Nella storia di una famiglia di viticultori il segreto del vino più prestigioso d'Italia

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Nella storia di una famiglia di viticultori il segreto del vino più prestigioso d'Italia
VI VIII

TRA COLLI E CASTELLI DI MONTALCINO

Visita ai vigneti e alla cantina di Franco Biondi Santi, il viticoltore senese le cui bottiglie superano, alle aste per i collezionisti, i prezzi di tutti i concorrenti. E' il frutto dell'opera iniziata, da oltre un secolo, dal trisavolo, il cui vino fu premiato a Parigi, continuata dal nonno, che la cura per i grappoli migliori condusse a selezionare un vitigno originale, il Brunello, per giudizio unanime uno dei più prestigiosi dell'albo della nobiltà ampelografica nazionale

E’ la cortesia di una coppia di patrizi di Firenze, cui ricorro, ospite di una villa marina offertami per una vacanza solitaria, per risolvere necessità casalinghe, a offrirmi l'occasione di una visita, a Montalcino, all'azienda di Franco Biondi Santi. Risolta, infatti, la necessità domestica per la quale ho fatto ricorso al buonvicinato, converso con gli ospiti fiorentini delle mie vacanze marine: pesco, spiego, e scrivo. Lui, un anziano gentiluomo polacco trapiantato a Firenze da più di un decennio, mi chiede di cosa scriva, spiego che sto lavorando alla biografia di un agronomo ottocentesco, lei, italiana ma protagonista di un'ardita avventura fazendera in Brasile, annota che il tema costituirebbe l'argomento di conversazione più gradito per un vicino di casa comune, il dottor Biondi Santi, titolare della più famosa casa produttrice del Brunello. Premurosissima, la mia ospite telefona ai vicini: il dottore non c'è, la signora avrà il piacere di incontrarmi domani. L'indomani conversiamo ancora di svaghi e letture marine, dei miei agronomi ottocenteschi “Mio marito la incontrerebbe volentieri -conferma la signora- Vuole andarlo a trovare? Domani è in azienda. Lo chiamo e lo informo.”

Vigne e castelli

Dalla costa grossetana a Montalcino è un'ora e mezzo attraverso la piana che da Castiglione della Pescaia si distende fino a Roselle, quindi tra le colline aspre e aride di Batignano e Paganico, poi tra i dossi gentili della Val d'Orcia. Ai primi tornanti con cui la statale si inerpica verso la rocca senese noto con stupore l'insegna che indirizza al “Castello Banfi”. Ricordo la mia prima visita a Montalcino, oltre vent'anni fa, e la giornata indimenticabile con il proprietario del castello di Poggio alle mura, il più affascinante avventuriero economico che abbia incontrato nella vita, grandi appalti ottenuti tra i colpi di stato in Venezuela, la devozione più incondizionata al cimelio di storia italiana che l'esito felice degli affari gli aveva consentito di acquistare tra la Maremma grossetana e le Crete senesi. Convinto di essere depositario di un tesoro della civiltà italiana, di quel cimelio non avrebbe alterato una sola porta: per celebrare quarti di nobiltà di cui non credo di essere il solo ad ignorare i fasti i nuovi padroni al castello hanno imposto il nome di famiglia, e della ditta. Lo stile, sentenziò Voltaire, è l'uomo.

Sotto la rocca di Montalcino chiedo la strada allo spazzino comunale, che in armonioso senese mi indica la direzione e mi spiega che non dovrò percorrere che pochi chilometri. Trovo l'insegna, volto a sinistra lungo un viale di cipressi, emblema perenne della campagna toscana, giungo alla grande villa. La segretaria mi dice che il dottore mi aspetta, ma è impegnato per cinque minuti, congeda, intanto, un fotoreporter americano, venuto a Montalcino con la speranza di vendere il servizio che realizzerà a National Geographic. Mentre ripone nella borsa gli strumenti dell'arte ho il tempo di scambiare qualche considerazione sulla difficoltà, per chi svolga l'avventuroso mestiere del free lance, di vendere i frutti, siano pure eccellenti, della propria fatica.

