Hypnerotomachia Poliphili/XXXII
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piace. Finite probamente le sue grave parole la lepida Antista. Poliphilo tuto alacre et contento incomincioe cusì a narrare.
POLIPHILO LAUDA LA PERSEVERANTIA, OBEDIENDO AL IUSSO DEL’ANTISTA. INTERMITTENDO LE PARTE DICTE DEL SUO INAMORARE NARRA ET COME LA VIDDE AD UNA FESTA NEL TEMPIO, OVE D’AMORE SUMMAMENTE EXAGITATO, PIÙ POSCIA SE DOLSE DEL SUO DISCESSO. DIQUÉ LI MANIFESTA IL SUO CRUCIAMENTO PER INVENTIONE DI MANDARLI UNA EPISTOLA.
EVERENDA ET SANCTA ANTISTA, VIRtute è nelle ardue et ferale fatiche, et turbulenti incommodi, et ingrato dispendio, il sapere conservarse, et cum suasibile sperancia, al distemprato animo, freno et temperatura cum probitate et solerte modo ponere, et non impatiente et inconsulto praecipitare et cassitare, ma sufferendo perseverabondo praestarse allo incepto. Quantunque cosa arctissima et difficile se sia et alla volubile et obstinata sorte, et alli sui ludibrii, et insidiosa versutia, cum dissimulamento cedere. Perché non cum fortitudine, ma cum virtute et ingegnio se vince. Quale Bellerophonte perseverante succedette a gloria. Perché a tutti gli stipendii et pretii il strenuo milite la gloria antepone. Volendo dunque io legittimamente lo honorio, che è il debito et expectato premio del mio amoroso Agone consequire. Fermamente valeroso disposime di durare obiecto a che il violentoso Cupidine di me facesse despecta la opprobriosa inconstantia. Arbitrando dementia et levitate essere, il timido et vecorde accedere alla pugna, et niuna cosa praestarse più valida che la fortecia dill’animo. Et non mediocre pudore et verecundia suadentimi al milite advenire, che nel principiato certamine tergavertire et monstrare le spalle. Ma sopra tutto mai al militante se appertiene disperare. Et nella iniciata pugna deficere, perché meglio è non principiare, cha principiato havendo, lassare lo incepto. Diciò si io non vario mi pare che veramente foelice non se pole appellare. Si ello alquanto non hae il suo opposito sustenuto. Perché d’indi nasce insolentia, si genera confidentia, dalle quale procede lo exito infoelice. Quale a Policrate. Et peroe la perfectione del paragonio tanto megliore si sente per il suo contrario, como sopra l’indice Batto chiaramente si comprehende. Oltra di questo Sacra Madona, si Polia egregia puella quivi praesente (le cui invisitate bellece, gli spiriti coelesti facilmente contaminarebbono) sencia fatica, dispendio, et amaritudine di core, et periclitabondo della privatione dell’amabile vita, havesse tirato al mio ardente disio, per Iove immortale, etiam similmente la potria sencia quelle parte levemente lassare. Ma chi non hae repugnantia, gloriosa palma non aquista, et che a quella non persiste. Perché né gloria, né triumpho, né alcuno bene consequire si pole sencia industriosa faticha, dunque la faticha è causa di bene, et perseverantia il parturisce, cum le Comite. Et per questo cosa più pretiosa è (et cusì si tene) la quale erumnosamente aquistassi, che la adepta acconciamente. Lucio perciò Sicinio Dentato, della sua fortecia non sarebbe dignificato di laude et memoria, si le Stigmate obducte degli vulneri sui al dorso fusseron vidute. Perché agli degeneri militi facile si praesta il postergato ferire. Ma agli forti resistenti s’appertiene solo dinanti il vulnerare. Per la quale cosa, Amore nel mio contaminato infecto, et inquinatissimo core delle sue morbide qualitate, essendo disconciamente salito invasore, più urente dispiacevolecia usoe, che non usa il meridionale Ethon di Phoebo agli freschi floruli et mollicule piante, et herbule. Il quale immoderatamente più lo arde che lo insatiabile Vulcano Ethna. Per la quale causa, strictamente essendo di tale effecto incapestrato, infiniti accidenti et varii accessorii, et multiplice discrimine, cum evidente periculo monstroe la mia dispietata, collapsa, et infirma fortuna contra di me, a ttorto ludibonda. Degli quali casi pernitiosi, et exitiali al praesente in alcuna parte obediendo al voto tuo, incominciarò io brevemente di narrare.Insigne Sacerdota, et praestantissima Domina. Daposcia che sono quietati, et alquanto sedati gli mei letali langori, satisfare properando agli tui benigni praecepti. Più cum mie piacevole parole, che cum lachrymosi singulti tocare’ quella parte, che io son sortito tanto praeclaro amore (tacendo quello che già dicto è) più fervido et activo me totalmente strinxe. Hora me, nella tua veneranda, et eximia, et di Polia gratiosa praesentia foelice reputando, prehenderò modesto ardire. Da poscia che cum humanissimo volto, te monstri non te agravare di questa auditione.
