Gli ultimi filibustieri/Capitolo XXI - L'attacco degli antropofagi
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Capitolo XXI
L’attacco degli antropofagi
L’udito finissimo del selvaggio, abituato a raccogliere i piú lontani rumori della foresta, purtroppo non aveva sbagliato.
I mangiatori di carne umana calavano a torme lungo il cañon, battendo furiosamente le une contro le altre le loro mazze di legno sonoro.
Pareva che ci tenessero molto a riavere il loro prigioniero, destinato a figurare in qualche gran banchetto, forse con un contorno di banani.
La loro furia doveva però rompersi contro la moltitudine di crotali, i quali tappezzavano tutto il fondo della valle, in attesa di mordere.
Il guerriero del gran Cacico del Darien, dopo d’averli condotti innanzi per due o trecento passi, balzando di ramo in ramo, era ritornato verso gli avventurieri, i quali si trovavano tutt’altro che tranquilli.
Quel fragore di mazze, accompagnato, di quando in quando, da grida feroci, aveva prodotto una profonda impressione sull’animo di tutti.
Perfino don Barrejo aveva perduto il suo eterno buon umore.
— Siete persuaso ora che mi davano la caccia? — chiese l’indiano al guascone. — Udite!...Udite!...
— Sembrano bestie feroci e non uomini, — rispose don Barrejo. — Da dove sono sbucate quelle canaglie?
— Vi sono delle tribú sull’alta sierra e tutte divorano i prigionieri di guerra.
— Ecco una bella occasione per te, De Gussac. Giacché colla tua arte culinaria hai salvato una volta la pelle, cerca di mettere in salvo ora quella dei tuoi camerati. Va’ ad insegnare anche a loro come si cucinano i cadaveri in salsa bianca o verde.
L’ex-taverniere di Segovia fece una smorfia.
— Non si può avere due volte la medesima fortuna e preferisco rimanere qui, fra voi, dietro ai serpenti a sonaglio, — disse poi. — Mi sento piú sicuro.
— Pensi alla tua pancia, briccone!...
— Silenzio, — disse l’indiano.
Il frastuono orrendo che poco prima faceva rintronare la gola, era improvvisamente cessato. Le mazze non suonavano piú l’attacco e tutte le bocche erano diventate mute.
— Sono alle prese coi crotali, — disse Mendoza, il quale, allungato su un ramo, cercava distinguere qualche cosa fra quella piú che semi-oscurità.
— Speriamo che quei maledetti rettili mordano bene, — disse don Barrejo.
L’indiano fece loro cenno di tacere, imboccò il flauto e si mise a suonare precipitosamente, battendo il tempo con le gambe e coi braccialetti.
Udendo quella musica i crotali, che pareva si fossero nuovamente assopiti, alzarono le teste e si spinsero innanzi, fischiando rabbiosamente.
Quanti erano? Delle centinaia e centinaia di certo, poiché formavano una vera colonna, una colonna spaventosa, perché satura del piú terribile veleno.
— Mi fanno venire freddo, — disse don Barrejo. — Su, all’attacco, mostriciattoli, e spazzate via tutto.
I Tasarios, dopo un breve silenzio, si erano rimessi a urlare ed a battere le mazze.
La battaglia doveva essere cominciata, fra i terribili rettili dal morso che non ha rimedio ed i mangiatori di carne umana.
Di quando in quando si udivano fischiare delle frecce attraverso gli alberi.
Dei colpi sordi echeggiavano, riempiendo il cañon di strani fragori: erano le mazze sonore che picchiavano contro le pietre per fare indietreggiare i serpenti a sonagli.
I tre avventurieri e l’indiano, rannicchiati sul simaruba frondoso che li rendeva invisibili, ascoltavano con ansietà crescente.
Resi furiosi da quell’attacco, tutte le falangi dei rettili si spingevano innanzi, impazienti di mordere.
