini del Bosforo, ci narrereste forse di terribili banchetti fatti sul corpo di turchi e di giours, dì ministri e di schiavi, di sfortunati e di colpevoli, che messi nei sacchi, erano gettati in mare e non si sentiva più parlare di loro.
I delfini hanno ragione di credersi trascurati, ed è per questo che ci guardano con occhi pieni di cupidigia. Forse essi ci dicono nel loro linguaggio: «I tempi sono cattivissimi. Non troviamo da lavorare, e siamo affamati. Via, buttate qualcuno in mare.»
No, signori delfini. Il tempo in cui nel Bosforo si commettevano tante barbarie è passato, e si spera che non ritorni più. Fateci il piacere, allontanatevi dal nostro bastimento; avete certi occhi, certi occhi così poco rassicuranti....
Navighiamo nel Bosforo, il quale si dice abbia il suo nome da «Io» che fu trasformata dalla collerica Giunone in una vacca, e saltò nell’acqua e traversò a nuoto lo stretto per sfuggire alle punture dei tafani. Bosforo vuol dire «guado della vacca,» nel navigare dunque il Bosforo viene fatto di pensare a tutto ciò che di memorabile abbiamo letto o inteso sul quel mare. Si vede lo scoglio di Giasone, la tomba di Ercole, il luogo dove Goffredo di Buglione contò i suoi crociati prima di passare in Asia alla conquista della Terrasanta; il punto da cui passò Dario, re di Persia, figlio di Istaspe, con la sua grande armata, per impossessarsi della Grecia. Le ridenti sponde sono ornate di bei palazzi, di ville, di giardini, di rovine, di chioschi e di vigneti: sul fondo si vedono foreste di pini, e l’acqua è solcata da un numero grandissimo di caicchi, che sono piccoli battelli. Nel passare vicino a uno di essi si vedono, seduti nel fondo della barca, diversi bambini turchi che attendono in ozio il loro lala (servo negro) il quale pesca con la lenza.
Ecco, siamo in vista delle sette colline su cui Costantinopoli è costruita, al pari di Roma; si distingue la immensa mezzaluna dorata del duomo di Santa Sofia, si vedono centinaia di minareti che s’inalzano snelli nell’azzurro del cielo; le cupole delle moschee scintillano ai raggi del sole, e gruppi di scuri cipressi s’ergono qua e là solenni. Vediamo dinanzi a noi la città in tutta la sua bellezza, ed entriamo nel golfo del Corno d’oro, che somiglia a una foresta di alberi di bastimenti.
Dopo pochi istanti siamo nella capitale dei turchi, la quale, al pari di molte altre città, è più bella veduta a distanza. Anzi, a vederla da vicino, si prova una forte delusione. Le strade sono strette, le finestre serrate, orde di cani grossi, famelici, simili a lupi, ingombrano la via e non si movono neppure a bastonarli.
Tutto il popolo ozia nelle strade; i sakka (portatori d’acqua) e i hamal (portinai) sono i soli occupati; ma sul loro volto, come su quello di quante persone s’incontrano, si vede una strana immobilità d’espressione. Anche il piccolo pasha zad (figlio di pascià) pare che abbia cinquanta anni che gli pesino sulle spalle, e risponde ai profondi saluti con la gravezza di un vecchio.
Sentite che allegre voci di bambini! Che sollievo! Noi guardiamo intorno, e si vede approssimarsi un gaio corteggio. Molti ragazzi in branco scortano un compagno, uno di loro, che va per la prima volta a scuola. Il bambino è montato su un cavallo o su un asino, e in quella occasione i suoi amici smettono la consueta gravità e cantano e gridano nello scortarlo.
In generale, le scuole sono costruite vicino alle moschee, e dentro vi regna la massima semplicità.