Essendo Phoebo a risugare le fresche lachryme della Plorante Aurora salito, cum gli recentati et aurei radii, fugata omni stella dello oriente, illuminava cum il suo Eoo, l’hemisperio nostro disterminato dal horizonte. Et facto il laborifico giorno, discussa la pigra quiete. Et essendo la ponderosa terra di novello virore revistita, et qualunque animale leto all’opera della effetrice natura intento. Perveni al sacro Tempio della casta Diana, giamai questa, più non sperando di rivedere. Nel quale essa, et molte altre puelle nobile et praestante, festevole, cum solemni riti, et celebri officii, in quello almo dì Hymnete celebrarono. Et quale il ligno già una fiata stato nel foco, poscia reponentilo più repente se reaccende, che non faria quello che unque fiamma sentite. Como il ritornare sopra la impromptitura la sua forma. Non altramente di essa avidutome, quietamente inspectantila, et recensita tra tutte quelle (Quale una Dea tra le sue Nymphe eminente) più praestante, et più decoratissima di venustissime bellece (multiplicate da grande disio) più ornata et elegante ad me manifestamente se offeritte l’angelica sua forma. Cum gli ochii più belli et lucidi che ’l chiaro Sole rutilanti. Per gli quali tutto il loco corruscava, cum l’altre singulare virtute agminatamente stipata. Diqué di suavissimo ardore excitato, reiterai da capo a pedi et per tutto stupido reaffocarme incandescente. Et allhora le provocate fiamme, et gli amorosi lampi, dalla sua serena fronte et placido vulto, et della novitate della admiranda bellitudine procedere cognovi. Et cusì come Pandora Cerere, prima nelle fertile terre, dal unco vomere subvertite, le arendevole frugie disseminoe, et Mellisso Re degli Cretensi, primo agli summi Dii religiosamente sacrificoe. Cusì io primo ad essa votai et offeritti l’alma et il core mio. Et cusì prima essa nel tenero core seminoe, dalle pongiente sagitte arato, gli amorosi incendii, più noxio et mortale semento, che non sparse Iasone, et pegiore Annona. Subitamente io proclivulo alla praesta, et repente rapina, più tenerrimo, che al foco ardente l’albente et liquabile cera, disposita poi recevere le impresse imagine. Onde per diutino et continuato ardore, il core mio evaso flagrante fornacula, nella mia mente disposi essa aeternalmente amare, como excessivamente amo. La venusta et honesta praesentia, della quale auxiliabonda, et optimo et coeleste irroramento, et remediabile sublevamento, al mio arsibile, et fragile core istimava, et salutare refugio. Dummentre cum scrutario et applicato risguardo, mirava indefesso il Divo operamento, cum gli ochii al delicato, et elegante volto sempre inhaerenti. Ove Cupidine Alumno in me gli crebri fulmini iaculante solicita. L’aspecto del quale volto, più ornato apparendo, che l’amplissimo coelo, perspicuo liquido, sereno, et purgatissimo aere intersito existente, di lucidissime stelle ornatissimo si vidde. Nel quale due delle più lucente illustravano converse in dui festivoli ochii praefulgente. Et da dui tenuissimi, et arquati cilii soprastanti nigerrimi decorati. Negli quali tantulo escamento, et incitabulo d’amore, et tantula singulare bellitudine, quantula lo opificissimo Iove unque imaginare poté in quelli ponere, et nel risiduo formale et specioso figmento postogli omni perfecta diligentia. Che tale Phianore nella effigie di Neptuno (la natura imitatore) a dipingere non sapé né posse. La quale spira similitudine di purpurante rose commixte tra lactei et albicanti lilii. Et tra gli purpurissimi labri spirava una Myropolia, et Emporio di mira fragrantia, in