I piú robusti passavano sopra i piú deboli e correvano coraggiosamente in aiuto dei compagni massacrati dalle mazze dei cannibali.
La battaglia non durò che pochi minuti: e la vittoria, come l’indiano aveva previsto, rimase ai serpenti, le cui colonne non si erano aperte dinanzi a nessun sforzo.
Si udirono le urla dei Tasarios allontanarsi verso l’alto cañon, però una voce, che pareva il muggito d’un toro, aveva gridato in una lingua che solo l’indiano aveva compresa: — Ti mangeremo egualmente.
— Le tue carni devono avere un sapore speciale, — disse don Barrejo, quando gli fu tradotta la minaccia. — Non valeva la pena di muovere una intera tribú per prendere un solo arrosto.
«Che mantengano la promessa?»
— I Tasarios non ci daranno tregua, — rispose l’indiano, il quale appariva preoccupato.
— Cerchiamo di raggiungere al piú presto il Maddalena e di scenderlo fino alle grandi cascate.
— È quella la nostra via, — disse Mendoza. — Abbiamo laggiú molti compagni che ci aspettano per guidare la nipote del Gran Cacico del Darien che le tribú aspettano.
«Hai udito parlare tu di quella fanciulla, nata da un uomo bianco e da una figlia del capo?»
L’indiano aveva guardato, con vivissimo stupore, i tre avventurieri, facendo dei gesti di sorpresa.
— Sareste voi, — chiese, — gli uomini che dovevano venire dalla parte ove il sole tramonta e scortare la nipote del Gran Cacico?
— Si, siamo noi, — rispose Mendoza.
— Gli spagnuoli ci hanno separati dai nostri compagni, ma noi ritroveremo sulle rive del Maddalena, presso le cascate, la fanciulla a cui spetta l’eredità del defunto capo.
— Pare che sia grossa, è vero? — chiese don Barrejo.
— Vi sono tre caverne piene d’oro.
— Con un po’ di quelle pepite aprirò un vero albergo, corpo di un cannone.
— Lasciami parlare, compare, — disse Mendoza. — Desidero chiarire, innanzi tutto, un punto oscuro.
«Il Cacico, prima di morire, aveva mandato un uomo bianco nei lontani paesi d’oltremare per condurre qui sua nipote?»
— Sí, — Rispose l’indiano.
— È tornato?
— Ed è stato anche mangiato, — rispose il selvaggio. — Quell’uomo, che si era accaparrata la fiducia del Cacico, pretendeva d’impadronirsi dei tesori, minacciando, in caso di rifiuto, una invasione di spagnuoli. Diventato insopportabile, l’abbiamo preso e messo alla graticola per ordine del tuscan.
— Chi è questo signore? — chiese don Barrejo.
— Il mago o stregone della tribú, — rispose Mendoza.
— Corbezzoli!... Un pezzo grosso!...
— E poi che cosa è successo? — chiese il basco.
— Il tuscan, vedendo che l’uomo bianco voleva impadronirsi dei tesori, come vi dissi, lo fece prendere e mettere alla graticola.
— Benissimo!... — esclamò don Barrejo. — È la pena giusta dei traditori.
— E poi? — riprese Mendoza.
— Delle voci vaghe erano giunte fino alle nostre tribú, ed annunciavano l’arrivo di una grossa banda d’uomini bianchi che si ritenevano nostri amici.
«Il tuscan che aveva invece tutto da temere da parte degli spagnuoli, lanciò dei corrieri in tutte le direzioni, affinché li avvicinassero e si accertassero se la nipote del Gran Cacico si trovava veramente fra di loro.»
— Seppero almeno qualche cosa? — chiese il basco.
— Che una truppa, dopo d’aver lungamente battagliato cogli spagnuoli intorno a Segovia-Nuova, s’avanzava verso il Maddalena.
— È lontano il fiume?
— Appena una giornata di marcia, — rispose l’indiano.
— E tu hai veduto quegli uomini?