Scende, intanto, dall'austera scalinata, il padrone di casa, che rinnova i saluti all'ospite americano e mi porge un cordiale benvenuto, con il quale mi invita a seguirlo nella visita alla cantina e ai vigneti. In cantina tre donne stanno procedendo alla colmatura delle bottiglie di Brunello del 1975 che i collezionisti hanno riconsegnato al produttore per sostituire, con vino dell'annata, il liquido evaporato in venticinque anni di conservazione, sia pure stata la più meticolosa. Con legittimo orgoglio il mio ospite mi mostra le fasi dell'operazione: non sono molte, nella geografia enologica del Continente, le aziende cui gli amatori chiedano, ogni quarto di secolo, qualche millilitro di vino originario per ricolmare le ampolle che conservano il proprio tesoro. Delle gocce con cui vengono ricolmate le bottiglie di cento appassionati mi viene offerta l'occasione di un eccezionale assaggio: sorbire tanto liquore da una bottiglia appena sturata, senza offrirgli il tempo di rivelare, ossigenandosi, le proprie doti, mi pare delitto contro le leggi dell'alta enologia, ma mi assoggetto, e sogno cosa sarebbe quel sorso tra sei ore.

Percorriamo, conversando di uve e di vini, i corridoi tra le auguste batterie di botti di rovere, visitiamo le cantine che ospitano, in contenitori metallici, le riserve delle annate gloriose, il mio ospite mi conduce, quindi, eseguendo il periplo di un poggio aprico, attraverso i vigneti, dal vecchio arboreto consociato, viti e olivi, in cui il nonno, Ferruccio Biondi Santi, scoprì la vite da cui ebbe origine il Brunello, alla conca che tre grandi ruspe stanno sagomando a gradoni per realizzarvi l'ultimo vigneto dell'azienda. Sul lato opposto del colle Franco Biondi Santi mi addita un grande campo in dolcissima pendenza coperto di medica: avrebbe potuto realizzare il nuovo vigneto dove cresce la medica, mi spiega, ha preferito, affrontando la spesa di decine di milioni, farlo nella conca rivolta al sole, meno fertile, più idonea a produrre uve nobili.

Naturalisti, agricoltori, cantinieri

Procedendo tra vigneti antichi e recenti abbiamo proseguito la nostra conversazione sul vino e la sua storia, che continua ancora nella grande biblioteca della villa, dove il mio ospite mi mostra le opere dell'antenato che insegnò scienze naturali, a Pisa, nel Settecento antagonista di Pavia per il primato tra i centri del sapere naturalistico. Le opere di un dotto che professò il proprio sapere nell'alone di Pietro Antonio Micheli, di Felice Fontana e di Giovanni Targioni Tozzetti accendono la mia curiosità. Dal vino la nostra conversazione si è spostata alla storia delle scienze: per poterla proseguire il mio ospite mi invita a partecipare alla propria colazione, che mi preannuncia oltremodo parca: panzanella e rosé di Brunello. Amo la panzanella, che sui miei monti modenesi non ho molte occasioni di assaporare: poterlo fare innaffiandola di tanto rosé mi pare prospettiva deliziosa. Non posso non accettare. A tavola conversiamo ancora di vino e di scienza, dopo il caffè il mio ospite mi congeda, donandomi due bottiglie del proprio nettare e fornendomi, per soddisfare le mie curiosità giornalistiche, una cartellina di articoli sull'azienda e il suo vino, redatti da giornalisti di diversa arte e di differente prestigio.

E' leggendo quegli articoli, dopo avere religiosamente riposto in cantina le due bottiglie, che rilevo la nota comune che li intona: una nota di stupore per l'eccezionalità del vino dell'azienda, per la sua straordinaria conservabilità, per il prezzo delle bottiglie di Biondi Santi, per quello dei millilitri forniti agli amatori per ricolmarne i preziosi recipienti. Durante la visita personalmente sono stato colpito soprattutto da una frase, che il mio ospite ha ripetuto più di una volta: “Ho trovato la strada tracciata, io ho continuato quella strada”. E attratto dal diploma, che Franco Biondi Santi mi ha mostrato con orgoglio, guadagnato dal trisavolo, Clemente, all'esposizione universale di Parigi del 1867 per il proprio vino rosso.