una apothecula di candidissimo Eboro, in parvissimi denti ordinariamente disposito obsepta. Il capo biondissimo, che non è cusì la Betica palea maturata, più belli all’ochio, che si essa havesse del fluviolo Gracis degustato. Le quale tutte cose praecipue in essa manifestamente (ultra la insigne occultatione) vedendo non solamente contento, ma certamente sopra qualunche amante foelicissimo me appretiaria, si ella mi donasse il suo pretiosissimo affecto, cum l’animo ad essa volitante secretamente dicendo. O summi Dii, cusì essa potesse io aptamente redure et violentare agli mei infiammati disii, como Acontio Cydippe ridusse, cum lo inganevolo pomo decepta, o cum commoda fortuna, quale il fero Achille cum la gentilissima Deidamia conquistoe, overo per altra via. Et quanto più intentissimo me stava in immenso oblectamento et periocundissimo dilecto, et non altro realmente che coeleste dimonstratione, mi parea praesentialmente fruire. Et chiaramente vedendo essa, et quando ridibonda, et quando morigeratamente parlare, tal fiata verso me dirigere gli sui stellanti et gratissimi ochii, acompagnati cum due vermiglie rose, suffusi di honestamento et di elegantia. Et quando perita et aptamente ad gli sacramini instituti et impositi officii ministrante, cum gesti Nymphali, cum integro et divoto intento, et cum gravitate matronale. Et alcuna fiata all’orechie pervenendo quella voce che suscitabonda, invitava l’alma mia all’exito, et al repudio del suo caro coniuncto, mi se commovevano tutti gli spiriti. Sententime per tutto coprire et circundare di una inexperta suavitate. In tanto che l’alma neglecto il suo naturale domicilio, sempre cusì cum Madona Polia, a piacevole feste ella sarebbe moribonda perseverata. D’indi dunque cognoscea lo impetuoso insulto allo amoroso foco, et di questo la sua vegetatione per essa contemplare. Né diciò redimere sapeva, cum valide force d’ingegnio, gli insanabili ochii dal dolce lenocinio, del core mio dal viso formosissimo paedicati. Ma suspirante tacito, cum firmissimo proposito diceva.
Di questa insigne Nympha per certo son io tutto. Nel suo blanchissimo pecto consiste tutta la mia adulabile sperancia, et in quello ho reposito et intruso omni mio bene. Questa decentemente reverisco, et essa sopra tutte honorifico et colo. Né più né meno che gli Atheniensi la sua Pallade. Et gli Thebani il piacevole Baccho. Et gli Indi Dionysio. Gli Romani Libero. Et gli Arabici Adone. Gli Ephesi Diana. Et gli Paphi la sanctissima Venere. Et dagli Tyrii Hercule. Et dagli Aricini la fascelide Diana. Et questa indefesso sequito. Quale Helitropia Clymene in fiore mutata vertibile gyrasse sectaria l’aspecto del suo amato Phoebo. Et cusì io cum amorosa secta suo voglio essere. Sempre cum questo medesimo stato della mente né per terriculamento, né per oblectamento mai pulsabondo. Ma cum affectuosa perfunctione, ad gli sui voti humillimo voglio succumbere. Como la timida perdice nelle unguicose branchie della rapace Aquila. Né altra imagine, né simulachro, né delubro nel intimo del mio core affixibile né dipincto, né exculpto io tengo. Et per costei spero ristorarme, et amorosamente vivere leto, existimandomi magiore decoramento, che agli regi la Diadema, il Paludamento agli Imperatori, agli Pontifici il Galero, et il Lituo agli Auguri. Et Polia dominante Poliphilo, questa sarae la mia laude, gloria, honorificentia, et sublimitate, offerentime nella sua amorosa deditione, cusì victo, et cusì prosternato. Sperando unanimi di permeare agli triumphali regni et al delectevole stato della Divina Cytherea.
