Gli ultimi filibustieri/Capitolo XXII - La zattera
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Capitolo XXII
La zattera
Gli uragani che scoppiano nell’America centrale sono fortunatamente rari, ma quando Giove galoppa sulle nubi, accompagnato dal fido Eolo, raggiungono una tale furia da non potere noi, abitanti delle zone temperate, formarcene un’idea.
Non hanno una lunga durata, però bastano quelle poche ore per mettere sottosopra provincie intere, devastare immense piantagioni, e quello che è peggio, per far straripare i fiumi.
Il tornado che aveva dovuto prima infuriare sull’alta sierra, aveva gonfiato quasi di colpo il Maddalena ed ora il fiume gigante, con poco piacere dei fuggiaschi che ne avevano fino sopra i capelli delle avventure, compreso don Barrejo, si preparava a uscire dal suo letto, ed occupare la piccola pianura sabbiosa.
Quantunque continuasse a piovere con una furia spaventevole, l’indiano ed i tre filibustieri, allarmati da quei fragori che facevano risuonare sinistramente la valle, avevano lasciato per un momento il rifugio, volendo rendersi conto dello stato del fiume e del nuovo pericolo che li minacciava.
Il Maddalena cresceva a vista d’occhio. Delle ondate mostruose, di colore giallastro, si seguivano senza interruzione, trascinando nel loro corso vertiginoso dei giganteschi alberi strappati ai fianchi della sierra.
— Tonnerre!... — esclamò don Barrejo. — Ecco che si prepara un’altra avventura poco piacevole.
— Non eri forse partito da Panama per andarle a cercare? — chiese Mendoza. — Hai lasciato laggiú, per correre il mondo, una splendida castigliana ed una cantina magnificamente fornita.
«È vero che dentro le botti vi erano gli spiritelli?»
— No, vi era dentro quel povero Pfiffero, — rispose il terribile guascone. — In quanto a mia moglie, lasciala in pace.
— Invece di pensare alle persone assenti, pensiamo a noi, — disse De Gussac. — Che cosa si fa? Il fiume monta di minuto in minuto e finirà per invadere la pianura.
— Domandalo all’indiano che sente ed ode tutto, — rispose don Barrejo.
L’indiano invece rimaneva muto come una sfinge egiziana. Colle braccia strette sul petto, gli occhi nerissimi e sempre inquieti come dell’uomo che si aspetta, da un momento all’altro, una brutta sorpresa, guardava il fiume senza parlare.
— Toh!... — esclamò don Barrejo. — Ora non sente e non ode piú, mentre io odo un fragore spaventevole che cresce di momento in momento.
— Dunque? — chiese De Gussac, guardando l’indiano.
— La piena, — rispose questi.
— La vedo, — disse don Barrejo. — Un paio d’occhi sono piantati sul mio muso. Ti domandiamo che cosa si può fare.
— Nulla, — rispose l’indiano, colla sua voce monotona.
— Tonnerre!... E noi staremo qui a farci portar via dalla piena?
— La roccia, — rispose l’indiano.
— Ma questo è un mulo dei Pirenei, — disse don Barrejo. — Vedo anch’io che c’è una roccia.
«Mendoza, puoi levare qualche parola a quest’uomo o meglio strappargliela?
«La mia pazienza ormai l’ho esaurita, e se fosse un altro a quest’ora avrei impugnata la mia draghinassa.»
— Ehi, antropofago!... — disse Mendoza. — Hai la manía omicida? Le troppe avventure ti hanno guastato un po’ il cervello, è vero, mio povero don Barrejo?
Un grande scroscio di risa fu la risposta.
Il mattacchione del di là del mar di Biscaglia rideva a crepapelle.
— Ah!... Questi guasconi!... — esclamò Mendoza.
— Valgono i baschi, è vero? — chiese don Barrejo.
— Devo confessarlo.
— Finalmente!... Interroga dunque quella marmotta rossa che sente sempre e che ode sempre, mentre non sa mai prendere una decisione.
— Amico, — disse Mendoza all’indiano, il quale guardava sempre il fiume coi suoi occhi irrequieti. — Che cosa si fa dunque? Si scappa verso la sierra?
— Troppo tardi, — rispose il pelle-rossa.
— Abbiamo le gambe ancora buone.
— Troppo tardi, — ripeté l’indiano.
— Ehi, Mendoza, perdi il tuo tempo, — disse don Barrejo. — Da quell’uomo lí non caverai altro che un «sento» ed un «odo».
«È meglio che pensiamo noi a trarci d’impiccio.
«Se gl’indiani amano annegarsi, io francamente non ci tengo affatto. Se si trattasse di affogarmi in un fiume di Xeres passi ancora, ma papà Noè non ha pensato a provvedere i fiumi di viti.»
