I Marmi/Parte seconda/Ragionamenti arguti/Matteo Sofferroni e Soldo maniscalco
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Matteo Sofferroni e Soldo maniscalco.
Matteo. Ancóra io leggo qualche cosa: se bene attendo alle faccende di Mercato nuovo, non resta per questo che la sera io non dispensi duo ore a lèggere; e ho preso certe lezioni che, se durasse la mia vita mille anni, avrò sempre in una medesima materia che lèggere.
Soldo. Di che vi dilettate voi? di romanzi, di traduzioni spagnole, delle cose del Boccaccio, delle istorie o delle rime o altre piacevol cose?
Matteo. Le istorie son la mia vita e ho un piacer grande di sapere le cose passate; e s’io non avesse tanto che fare, a combattere con le faccende di casa e quelle di fuori, che io potesse straziare o, per meglio dire, dispensare un poco di tempo piú, io vorrei fare una fatica intorno a tutte le istorie.
Soldo. Come sarebbe a dir? che? racconciarle, correggerle e tassarle?
Matteo. Non pèsco in cotesti pelaghi; mancano uomini a far tali effetti!; anzi quando ne ho di quelle che non sono state tócche o rappezzate, l’ho piú care. Ma udite che animo è il mio, e forse lo farò ancóra: io volevo fare le Concordanze delle istorie, ciò è segnare tutti i medesimi casi accaduti, cosí antichi come moderni; tutti i signori tiranni che son stati amazzati a un modo, mettergli in un foglio; tutti coloro che si sono fatti per forza principi; e allegare dove, in qual libro e le parole formate che dice lo istoriografo.
Soldo. Un certo libro, chiamato Officina Tessitore, credo che sia una cosa simile, secondo che dice il maestro di Piero, che mette chi è morto di morte subitana, chi ha rotto il collo da cavallo, chi s’è inamorato, e cosí tutti i casi l’un dopo l’altro.
Matteo. Simile cosa; ma la debbe esser breve cotesta diceria. Io vorrei metter le battaglie seguite tutte con la suo fine, il suo esito; e che si vedesse che modo usò quello a quel tempo e questo a quest’altro, e si comprendesse la differenza del fatto, e il medesimo fine: perché si trova uno aver governato un regno in un modo e un altro in un altro e tutti due venire a un segno; cosí, per il contrario, governare due fatti unitamente e aver poi diversissimo fine.
Soldo. Che cosa leggeste voi di bello iersera? (per lasciare andar cotesta vostra fatica che l’è gran cosa certo) leggeste voi cosa che abbiate a mente?
Matteo. Iersera fu sabato; io scrissi e non lessi; venerdí sera non mi sentivo troppo in cervello, perché eramo stati il giorno a Fiesole alla Cicilia; ma giovedí mi ricordo bene della lezione quasi quasi tutta; è vero che i nomi particulari non credo sapergli troppo per l’a punto.
Soldo. Poi che ’l fresco ci serve, voi potrete ragionarne alquanto.
Matteo. Al tempo dell’imperador il gran Giustiniano, dice che fu in Roma un cavaliere di nazion greca, allevato in Italia, di mediocre statura, e alquanto di pelo rosso, ma nella legge de’ cristiani buon osservator di quella. Veramente che a quei tempi era cosa amirativa, perché non solo una gran parte de’ cavalieri erano arriani, ma molti vescovi ancóra. Questo cavaliere aveva nome Narsete, e, per esser tanto ottimo uomo e valoroso soldato, fu eletto per capitano sopra tutto l’esercito dell’imperio romano. Era gran diligenza certo quella de’ romani, che, dove sapevano che fosse valore, fortuna buona e fortezza in un uomo, cercavano d’averlo; e questo era in tal numero. Costui fu tanto fortunato e valoroso che fu detto da molti che egli fosse un Ercole nella forza, un Ettore nell’audacia, nella generositá un Alessandro, nell’ingegno un Pirro e nella fortuna uno Scipione. Era, questo Narsete, capitano molto piatoso e costantissimo nella fede di Cristo, nel dar limosine larghissimo, nell’edificare nuovi monasterii assai affettuoso e nel rifar le chiese sollecitissimo; visitava gli spedali; e, finalmente, una gran forza lo faceva assaltare l’inimico e una grande necessitá amazzarlo e destruggerlo. Di tutte le vittorie ringraziava sommamente Iddio e l’onorava, con gran zelo di divozione; né mai, si dice, andò a fare battaglia per versar sangue che molte volte prima non avesse cercato di riparare in tutti i modi che dovesse seguirne mortalitá; e piangeva prima il sangue che si doveva spargere, e, di poi che egli era sparso, ne faceva penitenza con gran pentimento.
Soldo. Ancóra oggi ci son coteste avvertenze! so che i nostri moderni lo vanno imitando benissimo!