Stante dunque variamente rapto, dementato, et absorto, in questi fincti tanto delitiosi cogitati et pensiculamenti, et fruitione di tale imagine di hora in hora, et di puncto in puncto gli adventicii et caechi vulneri nella consentiente alma gliscenti se foecondavano, et ricevuta, et di me usurpata del tutto Cupidine la iurisditione, Tyrannide, et licente potere. Ad tutto tale mysterio affectuoso. Questo solo summamente desiderava. O me potess’io aprirgli et discoprirli l’animo mio et indicare gli mei intrinsichi disii. Cum il Socratico affecto, di fenestrare il pecto, et di monstrarli la percussura dell’amorosa plaga, et lo immoderato amore, che io li porto, et dirgli del mio premente laqueo, et della urgente fiamma, per la quale liquato il core se strugie, et monstrarli la dissipatione della amorosa vita. Et dirli cum pietose et mite parole, et gemebondi lamenti. Et lo ultrario, che cum amarla io sustengo. Et cusì cum la mente erratica, discola, avia, et vaga, di intemperato ardore supremamente languiva, et quando suspirante, et quando leto, hora placido, quieto, et tranquillo, tal hora indignato sencia sperancia haesitante, et discontento. Quel dieculo Sacrato et celebre, cum questi permixti et inversi accessorii consumai brevissimo per più che uno atomo di tempo extimato, et più che instante momento.
Et già il rubicondo Sole, et inberbe alle extreme parte di Hesperia, la futura serenitate indicando. Dal sacro oraculo le delicate et ingenue et promiscue donne, prehendereno discesso et commeato. Et ad gli solemni officii, et cerimoniale observantie (Non quale gli Aegyptii ad Iside et Osiri cum plangore. Né como gli barbari cum strepito Cymbalistario, et Tympanistario, et Choraulario. Ma como gli Graeci cum Choree cum melodi canti, et latii consecramini di virguncule, cum divotione, et cum summa alacritate gestite) feceron fine. Diqué dagli mei impasti ochii et vacilanti sensi, la sua eximia et non humana imagine separatose et seiugata, me ritrovai decocto et arso da vehemente amore, et crepitare quale Sale brusato. Et cum gli obstupefacti ochii dalle illustre bellece, et dala nitella, et geniale politura della sua scitula formula. Di chostì io ancora cum saepicule salutarla, et tra me dicendoli. Vale vale latroncula et foracicula di omni mio bene, et secretamente vale replicando crebicule, cum quel pauculo di core, che ella nel suo discesso in me restare permesse, sentendomi rapire et asportare seco l’anima mia, feci et io durissimamente et singultando discesso. Facto il suo lacteo et candicante pecto di me spolie alto Trophaeo et delitioso repositorio. Non per altra via Heu me cum gli ochii desiderosamente sequentila che lo amato Protesilao l’ardente Laodomia indolorata mirava il suo dispartire. Et più mischina non lo cernendo cadette sopra il litore moribonda, piangendo da mortale dolore il suo Protesilao frequente chiamando. Cusì io doloroso cum dulcissime lachrymule uberrimamente resultante quale pluvie guttule Polia chiamava, invocava, richiamava. O Ariadne isciagurata trovastite cusì desolata di omni sperancia, non vedendo il tuo perfido mentitore Theseo? Spargendo il suo nome, et inane, et vanamente vocando per gli vasti antri et cavate Rupe della deserta Dia vocantelo cassamente. Non altro agli ochii tui Sucidi obiectantise apparendo, che gli arrosi Scopuli, gli rigidi monti di Murice, gli silvatici arbusti di Prini, et gli asperrimi littori, gli curvamini delle ripe, dalle strumose unde et da irruenti flucti undirugi. Como hora me misero relicto dal mio ritrovato dilecto, dal mio unico bene, et efficacissimo rimedio in tanto lachrymabile angore et aspero tormento? Cum reaccendimento di più feroce amore? Et cusì honerata d’omni dolore? Et diciò sentome spasimare. Perché il leviamento delle mie angustie singularmente mirantila sentiva. Non mi suado dunque che tu, o Ione sfortunata nel tuo chiaro patre Inacho, cusì afflicta te vedesti cum la mutata forma, et cum le già flave trecce facte nocevole et rigide corni. Et la humana voce tonante mugiare. Et gli viridenti prati divenuti inusitato alimento? Rimasto son non meno lamentabondo, disconsolato, et sbigotito, per gli commutati