— Non vi è che una cosa sola da fare, — disse De Gussac. — La roccia è abbastanza alta e non credo che la piena ci raggiungerà.
— Conosci le rabbie di questo fiume, tu?
— Io no.
— Allora non ci si può fidare del tuo consiglio. Visto però e considerato che non vi è altra scappatoia, lo accetto, e vi propongo una bagnata coi fiocchi.
«Cercate almeno di non bagnare le munizioni.»
— La polvere è dentro i corni, — rispose Mendoza. — Sarà sempre pronta a far udire la sua voce, sia contro gli spagnuoli, sia contro i mangiatori di carne umana.
«Montiamo: l’acqua cresce con una rapidità impressionante.»
Il Maddalena infatti si gonfiava a vista d’occhio. Le sue acque, ordinariamente limpide, erano diventate fangose e dal monte le onde si succedevano sempre con rabbia feroce, stendendosi sulla pianura di destra e di sinistra.
Un muggito assordante, continuo, riempiva la valle, ripercuotendosi dentro i boschi della sierra.
— Calcatevi bene in capo i cappelli, — disse don Barrejo, — e cercate di farli servire da parapioggia.
Le onde brevi e rapide del Maddalena si stendevano sulle sabbie delle due pianure, coprendo rapidamente i magri cespugli.
L’indiano ed i tre avventurieri, non poco impressionati dalla brutta piega che prendevano gli «affari», come diceva don Barrejo, abbandonarono il rifugio e si arrampicarono sulla roccia, esponendosi completamente alle furie del tornado.
Lampeggiava sempre e tuonava spaventosamente, mentre dalla valle scendevano delle raffiche cosí impetuose da costringere i quattro uomini a tenersi ben uniti per non farsi portar via. La pioggia poi continuava pure, lasciando cadere certi goccioloni grossi come un pugno, che se non facevano male, inzuppavano completamente.
— Questa si chiama ira di Dio, — disse don Barrejo, il quale si annoiava mortalmente a starsene zitto. — Ehi, amico del Darien, ne avremo per molto tempo? Io per ora ne avrei già abbastanza.
Il figlio dei boschi guardò il cielo incessantemente illuminato dai lampi, poi alzò le spalle senza dare nessuna risposta.
— Come sono avari di parole, — riprese don Barrejo, il quale si prendeva filosoficamente quei goccioloni. — Si direbbe che a questi indiani fa male la lingua.
— Mentre tu l’hai troppo lunga, — disse Mendoza.
— Mio caro, prova a prender moglie, e vedrai come si snoderà anche la tua.
— Per ora non ne ho intenzione.
— Già, tu sei un avventuriero troppo logoro.
— Anche tu però non tornerai a Panama piú grasso di prima.
— Ci tornerò però colle tasche piene, — rispose il guascone. — Siamo ormai alle frontiere del Darien e spero che quei selvaggi non faranno cattiva accoglienza alla nipote del Gran Cacico, e che ci lasceranno vuotare, senza proteste, le caverne piene d’oro.
— E se invece ci mangiassero? Ancora pochi anni or sono erano antropofagi e potrebbe dirtelo, se fosse ancora vivo, Pietro l’Olonese, che era il piú famoso filibustiere dei Fratelli della Costa, e che finí la sua gloriosa carriera di ladro emerito su una graticola o dentro un pentolone.
— Tu vedi tutto nero quest’oggi, compare; che sia il tempo?
— Può darsi, — rispose il basco.
— E l’acqua monta rapidamente, — disse in quel momento De Gussac. — La pianura si copre.
Infatti il Maddalena era uscito dal suo letto e straripava con una violenza inaudita.
Fra le sue onde fangose, d’un brutto color biondastro, travolgeva degli alberi immensi e degli ammassi di radici e di terra che galleggiavano come le famose chimponas del lago di Messico.
Quei galleggianti non erano sempre vuoti. Ora trasportavano una tribú di scoiattoli, ora un coguaro ed ora un giaguaro.
Queste ultime bestie però erano tanto spaventate che si tenevano rannicchiate, col pelame arruffato, senza dimostrare piú alcuna ferocia.
La notte tornava a scendere, quando le acque del fiume giunsero ad infrangersi contro la roccia, muggendo sinistramente.
Don Barrejo guardò l’indiano.
— Orsú, — gli disse, — snoda una buona volta la tua lingua. Credi che l’acqua non ci raggiungerà?
— La piena è terribile, — rispose il selvaggio figlio delle foreste. — Non ne ho mai veduta una simile.
— Che cosa possiamo fare, dunque?
L’indiano indicò le zattere vegetali che il fiume continuava a trascinare in gran numero e che mandava ad arenarsi sui margini della pianura.
— Sono come le canoe, — disse poi.
— E se vanno ad urtare contro qualche roccia?