Matteo. Stando adunque l’imperador Giustiniano in Alessandria, Totila, re dei gotti, faceva di gran danni per tutta l’Italia, di maniera che i romani non ardivano a far viaggio per quella, e appena erano sicuri gli uomini di notte in casa, non che di giorno per le strade. Fu eletto Narsete dall’imperadore ad andare a reprimer l’insolenza de’ gotti, e venne in Italia e confederossi con i longobardi, scrivendo lettere ad Albuino re loro, con quelle promesse di fídeltá e d’amore che fosse possibile a dire, e fu udito. Onde Albuino fece una grossa armata, la quale per il mare Adriatico venne in Italia; onde Narsete se ne allegrò molto: cosí dai romani furon gratamente ricevuti e s’unirono insieme sotto uno stendardo e un capitano, che fu Narsete. Totila, che intese questo, essendo ardito e forte, non avendo provata la fortuna di Narsete né la forza de’ longobardi, si fece gagliardo e mandò ad offerire la battaglia; la quale fu accettata e s’attestarono insieme alle pianure d’Aquilegia. Il dí della giornata fu terribile e sanguinoso, onde Totila fu amazzato con tutta la sua gente, e, vincendo Narsete gli fu d’un grande acquisto d’onore e ai romani d’utile. Quando egli ebbe atterrato l’inimico, donò a Dio molti preziosi tesori e spiritali e materiali e ai longobardi fece gran presenti d’oro, d’ariento, di cavalli, d’arme e di gioie e gli rimandò in Pannonia al suo re Albuino. In questo fu molto mirabile Narsete e piú mirabil fu nel partire tutto il bottino ne’ suoi soldati ed eccellente nel presentare il tempio ed eccellentissimo nel ringraziare Dio.
Soldo. Le son cose tutte belle, accadute; ma io dubito che gli istoriografi non giuochino tal volta di ciancie con la penna.
Matteo. Non so questo; io riferisco quel che ho letto.
Soldo. Séguita adunque: o sia vero o no, basta, è trattenimento piacevole e dilettevole.
Matteo. Egli accaddé, dopo questo, che vennero alcuni altri per molestar l’Italia, fra ’ quali fu nella terra di Campagna un certo Buccellino, che v’invernava con grosso esercito; e Narsete con prestezza inaspettatamente, con grand’impeto l’assalí e lo ruppe e destrusse. Un altro gran capitano, che era con Buccellino, ritraendosi, s’uní con Avidino, capitano de’ gotti, e fece esercito a Gaeta e s’unirono con molte forze, molestando i romani. La qual cosa sapendo Narsete, subito andò a trovargli, e assaltogli con fiero animo; onde vinse la battaglia e prese vivi i capitani. Avidino fu mandato da lui legato e preso dall’imperadore a Costantinopoli e l’altro fatto morire. Prese Narsete un’altra battaglia contro a Sinduale re de’ brettoni, il quale venne in Italia con gran copia di gente per ricuperare il regno di Napoli, che giá, secondo il suo detto, fu degli antichi suoi, e prese, con finta amicizia, piede con i romani; poi con ribellarsi s’inimicò. Narsete piú volte venne seco alle mani, e vinceva e perdeva ancóra spesso, perché non fu mai si aventurato capitano che non avesse qualche disdetta; onde, avendo fatte piú e piú crudeli battaglie insieme, si sfidarono a una giornata e commessero tanta e sí fatta potenza in una fortuna d’un giorno. Cosí attestarono i loro eserciti fra Verona e Trento: fu vincitor Narsete della giornata e prese il re e lo fece morire; e perché non era e non è costume di far questo, per non essere infamato, scrisse: «Io ho fatto morire il re, non per averlo vinto in guerra, ma per essere stato traditore nella pace».
Soldo. Son tutte belle cose a sapere; e voi mi piacete, perché le raccontate assai bene.
Matteo. Questa e molte altre battaglie vinse Narsete. Dopo che tutto fu quietato, il gran Giustiniano lo fece suo luogotenente e governatore in Costantinopoli, di tutta quella provinzia; e se nella guerra era stato valoroso, egli riuscí mirabile nella pace e nella aministrazione della republica eccellentissimo.
Soldo. Di grazia, scorrete insino alla morte di costui, se avete letto tanto inanzi.