piaceri in gravissime penalitate, dagli ochii mei di lachryme pluvii quel praeclaro lume detracto, et tolto. Per il quale praecipitantemente dedi adito, et hiante ingresso ad quella sancta, et aurea sagitta, non unquantulo repugnace, ma humilmente proclinato flectentime (Quale lenta et tormentabile virgula salicea torquentime et più plicabile che salice amerina in strophia ritorta) aspectai, reputando extremo spasso et singulare dono dato dal Signore Cupidine, né unque pienamente, né scrupulosamente saperia, et tutte le circunstantie disertare, il ricevuto et degustato oblectamine, che io depraedava dalle sue incomparabile bellece, cum gli altri decorissimi correlarii. Relicto sencia quella illuminante et celica facola, la quale efficacissima usava agli mei obscuri cogitamenti, o lume splendido della caeca mente mia. Madona della vita. Signora del mio volere. Regina del Core. Imperante Dea de l’alma mia. La quale da qualunche parte assediata, et circumpulsa, incomincioe gravemente alterarse intro l’arso pecto. Et per questa cagione succensa, et per tutto extuata urentise più suave mugito alla hiante bucca rimandava, cum dolorosi suspiritti dal diro cruciamento, che ’l fusore, et Significo Perillo, nella vacua machina dil aeneo Tauro dal Tyranno Agrigento incluso. Non per altro modo l’alma mia intersita, et nel fornaculato pecto introclusa, da isfocato et ardente amore consumavase. Perché non tanto la humanitate gaude et gesticula usando gli sui delectamenti, quanto se dolora poscia et contristase più della privatione di quelli. Ma per tutto ciò grave non aestimavi per sì facta puella strugerme, né frequentemente morire. Ma ad omni maiore supplicio promptissimo me exponeva festinante. Dunque d’indi è sequito che sperando di rivedere, le seiuncte bellecie, reaquistare le perdite leticie, ristorare le interrupte dolcecce dagl’ochii mei et il novello et praeexcellente amore reintegrare et conservare, et conservando augmentare. Essa, o me quanto indebitamente, et per iniurio da me fugacula, torto mi faceva, essendo permaxime negli praecordii, cusì aspro incitamento, et mordicante disio di essa sola fundito creato. Niente dimeno me inferrociva audaculo misero me contra tanto validissimo amore infirmo, et contra il suo valoroso potere fragile ingerendome, biasimando l’arco suo malamente, che il medesimo indignabondo ad essa non facesse, et che esso non se praestava contagioso, imprecando contra ella, et dicendo. O altissimi superi fate questa saeva morire, che cusì impiamente me fae morire. Et si io moro, et essa non almeno fate vendecta tale, per tanta immanitate verso me perfuncta, che essa vivendo chieda morire, et audita da vui non sia. Acioché questa gloriosa morte, miseramente vivendo non aquisti. Heu me repente in me la ragione reciprocata, tutti questi absurdi maledicti, contra la mia Polia imprecati, in me gli ritorqueva. Hei Poliphile, contra il tuo bene, adverso l’anima tua, contra il core tuo, et adverso la tua sperancia sei tu auso temerariamente biastemare? Et quel sacrario di omni virtute (Quale Herostrato) maledicendo nephariamente invadere? Damnava dunque la rabia amorosa che me di furore exarse, et che me cusì dementava, precando gli Dii poscia per essa tutto il contrario, et tutto in benedictione rivocando. Hora non più appreciando il morire, che cusì vivere, disposimi di ritrovare assai habile et honesto comento di darli noticia hogimai degli mei molesti et insupportabili langori, et conferirli il mio eterno concepto. Pensando rectamente, che il non è cosa tanto dura nel core humano concreta, che cum il foculo d’amore non se mollesca, vinca, et doma. Et la ritonda Pila apta di rotarse stabile persiste. Ma chi gli dà lo Impulso, sae l’officio della sua circinata forma, per tale argumento cogitai di scriverli, et di
tentare, quale si fusse l’animo di sì nobile et Ingenua Nympha, mirabile composito di omni virtute et praestantia, ma ad me diutino certamine et turbida seditione, assidue anxietate, et continuo dolore, familiare morte sencia privatione, per la privatione di una cosa tanto elegante, optabile et amata. Et diciò non mi suadeva tale opinamento che in essa altro se