I Marmi/Parte terza/Allo illustrissimo ed eccellentissimo signore il signor don Ferrante Gonzaga signor nostro osservandissimo

Allo illustrissimo ed eccellentissimo signore il signor don Ferrante Gonzaga signor nostro osservandissimo

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Allo illustrissimo ed eccellentissimo signore il signor don Ferrante Gonzaga signor nostro osservandissimo
Parte terza Parte terza - Il presidente dell'academia Peregrina ai lettori

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allo illustrissimo ed eccellentissimo signore

IL SIGNOR DON FERRANTE GONZAGA

signor nostro osservandissimo.

Annibale, cosí famosissimo principe fra i cartaginesi, dapoi che egli fu vinto dall’avventuratissimo Scipione, signor nostro illustrissimo, si condusse in Asia apresso a quel valoroso re Antioco, il quale in quei suoi tempi era mirabile. Fu ricevuto adunque graziosamente Annibale, e come suo compagno lo trattava: è ben vero che questo fu atto di pietá, acciò che i principi conoscessero che non è virtú che paragoni quella di chi è pietoso in verso gli afflitti sventurati e di coloro che hanno cattiva sorte. Costumavano questi duo gran signori d’andarsene talvolta alla caccia, spesso a rivedere i suoi eserciti e amaestrargli, né mancavano ancóra di ritrarsi certe ore del giorno nell’academia de’ filosofi sapienti, imitando tutti gli uomini d’intelletto, i quali spendono buona parte della lor vita negli studi, conoscendo non esser tempo meglio speso di quello. Avvenne che in quella etá v’era in Efeso un gran filosofo, chiamato Formione, il quale con la dottrina sua amaestrava tutto quel regno; e, come dá la sorte, entrarono i gran signori nell’academia mentre che ’l filosofo leggeva. Quando egli vide venire il re e Annibale, il sapiente uomo súbito tagliò la materia che cominciata aveva e all’improviso si diede a favellare della guerra, dei modi, delle cautele, dell’ordine delle battaglie e altre infinite materie che son utili e bisognose per combattere. Le quali cose furon sì alte e tanto nuove che non solamente egli spaventò di [p. 4 modifica] maraviglia tutti, ma il re Antioco prese di questa cosa gran vanagloria ancóra ch’un suo filosofo avesse sí ben parlato dinanzi a un principe forestiero pari ad Annibale; conoscendo che un principe savio non si debbe rallegrare di cosa maggiore che del condurre litterati, sostentar virtuosi e aiutare la virtú, acciò che la possi far luce a tutto il mondo. Domandò dopo la lezione il re al grand’Annibale quel che gli fosse paruto del suo grandissimo filosofo; onde gli fu risposto in questa o simil forma: — Io ho veduto, serenissimo re, a’ miei giorni molti vecchi aver perduto il cervello, ma il piú rimbambito vecchio di questo filosofo non viddi io né udí’ mai in tempo di mia vita, perché non è maggior segno di pazzia, d’un che fa il savio, che, sapendo d’una cosa poco, non presume d’insegnarne poco a chi manco ne sa, ma assai a chi molto piú di lui n’è intelligente per pratica e per scienza. Dimmi, re potentissimo, qual sarebbe quell’Annibale, udendo un omicciolo, che tutto il tempo della vita sua è stato in un cantone d’uno studio a lègger filosofia e poi si pone a cicalare dinanzi ad Annibale e disputare delle cose della guerra, che tacesse? E ne favella con quella audacia come s’egli fosse stato principe d’Africa o capitano di Roma. Veramente si può giudicare che egli ne sappi poco o che creda che noi manco ne sappiamo, sì come delle sue vane parole si può ricôrre, tenendosi per fermo che i libri amaestrin piú in parole il colonnello che non fanno le battaglie, gli assalti e le giornate con i fatti. O re, mio signore, che gran differenza è egli dallo stato de’ filosofi a quello de’ gran capitani! e che gran differenza troverebbe egli da lèggere nell’academia a ordinare una battaglia! Non han da far nulla le lettere del filosofo con l’esperienze del capitano valente; e se pur le si somigliano, le si confanno propriamente come le penne alle lancie. Or vedi, signor potente, con qual maniera di pratica si mena l’una e con qual forza e valor s’adopera l’altra. Questo povero filosofo non vide mai gente di guerra in campo, non vidde romper mai eserciti l’un con l’altro né udi il suono di quella tromba o quella tócca di tamburo che muove il cuore ad ardimento ai valenti e a codardia ai poltroni. Bisogna — disse [p. 5 modifica] Annibale — veder prima le furie de’ cavalli e i pochi talvolta vincere i molti, chi vuol saper che cosa è guerra. Piú tosto avrei voluto che egli avesse atteso a mostrar quanta salute nasce della pace, che era sua professione, e non dichiarare le cose della guerra, che non è suo mestiero. Nei campi di Africa si studian meglio tal cose, meglio assai, dico, che nelli scrittoi di Grecia. Io, che sono stato tanti e tanti anni in aspre, fiere e terribil battaglie, cosí in Ispagna come in Italia, volendo la tua corona che io ne parlassi, a pena mi basterebbe l’animo di ragionarne, perché noi principi cominciamo la battaglia con un disegno che ’l fine del colorirla non ha da fare nulla con il nostro dintornarla. —

Noi adunque, illustrissimo ed eccellentissimo principe, avevamo pensato di mandarvi un libro a presentare che trattasse di guerra; ma, accorgendoci dell’errore, ci siamo ritenuti, per non esser posti nel numero di questo filosofo da un signor don Ferrante Gongaza: poi pensammo di trattare della nobiltá della casa illustre di Gonzaga; e abbián veduto che l’è tanto chiara che il nostro sapere non gli può accrescer nulla né alla persona vostra aggiungere piú onore che quello che con la propria virtú ella s’acquista. Ci siamo risoluti adunque, con alcuni fiori del nostro ingegno, variati, riverentemente fargli onore e non dir altro se non che tutta questa academia Peregrina se gli inchina per suo merito; e, offerendosi ciascun particolarmente umilmente ce gli raccomandiamo.

Dell’Academia di Vinegia, alli vi di novembre mdlii.

 Divotissimo servitore

di vostra illustrissima ed eccellentissima persona
il presidente dell’academia peregrina
e academici.