Matteo. Son contento. Narsete, adunque, per fama era onorato, come colui che fu vincitore di molte battaglie; era ricco per molte spoglie e, finalmente, per il governo molto stimato. Ora, come ho detto, egli era greco di nazione e per questo era da’ romani secretamente, perché l’invidia non morí mai, odiato, e tanto piú che ogni giorno cresceva in ricchezza e veniva per suoi meriti piú glorioso. Il caso fu ultimamente questo che molti nobili romani se n’andarono dall’imperadore Giustiniano e dall’imperatrice Sofia a dolere del governo di Narsete e, dopo molte cose dette, usaron un simil modo di parlare: che avevano per manco male esser retti dai gotti che governati da un greco ed eunuco; e, con cautele, l’aggravaron molto aspramente con dire particularmente che egli per suo servizio gli costringeva piú che per l’imperio e gli aggravava di cose che non erano né lecite né giuste, onde egli ci doveva in tutto riparare; e che volevano piú tosto darsi in preda al re dei gotti potente che a un greco eunuco valente tiranno. Udita questa querela, l’imperadore rispose: — Se uno fa male, impossibile fia fargli bene, e se uno fa bene, è gran torto e gran vergogna fargli male. — Gli istoriografi dicono che l’imperatrice gli aveva, tratta da uno instinto naturale, alquanto d’odio, sí per essere eunuco, sí perché era molto ricco e sí perché si faceva ubidire e comandava piú assai di lei ed era temuto; onde, avuta questa occasione, si mostrò contro a Narsete, quando gli parve tempo, un poco rigida, altiera e disdegnosa. E venendogli Narsete inanzi, ella gli disse queste o simil parole: — Narsete, essendo tu eunuco, non sei uomo; onde non è dovere che tu regga e governi gli altri uomini: però io ti comando, come feminil persona, che, in cambio di dominare popoli, che tu tessa e cucia: vattene adunque fra le mie donne a dar loro aiuto, ché a cotesto esercizio che tu fai non se’ tu buono. —
Soldo. Fu mal detto, oimè!, e mal fatto; oh che cosa bestiale è stata cotesta! Io avrei tratto via la pazienza e mi sarei mezzo disperato. Come andò il resto?
Matteo. Rispose Narsete: — Le vostre parole, serenissima imperatrice, non come parole di donna le piglio, ma come imperatrice; però quella mi comanda da imperatrice e io come servo ubidirò, non a quella parte che è di donna, ma a quel tutto che è d’imperatrice: io, quanto son piú uomo che donna tanto maggior tela debbo tessere, e come capitano uomo tesserò e non come donna ed eunuco; la qual tela fia difficile a stessere tanto piú quanto io piú tengo dell’uomo che della donna. — E s’allontanò da lei e partissi e andossene a Napoli, cittá di Campagna; e mandò imbascidori súbito nel regno di Pannonia, dove i longobardi avevano il lor seggio reale, e mostrò con lettere e con ragioni stupende e vere quanto il reame d’Italia fosse migliore che il loro; e dovessino lasciar la terra loro, inculta, aspra, fredda e strana e venire ad abitare in Italia, la quale era terra piana, fertile, temperata d’aiere e molto ricca; e mandò loro di tutte le cose buone d’Italia, acciò che vedessino e gustassino quanto è piú mirabile il lor terreno, cavalli addestrati in eccellenza, arme ben fatte, riccamente e ben temprate, frutti molto suavi, metalli finissimi, specie e unguenti e odori stupendi e robe di seta e d’oro maravigliose. Arrivaron gli imbasciadori a Pannonia, ora Ungheria, e furon ricevuti cortesemente: e veduta tanta mirabil parte del mondo con gli effetti, determinaronsi i longobardi di venire all’abitazion d’Italia e conquistarla con le loro feroci forze; ed essendo amici de’ romani gli lasciaron da parte con poco rispetto e si deliberaron di prender Roma.
Soldo. Dice bene il vero: l’util proprio universale scaccia ogni particulare amicizia.
Matteo. Determinatisi i longobardi di passare in Italia, fu veduto per le nostre aiere visibilmente per tutto molti eserciti di fuoco e con aspre battaglie affrontarsi l’un l’altro; onde si spaventarono tutti i popoli e conobbero d’avere a essere in breve tempo destrutti e rovinati.
Soldo. Sempre vengono infiniti e gran segnali ogni volta che egli ha da succedere morte di gran potenze e rovine di gran regni.
Matteo. La ingratitudine di Giustiniano in verso Narsete e le cattive e mal dette parole della imperatrice Sofia furon cagione che i longobardi venissero alla destruzione della bella Italia. Cosa veramente da notare e che ciascun principe lo debba sapere, per essere molto avvertenti a non offendere i suoi fideli capitani, ministri e altri personaggi mirabili e gloriosi: per che egli pare che l’ingratitudine d’un signore meriti che uno che gli è stato amorevole amico gli diventi nimico crudele e di servo fidele infidelissimo.
Soldo. Io guardo che l’imperatrice fu cagione di male, secondo che la doveva esser di bene; perché piú tosto, essendo l’imperadore irato aveva da placarlo che, essendo quieto, a farlo alterare. Dove morí Narsete, ultimamente? Perché bisogna, essendo ora di partirsi, finirla.
Matteo. In due parole vi do licenza. Narsete se n’andò a Roma e amalossi e, ricevuti tutti i sacramenti della chiesa, s’andò a riposare e lasciò il mondo sentina di tutti i mali.
Soldo. Gran piacere ho avuto, messer Matteo, del vostro ragionamento e, ringraziandovi, vi lascio in buona ora.
Matteo. Vivete lieto, ché io mi raccomando.