— No, perché i Tasarios, mentre esploravo la sierra, mi hanno catturato. Devo alla buona robustezza delle mie gambe se sono riuscito a sfuggire alla morte.
— Ehi, Mendoza, ne sappiamo abbastanza ora, — disse don Barrejo. — Non si potrebbe andarsene, prima che i crotali si risveglino?
— L’indiano saprà riaddormentarli, se vorrà, — rispose Mendoza.
— Ora che sono tutti dinanzi a noi, non abbiamo piú nulla da temere, poiché formano come una barriera insuperabile fra noi ed i mangiatori di carne umana.
— Fermeranno anche il marchese di Montelimar?
— Toh!... — esclamò don Barrejo. — Mi ero dimenticato di quel terribile uomo. Dove sarà rimasto costui?
— Noi siamo degli stupidi, — disse De Gussac. — Stiamo qui a chiacchierare, mentre forse a quest’ora spagnuoli ed antropofagi si preparano, di comune accordo, a darci la caccia.
«Le due razze vanno spesso assai d’accordo.»
— Ed è proprio vero, — disse Mendoza. — I discendenti dei conquistadores li hanno talmente terrorizzati, che basta che vedano un elmetto spagnuolo per dichiararsi schiavi.
«Non valeva la pena, in fondo, che i filibustieri intraprendessero tante meravigliose imprese per vendicare degli esseri ormai abbrutiti.»
L’indiano si era alzato, tenendo in mano il flauto.
— Il tempo vola, — disse, — ed i Tasarios potrebbero girare piú sopra il cañon.
— Io avevo già dimenticato che le mie magre membra correvano il pericolo di finire sulla graticola, — disse don Barrejo. — La vita dell’avventuriero diventa troppo dura al giorno d’oggi.
— E si rimpiange sempre la cantina d’El Moro e la bella taverniera, — disse Mendoza.
— Può darsi, ma don Barrejo, da buon guascone, non lo confesserà mai.
L’indiano aveva fatto un moto d’impazienza.
— Venite, uomini bianchi, — disse, col suo solito accento imperioso. — La morte può essere piú vicina di quello che credete.
— Hai ragione, compare, — rispose don Barrejo. — Noi siamo una massa di chiacchieroni.
«Ed i serpenti a sonagli?»
— Non si sveglieranno finché non lo vorrò io, e siccome per ora non lo desidero, li lascerò dormire.
Si aggrapparono alle liane e si lasciarono scendere fino a terra.
I serpenti sonnecchiavano gli uni addosso agli altri, senza muoversi e senza sibilare. Cessato l’attacco, si riposavano tranquillamente, in attesa d’un altro risveglio, piú terribile forse del primo.
L’indiano, appena a terra, appoggiò un orecchio al suolo e si mise ad ascoltare con grande attenzione.
— Odi sempre, tu? — chiese don Barrejo, ironico.
— Sempre, — rispose l’indiano.
— Tonnerre!... Tu devi avere gli orecchi del Padre Eterno!... Non credi che si siano allontanati i mangiatori di carne umana?
— Sospetto che abbiano presa un’altra via per tenderci un agguato all’uscita del cañon.
— Le loro frecce sono avvelenate? — chiese Mendoza.
— No.
— Allora possiamo battagliare. L’archibugio ha ammazzato il dardo.
Pur discorrendo, scendevano a precipizio il cañon, il quale diventava di momento in momento piú ripido.
Alberi ve n’erano dovunque ed intralciavano talvolta la marcia, nondimeno i tre avventurieri e l’indiano continuavano la loro rapida ritirata, spinti dalla paura di doversi trovare, da un istante all’altro, dinanzi ai mangiatori di carne umana.
Il cañon a poco a poco si allargava e lungo i suoi fianchi si udivano scrosciare numerosi torrenti che una vegetazione intensa, gigantesca, rendeva assolutamente invisibili.
