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Carafulla, Ghetto, Scalandrone e Dubbioso e Risoluto forestieri

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Carafulla, Ghetto, Scalandrone e Dubbioso e Risoluto forestieri
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Carafulla, Ghetto, Scalandrone
e Dubbioso e Risoluto forestieri.

Carafulla. Divinamente, sta bene, tu ne sai un pien sacco; certo, sí, che tu l’hai indovinata: la luna non fa, per quanto io ne veggo, altrimenti stasera.

Ghetto. Se la non fa stasera, la debbe aver fatto; e se l’è pregna, la fará. Queste cose me l’ha insegnate la mattematica: io l’imparai sul libro di mio padre e so tutte tutte le volte che fa la luna.

Carafulla. La ti fa dar la volta al cervello la luna, il mio Ghetto. Che cosa v’è egli su quel libro di tuo padre?

Ghetto. Che il cielo è tondo e per questo si dimanda spera; ma perché mezzo va di sopra noi e mezzo sotto, perciò quella spera si taglia in due pezzi.

Carafulla. Come? si rompano gli specchi e le spere?

Ghetto. Il mondo, il mondo si divide in due parti; che si chiamano... non me ne ricordo.

Carafulla. Emisperi.

Ghetto. Sí, sí, minisperi.

Carafulla. Mezzi tondi, id est.

Ghetto. O mezzi o tutti... E dice poi che bisogna mangiarsi una linea.

Carafulla. «Mangiarsi» o «imaginarsi»?

Ghetto. Tant’è: una cosa che vadi attorno.

Carafulla. «Cinga» e non «vadi»: tu sei pazzo.

Ghetto. Pazzo se’ tu.

Carafulla. Or di’, via, ché io ti voglio lasciar cicalare da te solo.

Ghetto. Mangiata che l’uomo l’ha, la viene a mostrare il minispero inferioribus superioris e si tocca scorzone.

Carafulla. Orizzonte! [p. 62 modifica]

Ghetto. Scorzone, dico, che divide: e quando una stella va in su, che la tocca lo scorzone, la si vede; quando la casca, la non si vede.

Dubbioso. Ecco, quando l’uomo vuol fare il dotto essendo ignorante, come egli favella, si conosce. Costoro debbono esser pur troppo matti, come e’ dicono; ma quell’aver calze rosate, scarpe di seta, saion di ricami e una cappa scarlatta, con quel berrettone di velluto, mi fa parer qualche signor costui: o egli è o pizzica di buffon pazzo; ma quell’altro con il cappuccio mi pare uno scimonito tattamella. E’ vuol dire: quando una stella sale dall’emispero di sotto al nostro e giunge all’orizzonte, che è confine fra l’uno e l’altro, allora la si comincia a veder da noi; cosí, per l’opposito, quando ella è scesa tutto il nostro emispero e che la tocca l’orizzonte occidentale, che allora la tramonta e piú non si può vedere.

Scalandrone. Gran cosa che, come voi siate insieme, sempre favellate di luna! Volete che io vi dia un buon consiglio? Andatevene, perché questi giovani vi faranno qualche bischenco; maestro Antonio, andatevene, fate a mio senno.

Carafulla. Vattene tu, che tieni luogo per quattro.

Scalandrone. E io son pazzo ancóra a impacciarmi con pazzi.

Dubbioso. O uomo da bene, chi son costoro che voi avete lasciati andare in lá?

Scalandrone. Non lo sapete? Voi non dovete esser da Firenze, forse.

Dubbioso. Non io; sono napolitano o, per dir meglio, da Orvieto, al comando della signoria vostra.

Scalandrone. Perché dite voi napolitano, se séte da Orvieto, signore?

Dubbioso. Per esser stato a Napoli. Siate voi gentiluomo fiorentino?

Scalandrone. Io son bottegaio e arruoto rasoi: perché? che vorreste?

Dubbioso. Ego quero aliquid vir doctus et peritus in litterabus ebrea, grecibus latinisque. [p. 63 modifica]

Scalandrone. Aspettate qualche un altro da favellare per lettera, ché non m’intendo se non della mia arte d’arrotare; e se volete qualche cosa, favellate dall’Uccellatoio in qua.

Dubbioso. Nichile alius.

Scalandrone. S’io pensava che voi n’aveste un ramo, v’accozzava con quei pazzi: in tanto sará meglio che io vi lasci su le secche di Barberia; il mio ser forestiero, buona notte.

Dubbioso. Me vobis comendo.

Risoluto. S’io vi dico villania, perdonatemi, il mio uomo da bene. Dice il proverbio che Domenedio fa gli uomini e lor s’accompagnano; voi mi sete paruto, alla lingua, forestiero; quando io v’ho sentito sí pazzamente favellare, volendo fare il letterato, mi son fatto le croci.

Dubbioso. Andava tentando.

Risoluto. Il tentare è sí fatto, che costoro sanno piú dormendo che voi vegliando: io vi ricordo che voi avete a far con fiorentini.

Dubbioso. Io son piú tristo di loro; il diavol non l’impatterebbe meco: so fare il dotto e l’ignorante a mia posta, so fare il gentiluomo, il signore e il furfante, quando voglio.