Trent’anni di letture nella biblioteca del passato dell'agricoltura mi hanno consentito di percepire quanto i négociants parigini che decidevano l'indirizzo di qualunque commissione di assaggio parigina, fossero casta orgogliosa delle proprie prerogative, quanto fosse eccezionale l'apprezzamento che potessero concedere ad un vino francese che non provenisse dal Bordelais o dalle Cotes di Beaune, assolutamente eccezionale quello concesso a un vino straniero, soprattutto italiano. Trent'anni di letture nella biblioteca dell'agricoltura del passato mi hanno dimostrato, insieme, l’inanità degli sforzi dei pochi pionieri dell’enologia moderna per migliorare la qualità dei vini italiani, a metà dell'Ottocento plebe di bevande ignobili, anche in Toscana, una regione che aveva mostrato segni precoci di rinnovamento, che non erano stati seguiti da un generale processo di aggiornamento, come provano le decine di note che si susseguirono sugli annali dei Georgofili, ripetendo il compianto per vini ottenuti da mescolanze casuali di uve nere e bianche, da fermentazioni interminabili, sempre troppo densamente colorati, tannici e acetosi, aspri e male conservabili. Tanto che i patrizi toscani, lamentano gli antichi accademici, proprietari di aziende nelle cui cantine si producevano migliaia di ettolitri di vino, portavano da Firenze, sulla carrozza che li conduceva a villeggiare, le preziose bottiglie importate dalla Francia.

Il verdetto dei négociants

Il diploma ottenuto a Parigi, nel 1867, da un viticultore toscano, è, perciò circostanza storica assolutamente singolare. Non è meno singolare che il nipote di un cantiniere di tanto prestigio non solo si impegni a proseguire la tradizione inaugurata dal nonno, ma dedichi all'esame delle proprie uve tanta attenzione da scoprire, in un vigneto di “Sangioveto”, una vite dai grappoli singolari, li vinifichi separatamente, ne verifichi il pregio, moltiplichi, con l'innesto, l’uva che ha scoperto, fissi i caratteri di un nuovo vitigno. Un successo enologico, una scoperta ampelografica: insieme due eventi che meritano di essere ricordati nella storia della vite e del vino in Italia. Franco Biondi Santi ha trovato la strada tracciata, come sottolinea con modestia che lo onora: su quella strada ha saputo stabilire con i cenacoli della cultura enologica un rapporto tanto fruttuoso da assicurare al proprio vino un prestigio nazionale ineguagliato, una fama internazionale equivalente a quella dei grandi vini francesi. Fino a vedere le ultime bottiglie delle ultime annate riposte dal nonno contese, alle aste, dai collezionisti per decine di milioni, quelle delle migliori annate degli ultimi cinquant'anni per qualche milione.

Di fronte al diploma rilasciato, nel 1867, a un viticoltore italiano da una giuria di négociants parigini, trent'anni di letture nella biblioteca dell'agricoltura del passato mi ricordano che l'anno precedente un giovane ricercatore dell'Ecole Normale, Louis Pasteur, ha confermato, in un organico trattato, la tesi rivoluzionaria che ha proposto, con sintetiche relazioni accademiche, tra il 1857 e il 1859, la tesi secondo la quale il vino costituirebbe il risultato dell'azione, nel mosto di organismi viventi, i fermenti alcolici, la tesi sulla quale si fonderà l'enologia moderna. Erigendo i primi pilastri della nuova disciplina, nel proprio trattato Pasteur ha analizzato i rapporti tra il vino e l'ossigeno, dei quali ha verificato il corso sottoponendo a trattamenti diversi campioni di vino di cui ha rimesso l'assaggio, al termine dell'esperimento, ad una commissione insediata dalla corporazione dei négociants parigini. Che gli stessi palati che hanno decretato, nel 1865, il successo delle esperienze enologiche del padre della biologia moderna possano avere sancito, due anni più tardi, il prestigio di un vino italiano ammostato nello stesso 1865 è idea suggestiva: la coincidenza, che non posso reputare certa, è certamente probabile: la storia è una successione di eventi connessi da correlazioni che il mestiere dello storico deve individuare, esaminare, confermare.


Previdenza agricola, L, agosto – settembre 2000