La luce cominciava a penetrare, poiché i grandi alberi che crescevano sulle due coste, non potevano piú incrociare i loro rami e le loro foglie.
Quella corsa, condotta con crescente rapidità dall’indiano, durava da un paio d’ore, quando i quattro uomini si fermarono di comune accordo.
In mezzo alle grandi foreste che si stendevano a destra ed a sinistra del cañon, avevano udito squillare una trombetta.
— Gli spagnuoli? — aveva chiesto don Barrejo, guardando l’indiano.
— No, — disse questi, scuotendo il capo e facendosi oscuro in viso, — questa tromba io l’ho udita suonare presso i mangiatori di carne umana.
— La caccia diventa interessante.
— Ed anche estremamente pericolosa, mi pare, — aggiunse De Gussac.
— Sono dunque passati i tempi nei quali gl’indiani fuggivano sempre e si lasciavano prendere due imperi, quello del Perú e quello del Messico, da pochi avventurieri?
— Purtroppo sono diventati battaglieri anche essi, — disse Mendoza.
— Eh!... Avrebbero potuto aspettare qualche secolo ancora!
In quell’istante l’indiano si fermò nuovamente e andò ad appoggiare un orecchio prima contro la costa sinistra, poi contro quella di destra del cañon.
— Ecco un uomo prodigioso, che ode e sente sempre, — riprese l’incorreggibile chiacchierone. — Ora verrà a raccontarci che ci sono già addosso.
L’indiano era tornato verso di loro e non aveva detto che una parola:
— Fuggite!...
— Allora, gambe! — disse don Barrejo.
Si slanciarono a corsa disperata lungo il fondo del cañon, cosparso di macigni trasportati dalle acque e di cespugli, cercando di distanziare, piú che era possibile, i pericolosi mangiatori di carne umana.
Non avevano però ancora percorsi cinque o seicento metri, quando una freccia passò, sibilando sinistramente, sopra le loro teste.
— Eccoli!... — gridò De Gussac.
Don Barrejo si volse e puntò l’archibugio verso un enorme ammasso di passiflore. Cercò un po’ cogli sguardi, poi premette il grilletto.
La detonazione fu seguita da un grido. Un selvaggio che teneva ancora l’arco in mano venne a rotolare fino in fondo al cañon, fracassandosi il capo contro le pietre.
— Via!... Via!... — disse don Barrejo, cercando di ricaricare l’arma. — Se non usciamo da questa maledetta valle, noi corriamo il pericolo di finire davvero sulla graticola.
«È lontano lo sbocco?»
L’indiano, a cui era rivolta la domanda, fece un cenno negativo.
— Noi siamo degli stupidi, — disse il basco. — Giacché i selvaggi scendono lungo la costa di ponente, noi montiamo quella di levante e prendiamo posizione.
«Se si raggruppano ci massacreranno a colpi di pietra.»
— È quello che volevo proporvi, — rispose l’indiano. — Sono sicuro che i mangiatori di carne umana non tengono che una costa del cañon.
— Montiamo dunque, — disse De Gussac. — Ci vedremo meglio.
Si aprirono frettolosamente il passo attraverso quell’ammasso di piante che copriva il fianco interno della valle, e dopo pochi minuti raggiungevano la grande foresta.
Erano appena saliti, quando una tempesta di pietre scese lungo il cañon con un fracasso indiavolato.
Quasi nel medesimo tempo delle freccie furono lanciate sopra la valletta, in direzione dei fuggiaschi, senza però riuscire a raggiungerli, essendo ormai fuori di portata dagli archi.
Venti o trenta indiani erano subito comparsi sull’opposta parete del cañon, mandando urla spaventevoli.
Erano tutti di alta statura, quantunque molto magri, avevano le teste coperte di piume variopinte, e le braccia e le gambe adorne di braccialetti d’oro, probabilmente purissimo.
Dei tatuaggi strani, che dal petto salivano fino alla faccia, a diverse tinte, davano loro un aspetto poco gradevole.