— Non essere troppo esigente, don Barrejo, — disse Mendoza.
— Seguiamo il consiglio di quest’uomo ed imbarchiamoci.
«Eccone là una che pare abbia proprio l’intenzione di dirigersi verso di noi.»
Il galleggiante indicato dal basco era un zatterone composto di enormi ammassi di radici, strettamente intrecciate, e coperto da ammassi di cespugli che le raffiche, sempre impetuosissime, volta a volta scuotevano.
I tre avventurieri e l’indiano si erano alzati per essere pronti a spiccare il salto.
— Badate che chi cade è perduto, — aveva detto Mendoza. — Contro questa corrente cosí impetuosa non si potrebbe resistere.
Il galleggiante, oscillando pesantemente, s’appressava.
Trovata sul suo corso la roccia, girò su sé stesso senza rompersi e continuò la sua rapida corsa.
Quel momento di sosta era bastato ai tre avventurieri e all’indiano.
Con un gran salto erano andati a cadere in mezzo agli ammassi di cespugli, e subito erano scappati all’opposta estremità del galleggiante, manifestando una viva inquietudine.
— L’hai veduto? — chiese don Barrejo a Mendoza.
— Sí: era nascosto sotto il fogliame.
— E non era solo, — disse De Gussac. — Io ho veduto un altro giaguaro nascosto un po’ piú in là.
— Tonnerre!... — esclamò il terribile guascone. — Ecco un bell’equipaggio che vorrei subito gettare in acqua.
— E gli archibugi pel momento sono inservibili, — aggiunse il basco. — Dovremo scaricarli.
— Che si siano imbarcati di loro spontanea volontà per provare le emozioni d’un viaggio acquatico?
— Saranno stati, piú probabilmente, portati via insieme a qualche lembo di foresta.
«Offri loro un ponte, don Barrejo, e vedrai come scapperanno senza curarsi di noi.»
— Faglielo tu colla tua schiena, il passaggio, — ribatté il guascone. — Per mio conto ci tengo alla mia spina dorsale, e checché tu dica, non la metterò mai a portata di quelle bocche.
— Preferisco lasciare quelle due bestie nei loro nascondigli. Mi sembrano cosí spaventate da non avere, per ora, nessun desiderio di attaccarci.
— Se tu mi assicuri che la paura li ha resi mansueti come agnellini, non mi rincrescerebbe andarli a vedere.
— Ed anch’io ci terrei, — disse De Gussac. — E poi un arrosto di giaguaro potrebbe passare, è vero don Barrejo?
— Arrostito sul fiume?... Ah!... De Gussac, la vita dell’avventuriero non è proprio fatta per te, e credo che faresti...
Non poté proseguire. La zattera in quell’istante era stata presa da una serie di gorghi e si era messa a girare vorticosamente su se stessa, ora sprofondando quasi tutta ed ora rimontando impetuosamente a galla, come se spinta da una forza misteriosa.
Quel moto rotatorio era cosí rapido che i quattro uomini, non escluso l’indiano, si sentirono prendere dalle vertigini.
Anche i giaguari, spaventati, soffiavano e sbuffavano sotto i cespugli che servivano loro d’asilo.
— Che sarabanda è questa? — chiese don Barrejo al basco, il quale non riusciva a tenersi in piedi. — Che siamo vicini alle grandi cascate? Lo sai tu, amico del Darien?
— Non è nulla, — rispose l’indiano, il quale si sforzava di strappare una enorme radice per servirsene come di remo. — Alle cateratte c’è del tempo e non auguratevi, uomini bianchi, di giungervi troppo presto.
— Si tratterà d’un salto, m’immagino.
— Io però ho udito parlare con grande spavento di quelle cateratte, — disse De Gussac. — Si dice che nemmeno gl’indiani, che sono i migliori battellieri, osino tentarne la discesa.
— Giacché sono ancora molto lontane possiamo occuparci dei due giaguari. Io non oserei dormire con questi vicini.
— Francamente nemmeno io, — disse l’ex-taverniere di Segovia — e sarei ben lieto di cacciarli in acqua, prima che la notte scenda.
— E tu, Mendoza? — chiese don Barrejo. — Il sole sta per tramontare già e fra una mezz’ora l’oscurità sarà completa.
«Ti fiderai tu a dormire con quei poco desiderati vicini?»
— L’impresa non sarà facile, — rispose il basco, tentennando il capo. — Voi forse non conoscete la ferocia sanguinaria dei giaguari.
«È vero che gl’indiani osano talvolta affrontarli armati d’una semplice lancia e difesi da una pelle che serve di scudo.»
— Ed allora noi faremo di meglio, — rispose don Barrejo. — Colle nostre draghinasse scorcieremo loro le unghie, mentre l’amico rosso accarezzerà loro il dorso con quel bastone che è riuscito a strappare.
