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alimento? Rimasto son non meno lamentabondo, disconsolato, et sbigotito, per gli commutati piaceri in gravissime penalitate, dagli ochii mei di lachryme pluvii quel praeclaro lume detracto, et tolto. Per il quale praecipitantemente dedi adito, et hiante ingresso ad quella sancta, et aurea sagitta, non unquantulo repugnace, ma humilmente proclinato flectentime (Quale lenta et tormentabile virgula salicea torquentime et più plicabile che salice amerina in strophia ritorta) aspectai, reputando extremo spasso et singulare dono dato dal Signore Cupidine, né unque pienamente, né scrupulosamente saperia, et tutte le circunstantie disertare, il ricevuto et degustato oblectamine, che io depraedava dalle sue incomparabile bellece, cum gli altri decorissimi correlarii. Relicto sencia quella illuminante et celica facola, la quale efficacissima usava agli mei obscuri cogitamenti, o lume splendido della caeca mente mia. Madona della vita. Signora del mio volere. Regina del Core. Imperante Dea de l’alma mia. La quale da qualunche parte assediata, et circumpulsa, incomincioe gravemente alterarse intro l’arso pecto. Et per questa cagione succensa, et per tutto extuata urentise più suave mugito alla hiante bucca rimandava, cum dolorosi suspiritti dal diro cruciamento, che ’l fusore, et Significo Perillo, nella vacua machina dil aeneo Tauro dal Tyranno Agrigento incluso. Non per altro modo l’alma mia intersita, et nel fornaculato pecto introclusa, da isfocato et ardente amore consumavase. Perché non tanto la humanitate gaude et gesticula usando gli sui delectamenti, quanto se dolora poscia et contristase più della privatione di quelli. Ma per tutto ciò grave non aestimavi per sì facta puella strugerme, né frequentemente morire. Ma ad omni maiore supplicio promptissimo me exponeva festinante. Dunque d’indi è sequito che sperando di rivedere, le seiuncte bellecie, reaquistare le perdite leticie, ristorare le interrupte dolcecce dagl’ochii mei et il novello et praeexcellente amore reintegrare et conservare, et conservando augmentare. Essa, o me quanto indebitamente, et per iniurio da me fugacula, torto mi faceva, essendo permaxime negli praecordii, cusì aspro incitamento, et mordicante disio di essa sola fundito creato. Niente dimeno me inferrociva audaculo misero me contra tanto validissimo amore infirmo, et contra il suo valoroso potere fragile ingerendome, biasimando l’arco suo malamente, che il medesimo indignabondo ad essa non facesse, et che esso non se praestava contagioso, imprecando contra ella, et dicendo. O altissimi superi fate questa saeva morire, che cusì impiamente me fae morire. Et si io moro, et essa non almeno fate vendecta tale, per tanta immanitate verso me perfuncta, che essa vivendo chieda morire, et audita da vui non sia. Acioché questa