Mentre alcuni erano armati di archi, altri sbatacchiavano furiosamente le loro mazze di legno sonoro, cantando nel loro barbaro linguaggio:
— Vi mangeremo! Vi mangeremo!
— Hai capito, Mendoza, che cosa dicono quelle scimmie rosse? — chiese don Barrejo al basco, dopo che l’indiano del Darien gli ebbe tradotte quelle parole poco rassicuranti.
— Non sono sordo, — rispose il filibustiere. — Pare che ci tengano ora ad avere delle bistecche di carne bianca.
«Forse non ne hanno mai assaggiate.»
— Non restiamo inoperosi, amici. Giacché quei selvaggi si presentano bene ai nostri colpi, tentiamo di spaventarli con una scarica meravigliosa.
«Io sono sicuro del mio colpo.»
— Ed anche noi, — risposero il basco e De Gussac.
— Se non ci facciamo temere, li avremo alle costole fino al Maddalena.
In quel momento una raffica violenta passò sulla grande foresta, senza che nessun indizio l’avesse annunciata, torcendo i grossi rami e ululando sinistramente in mezzo al fogliame.
— Che cosa c’è dunque ora? — chiese l’eterno chiacchierone.
— Il tempio cambia, — rispose l’indiano. — Avremo un tornado.
— Affrettiamoci, camerati. Il momento è buono.
Gl’indiani continuavano a vociferare sull’opposta costa del cañon, senza però decidersi a scendere. Probabilmente dovevano aver già fatta la conoscenza colle canne da fuoco degli uomini bianchi e si tenevano in guardia.
I tre avventurieri si appoggiarono al tronco d’un pinou, per avere la mira piú sicura e spararono, uno dietro l’altro, tre colpi, i quali rumoreggiarono a lungo dentro la valle, come se fosse caduta qualche valanga di sassi.
Tre indiani erano caduti, scivolando lungo il pendío. Gli altri, spaventati, si erano affrettati a rinselvarsi.
— Speriamo che ci lascino un po’ di tregua, — disse don Barrejo. — Credo che pel momento ne abbiano abbastanza.
— E noi approfittiamone per scendere verso il Maddalena, — disse Mendoza. — Odo già frangersi la sua rapida corrente.
Attesero un momento per vedere, se gl’indiani si mostravano, di fare un’altra scarica, poi si slanciarono sotto le foreste scendendo verso la pianura bagnata dal fiume gigante.
Per far comprendere però ai mangiatori di carne umana che avevano ancora delle munizioni, di quando in quando si volgevano per sparare qualche colpo in direzione del cañon.
Mentre affrettavano la discesa per raggiungere il fiume, l’uragano s’avanzava con una rapidità impressionante.
Il cielo, che qualche ora prima era ancora limpido, si era coperto di tali masse di vapori da intercettare quasi completamente la luce.
Mille strani fragori si scatenavano in alto. Ora pareva che centinaia e centinaia di carri pieni di lamine di ferro e tirati da cavalli focosi, corressero sfrenatamente; ora invece sembrava che si sparassero dei cannoni, e le detonazioni erano seguíte dalle urla del vento.
Le raffiche piombavano sulla grande foresta, devastandola. Rami, foglie gigantesche, frutta, volavano in aria come fuscelli di paglia.
Tacevano un momento, come per riprendere forza, poi sibilavano con furia piú terribile sotto le immense vôlte di verzura, strappando d’un colpo solo i grandi festoni di liane ed abbattendo i superbi cespugli delle passiflore.
I tre avventurieri e l’indiano, assordati da tutti quei fragori e spaventati dalla furia del tornado, affrettavano la marcia, guardandosi di non ricevere qualche ramo sulla testa.
Agl’indiani ormai non pensavano quasi piú.
D’improvviso, quando già stavano finalmente per sboccare nella valle del Maddalena, udirono fra lo scrosciare dei tuoni e le urla del ventaccio, delle scariche d’archibugio.