Una tavola nera pende dal soffitto, al quale è fissata da corde fatte con le fibre delle palme; una tavola sostiene i libri e le penne, una i boccali per l’acqua, una il tschibuck (pipa) del maestro e il servito per il caffè. Nel centro della stanza c’è una stuoia, un divano appoggiato al muro, forse una sfera, e in ciò consiste tutta la mobilia.
Il mollah (uomo che insegna) è vestito di una lunga tunica bianca, porta un turbante verde in testa, e sta seduto con le gambe incrociate sulla stuoia o sul divano; i ragazzi, pure con le gambe incrociate, formano attorno a lui un semicircolo, e mentre studiano, fanno un movimento continuo, spingendo il corpo avanti e indietro. Essi credono che quel movimento aiuti la memoria. Tutti studiano a voce alta e insieme, cosicchè il rumore si sente a grande distanza.
Il maestro ha in mano un lungo bastone di palma, per potere, di tanto in tanto, dare ai suoi alunni un leggiero avvertimento senza alzarsi, altrimenti il rumore sarebbe assordante.
Il libro che usano è il Corano, il libro santo dei turchi, che ogni ragazzo studioso deve copiare e imparare a mente. Un po’ di scritto, di aritmetica e scarse nozioni di geografia, e la istruzione dei ragazzi è completa.
El hamdu Allah! (Che Allah sia lodato!); è una eresia l’imparar molto, dice il Profeta. Tutto ciò che un credente deve sapere, si trova nel Corano.
Ma non è cosa facile d’insegnare neppur quel poco a un ragazzo turco.
«Non far mai oggi quel che tu puoi rimettere a domani» è la massima di ogni turco, e ogni padre turco è, in genere, così indolente, da non poter spinger i proprii figli ad essere attivi.
Quando un ragazzo sa leggere e copiare il Corano come un pappagallo, i genitori sono così alteri di lui, che lo vestono sfarzosamente, e con la nuova copia in mano del libro santo, legata in velluto ricamato, lo conducono dagli amici per ricevere le loro congratulazioni.
Questo sistema di educazione è adottato in tutta la Turchia; ma la necessità di sapere qualcosa di più si fa sentire anche dai turchi, e specialmente da quelli che sono stati all’estero per diversi anni, e ora cercano d’istituire delle scuole meglio ordinate.
Diversi turchi mandano i figli in paesi più civili per essere istruiti, altri hanno a casa dei hodschas (precettori); pochi solamente affidano i ragazzi a maestri o maestre inglesi e francesi; altri poi propugnano la necessità di stabilire pubbliche scuole. Una di queste è Meketeb-i-Soultani, il liceo imperiale di Galata, inalzato al grado di Università.
L’onore di aver fondato quella scuola spetta al sultano Abdul Aziz. L’edifizio consisteva da principio in una baracca, poi era la Scuola di Medicina. Quel liceo è spazioso e situato nel punto più elevato di Pera, da dove si gode di una vista stupenda. Il Bosforo bagna il piede della collina sulla quale l’edifizio è costruito; da un lato ha il Mar di Marmara, dall’altro si vede il Corno d’oro e le meraviglie di Stambul; e al di là lo stretto Scutari con i suoi boschetti di cipressi e le graziose isole del Principe.
Il collegio fu aperto nel settembre del 1868. La lingua che v’imparano gli scolari è la francese, e vi sono ammessi i seguaci di tutte le religioni, benchè i più sieno musulmani.
Il venerdì è il giorno di riposo dei turchi, la nostra domenica, e in quel giorno noi seguiremo i bambini nell’interno delle loro case, di cui si vede così poco dal di fuori. Ogni bambino turco sa cavalcare, e quando va per le strade fa l’elemosina ai numerosi poveri e grida «Uscht! Uscht!» ai cani che ingombrano la strada.
Quei cani sono utilissimi. Essi fanno da spazzini della città e portano via tutti i rifiuti, che altrimenti rimarrebbero per le strade e ammorberebbero l’aria. E non sono soltanto utili, ma anche interessanti. Brutti e affamati, veri mendicanti della razza canina, senza padroni nè amici, si sono formati delle leggi e non molestano altro che quelli che non le rispettano.