Risoluto. Il poter fare il signore, il letterato e il gentiluomo è bella cosa; ma non fu mai signore, gentiluomo e litterato che facesse il furfante. Se voi lo potete fare, dovete esser di qualche razza di nettaferri, di far guaine, o veramente vi sete in corpo e in anima dato al tristo e al furfante.

Dubbioso. La cera non inganna, o poche volte.

Risoluto. Fate che io vi vegga in viso: per Dio, che sí; solamente cotesto colore fra il rosso e il bigio, con quegli occhietti mezzi chiusi e mezzi aperti, vi condannano; non allegate cotesto testo, ché vi fia contro a spada tratta; la barba poi pare uno pugno di setole di porco rosso mal messe insieme. E’ mi par d’avervi veduto a Roma.

Dubbioso. E a Roma e per tutto il mondo sono stato e ora son venuto qua a veder Fiorenza.

Risoluto. Ho molto caro che siamo insieme, perché ci tratterremo meglio: come è il nome vostro? [p. 64 modifica]

Dubbioso. Dubbioso.

Risoluto. Appunto stiamo bene accoppiati, come i polli di mercato. Io mi chiamo Risoluto. Quanti giorni sono che voi siate nella terra?

Dubbioso. Stasera sono arrivato; e voi?

Risoluto. Un mese e piú.

Dubbioso. Voi mi saprete dare informazione che litterati e che virtuosi gentiluomini sono in questa cittá.

Risoluto. La vostra fisionomia non mi par giá da cercar sí fatte cose; anzi ogni altra cosa mi dá l’animo che vorreste salvo che ritrovar virtuosi.

Dubbioso. Sí, a fé mia, per quanto bene io vi voglio, realmente, signor, che l’è cosí.

Risoluto. Qua ci sono uomini che hanno pochi pari al mondo: nelle lettere grece, c’è il mirabil Vittori e altri infiniti che sono dottissimi in quella lingua, fatti sotto la dottrina di sí raro spirito; le lettere latine ci fioriscano mirabilmente; il Varchi è eccellente; e nella filosofia molti e molti si fanno divini; di gentiluomini poi che son litterati, che attendono alle faccende del mondo, quanti ce ne sono in questa terra! tanti che voi stupireste; messer Filippo del Migliore se ne chiama uno che mai praticaste con il piú raro ingegno, gentil, cortese, reale, ed è de’ grandi uomini da bene che si trovi. Ma ditemi: voi dimandate de’ dotti; voi dovete esser certo ignorante, perché l’academia di questa cittá lo dimostra con tante opere stampate che tutto il mondo n’è pieno. Avete voi vedute le lezioni che hanno lette molti begli intelletti? l’opere del Segni intelligente, del Bartoli supremo, del Giambullari raro, del Gello acutissimo, e altri infiniti sapienti fiorentini?

Dubbioso. Signor no; perché la profession mia è l’ebreo, eccetera.

Risoluto. Non dite altro, ché io v’ho: giudeo, volete dir voi, ancor che siate battezzato, n’è vero? O che non credete nulla? Certo che la corrispondenza delle parole non traligna dalla faccia. [p. 65 modifica]

Dubbioso. Voi pigliate ogni cosa in cattiva parte: cotesti libri son nuovi e io perché son mal sano...

Risoluto. Anzi, per dire il vero, potete finger sempre d’essere amalato, per la cattiva cera che avete.

Dubbioso. ... mi sto sempre in casa per poter meglio studiare.

Risoluto. Ci sono assai cagioni che tengono in casa le persone: la paura delle mazzate: «Debitoribus nostris»; e l’esser mostrato a dito: «Ve’ colá, vedi colui! oh che giuntatore solenne! E’ fece una volta una lettera di cambio falsa e rubò con essa non so quante centinaia di ducati».

Dubbioso. Ringraziato sia Dio, che io non son di quel numero.

Risoluto. Non vi scusate e non cercate di difendervi. Chi dice a voi? Favello delle cagioni che fanno stare sempre gli uomini rinchiusi.

Dubbioso. Ce ne son dell’altre da dire, che calzan meglio: per fare il grande, per farsi corteggiare, per poter dire: «a casa mia viene il signor tale, messer quale, il tal dotto, il tal virtuoso, quell’eccellente e quell’altro letterato».

Risoluto. Cotesti son poi panni caldi, fummi, e altre baie da ridersene: pascetevi pur di cotesto: alla fé, alla fé, quando uno ha da pagar la pigione di casa, bisogna altro che visite! o bisogna che tu ti fugga fuori di notte tempore o che di giorno gli uffiziali te la svaligino per pagare il padron di casa: «diavol è» — disse don Santi.

Dubbioso. Qualche meccanico cade in simil furfanterie o qualche parabolano che si vanta d’esser questo e quello e che toglie abitazione non da suo pari furfante, ma da gentiluomo per parere.

Risoluto. Sia come si voglia; questo è un ragionare: a chi tocca, lo sa. Io veggio lá un mio amico: la signoria vostra resti; a rivederci un’altra volta; s’io non avessi una faccenda che m’importa, starei con voi tutta questa sera. Domani ci rivedremo in Piazza de’ Signori.