Gli avventurieri si erano fermati, guardandosi l’un l’altro.
— Sono ben colpi di fuoco questi? — disse De Gussac.
— Che puzzano di polvere lontano un miglio, — rispose il basco. — Queste scariche non si possono confondere coi tuoni.
Don Barrejo si era messo a ridere.
— Non capite dunque? — chiese. — È il signor marchese di Montelimar che si prende la briga di accomodare i nostri affari.
«La sua banda si è incontrata coi mangiatori d’uomini e dà battaglia.»
— In attesa di darla poi a noi, — aggiunse Mendoza.
— Io però ho constatato un fatto, compare Mendoza.
— Quale, don Barrejo?
— Che le nostre gambe sono piú resistenti di quelle degli spagnuoli.
— Un momento di respiro e guadagniamo il Maddalena, — disse De Gussac. — Vuoi tu?
L’indiano guardò il cielo che continuava ora ad oscurarsi ed ora ad illuminarsi sotto la vivissima luce di centinaia di lampi, poi disse inesorabilmente:
— Avanti ancora.
— Lui sente sempre ed ode sempre, — disse don Barrejo. — Olio alle gambe, amici, se non volete andare a finire fra una graticola ed una corda da appiccare.
Le scariche si succedevano alle scariche, mescolandosi ai tuoni. Una vera battaglia doveva essersi impegnata fra gli spagnuoli del marchese di Montelimar ed i mangiatori di carne umana.
Gli avventurieri approfittavano di quell’insperato soccorso per accelerare sempre la marcia.
Ormai il fiume era vicino: si udiva muggire cupamente entro l’ampia valle.
L’uragano però rendeva la ritirata difficilissima. Alberi giganteschi, che avevano resistito a chissà quanti altri tornados, cadevano al suolo sotto l’impeto furioso delle raffiche, trascinando seco dei lembi interi di foresta.
Era un vero miracolo se i fuggiaschi riuscivano ad evitare quei colossi, sotto il cui enorme peso sarebbero rimasti per sempre.
Fortunatamente la foresta si diradava. La sierra finiva e cominciava la pianura, una pianura strettissima, cosparsa di sabbie, di magri cespugli e di enormi ammassi di fango disseccato.
Con un ultimo slancio l’indiano ed i tre filibustieri la raggiunsero e si diressero, sempre correndo, verso il fiume, quantunque non avessero nessuna speranza di trovare in quel luogo qualche canotto.
Una roccia, alta una mezza dozzina di metri, molto incavata da una parte, offrí subito ai fuggiaschi un rifugio e fu tutto quel che poterono avere, poiché nessuna piroga si scorgeva nelle vicinanze.
Si erano appena riparati, quando le cateratte del cielo si aprirono ed un vero diluvio d’acqua, accompagnato da rombo di tuoni, da ruggiti di vento e da lampi vivissimi, si rovesciò sulla valle del Maddalena con furia incredibile.
— Compiango gli spagnuoli che non avranno trovato anche loro un asilo, — disse don Barrejo, stringendosi contro i compagni per evitare i furiosi sprazzi di pioggia. — Questo tornado dovrebbe però renderci un favore.
— Quale? — chiese De Gussac.
— Di lasciar cadere sulla testa del marchese qualche pinou, — rispose il guascone.
— Uhm!... Quell’uomo deve essere fortunato, mio caro, — disse Mendoza. — Se è sfuggito finora a tanti pericoli, sfuggirà a molti altri ancora.
In quell’istante, a monte del fiume si udí un rombo che si spezzò in mille muggiti.
L’indiano era balzato in piedi, mostrandosi inquieto.
— Che cosa c’è ancora? — chiese don Barrejo. — Tu senti e odi qualche cosa di certo; però questo fracasso l’ho udito anch’io.
— La piena, — rispose il selvaggio. — Il Maddalena straripa.