Ognuno di quei cani ha il suo posto fisso, e non permette che altri cani lo usurpi. Se appare poi fra di loro un cane estraneo alla comunità, è seguito e osservato da vicino. Se va per la sua strada o occupa un posto vuoto, non è molestato; ma se mangia qualcosa che trova, o se usurpa il posto di un altro cane, è divorato senza misericordia.
Il ragazzo turco non frusta quei cani. Egli dice soltanto «Uscht!» e se non si movono, il cavallo li scansa, pure passa loro di sopra senza calpestarli. Il ragazzo turco è buono con le bestie; la sua stessa religione gl’impedisce di ammazzare il più piccolo insetto, e i pascià e i bey che non pensano nè punto nè poco a far decapitare uno Davanti ad una Moscheaschiavo disobbediente, o a gettare dei bambini nel Bosforo, non ammazzerebbero una mosca.
Lo scolaro, quando giunge a casa, è salutato dal padre nel selamik (sala di ricevimento), e dopo aver lasciato le scarpe alla porta, è festosamente accolto dalla madre, dalle sorelle e dai fratelli nel haremlik (stanza delle signore).
Tanto il selamik quanto il haremlik sono ammobiliati con semplicità.
Le mura sono soltanto imbiancate, il soffitto è dipinto di rosso o di turchino, il pavimento è coperto con una o due stuoie, e lungo le pareti ci sono larghi divani bassi, con molti guanciali. Ci sono poi pochi specchi e nessuna statua nè quadro, perchè il Corano li proibisce.
Quando entra il ragazzo, sua madre, la Khanum effendi, titolo che equivale a signora, gli va incontro.
— Dschanum! (vita mia!) dice essa come sono felice di vederti! Fatima! Jussuf! venite! Vostro fratello. Fate attenzione al piccolo kuzum (mio agnello). —
Quest’ultima raccomandazione è necessaria perchè il bambino in fasce è coricato nell’hamach, vicino alla finestra aperta, o dorme nella culla bassa, nella quale è facile inciampare.
Fatima e Jussuf entrano. Essi sono due bei ragazzi, dai lunghi capelli neri intrecciati con perle. Nelle famiglie ricche i lacci di perle cadono dalla sommità del fez, ma adesso le famiglie ricche sono rare in Turchia, e le perle sono doventate più rare di prima. Diversi bambini turchi sono vestiti all’europea, ma Fatima e Jussuf portano sempre il costume turco.
Il ragazzo porta il lungo stambouli (gabbano); le brache e il fez (tarbouche). La bimba ha dei calzoni molto larghi (schaluar), un vestito lungo (anteri) rialzato da un lato con una cintura, e delle pantofole ricamate (babouche).
Un altro modo di vestirsi è quello rappresentato nel nostro disegno nella pagina seguente. La bimba ha un vestito lungo, legato alla vita; il ragazzo un pittoresco costume composto di pantaloni larghi, di una giacchetta corta e aperta, che lascia vedere una camicia ricamata, una cintura e un fez a guisa di turbante.
Fatima e Jussuf hanno salutato il fratello, e tutti e tre si sono messi ad ammirare il piccino con la ghirlanda di Costumi di bimbi turchifiori artificiali, con le pallottoline azzurre e gli altri talismani.
Giacchè siamo in casa, descriviamo le occupazioni giornaliere della famiglia.
Tutti si alzano presto, e dopo l’addest (la lavanda di viso e delle mani) recitano una corta preghiera. Poi genitori e figli si ritirano per riposare un paio d’ore, lasciando che i servi e gli schiavi puliscano la casa e preparino il caffè. Due ore dopo che hanno preso il caffè fanno colazione.
Allora le signore insegnano a ricamare alle figlie, oppure sorvegliano le serve: i ragazzi vanno a scuola con la cartella sotto il braccio, o imparano dal hodscha (maestro). Il padre attende agli affari propri o a quelli dello Stato. Dopo la preghiera del mezzogiorno mangiano di nuovo, e quindi le signore vanno al bagno, vanno al bazar o a comprare le chicche.
Sono graziosi i luoghi dove i mercanti, col turbante, espongono la loro merce, le madri stanno attente per avere il peso giusto, e i bambini guardano le cose ghiotte e ne esaltano i meriti.
Appena il sole si corica la famiglia desina, dopo aver recitato la preghiera della sera (Ascham), Se il padre ha degli amici a pranzo, mangia nel selamik con i figli, e la madre nel haremik con le figlie; ma se non ci sono ospiti, pranzano tutti insieme sopra una tavola appena alta un piede dal suolo, su cui sono delle coppe col pane e con i cucchiai d’avorio per le pietanze che non si possono mangiare con le dita, e con i cucchiai di corno per i liquidi. Vi sono inoltre dei piattini di porcellana col caviale, le ulive, il formaggio, le conserve e le salse. Molte persone sono sedute attorno a quella tavola e mangiano tutte allo stesso piatto. Le pietanze favorite sono il borok, che è un pasticcio ripieno di cacio, e il pilaf fatto di montone tritato e condito con spezie e pistacchi. Una tovaglia messa giro giro alla tavola serve a tutti. La sera cantano o stanno a sentir raccontare novelle, e alle dieci le materasse e le coperte sono cavate fuori dalle casse, dove stanno durante il giorno, e sono stese per terra.
Cinque volte il giorno il Muezzin, dalla terrazza del minareto, invita i fedeli alla preghiera. La Illah, it Allah, egli grida, il che significa: «Non c’è che un Dio, un solo Iddio!»
Oltre queste cinque preghiere speciali, il ragazzo turco deve fare uso del suo tesbik (rosario), il quale è di legno, di corallo, di agata o di madreperla. Alcuni rosari sono composti di pietruzze, raccolte dai pellegrini sulla via della Mecca. Ogni rosario deve avere novantanove chicchi divisi in tre parti. I bambini fanno scorrere i chicchi fra le dita, dicendo ogni volta: «Allah!»
Fino dalla culla, il bambino turco è assuefatto alla superstizione. Non v’è madre, per esempio, che faccia veder suo figlio prima che abbia sei settimane, per paura che qualcuno possa dargli il mal d’occhio. Questa espressione ha lo stesso significato che in italiano, e vuol dire portar disgrazia, la quale, la madre ne è convinta, colpirebbe il bimbo, se il visitatore, nel lodare la sua buona salute, non aggiungesse Marsh Allah (Dio lo preservi). Tutti i bambini portano talismani per proteggerli dalle disgrazie, dalle malattie, dagli incantesimi e dagli spiriti maligni.
I bambini hanno pochi divertimenti, e ora soltanto, nelle nuove scuole, incominciano a imparare la ginnastica e il nuoto. Fra padre e figlio vi è poca confidenza, perchè i figli non possono neppur parlare in presenza del padre se non sono interrogati. Nonostante, regna fra di loro molta affezione, e senza che sieno istruiti, hanno due virtù ingenite, che sono l’onestà e la temperanza. Nè in città nè in campagna non si troverà mai un ragazzo che rubi, nè un uomo dedito all’ubriachezza, perchè ai turchi è vietato l’uso di bevande spiritose; essi, per esempio, non bevono mai neppure il vino.
Forse, se vivessimo in un clima deprimente come quello di Turchia, perderemmo noi pure la nostra attività. Per questo, non dobbiamo incolpare il bambino turco se è ozioso, come non dobbiamo incolparlo se è schiavo delle superstizioni. Anzi, separiamoci da lui amichevolmente, rivolgendogli il saluto che è in principio a questo capitolo: «El salam aleikum!»