«Che disgrazia che i nostri archibugi siano ancora pieni d’acqua.
«Andiamo, camerati, prima che sopraggiunga qualche altro malanno.»
L’indiavolato avventuriero stava per dirigersi animosamente verso le due belve, risoluto ad offrire loro una battaglia in piena regola, quando il terreno gli mancò improvvisamente sotto i piedi come se si fosse aperto un trabocchetto.
Quasi nell’istesso tempo si sentí afferrare una gamba da un paio di mascelle e stringere forte gli alti stivali di cuoio.
— Aiuto!... — aveva gridato.
Mendoza e De Gussac, che gli stavano dietro, furono pronti ad afferrarlo per le spalle ed a trarlo fuori.
— Muschio!... — gridò Mendoza. — Vi è un caimano imprigionato fra le radici, che lavora alla sua salvezza.
«Senti questo profumo cosí delizioso ai nasi dei negri?»
— Tonnerre!... — esclamò don Barrejo, sternutando sonoramente — questa non è una zattera bensí un serraglio completo.
«Che l’amico cerchi di montare verso di noi?»
— È probabile, — rispose Mendoza. — Morde le radici in alto invece che sotto.
«Avremo di certo una sua visita.»
— Allora potremmo occuparci di questo messere prima che ci porti via le gambe.
«Ai giaguari penseremo dopo.»
Tutti si erano curvati intorno al buco, il quale in pochi momenti era diventato già molto largo.
Un alligatore, o meglio un jacarè, come vengono chiamati quei ferocissimi sauriani, lungo non meno di quattro metri, si trovava imprigionato fra il fitto strato di radici e faceva sforzi poderosi per uscire e gettarsi nel fiume.
Le sue robustissime mascelle, armate di denti formidabili, mordevano con furore, mentre le zampaccie allargavano a poco a poco la prigione.
Non vi era nulla di straordinario nel trovare un simile bestione cosí rinchiuso.
Durante l’estate, quando gli stagni confinanti coi fiumi si disseccano, i jacarè non trovano di meglio che di seppellirsi nel fango e di rimanervi, in una specie di letargo, anche un paio di mesi.
La vegetazione sempre poderosa in quelle regioni, si stende sugli stagni e colle sue radici forma delle vere reti compatte, dentro le quali rimane preso per la maggior parte delle volte il rettile.
Quando le piene, quasi sempre furiosissime, sopravvengono, strappano quei lembi e li portano nel fiume.
L’isola galleggiante è formata, ma può sempre nascondere delle brutte sorprese per le persone che osano montarla.
Don Barrejo, passato il primo momento d’ansietà, aveva impugnata la draghinassa, dicendo all’jacarè, il quale non cessava di contorcersi con rabbia crescente:
— Signor profumiere, noi non abbiamo affatto bisogno né del vostro muschio, né della vostra coda, perché noi non siamo dei luridi negri.
«Vorreste dirmi dove devo colpirvi?»
— Tu sei pazzo don Barrejo, — disse De Gussac. — Vuoi aspettare che salti fuori e che si scagli addosso a noi?
— Lascia che mi goda prima l’agonia di questo bruto.
— Ed i giaguari li hai dimenticati? — chiese Mendoza. — Guarda: i loro occhi cominciano a luccicare.
«Sbrighiamocela con questo.»
In quel momento l’indiano si fece innanzi, armato d’un grosso pezzo di radice che, bene o male, rassomigliava ad un rompi-costole.
— A me l’jacarè, — disse. — Le vostre armi non varranno gran che contro queste bestiacce.
Alzò la mazza, la dondolò innanzi e indietro come per imprimerle maggior slancio, poi la lasciò cadere dentro la buca, balzando subito indietro. Il caimano aveva spalancate le mascelle, poi le aveva subito chiuse. La mazza gli aveva spaccato il cranio, facendoglielo quasi scoppiare.
Si gonfiò aspirando un’ultima boccata d’aria, si sgonfiò allungandosi tutto, poi rimase immobile, mentre le radici si ripiegavano su di lui rinserrandolo come dentro una tomba.
— Tonnerre!... Che colpo, — esclamò don Barrejo. — A vederli non si direbbe che questi indiani posseggano una tale forza.
«L’ha fulminato!...»
— È cosí che se la sbrigano, quando riescono a sorprenderli imprigionati nel fango degli stagni, — disse Mendoza, il quale non cessava di guardarsi alle spalle per paura di un attacco fulmineo da parte dei giaguari. — Sei sempre d’opinione di sbarazzare questa zattera dalle bestiacce che la infestano?
— E me lo domandi? Provati tu a chiudere gli occhi dunque con quei messeri che saranno probabilmente mezzi morti di fame.
— E giacché vi è ancora un barlume di luce, attacchiamo subito, — aggiunse De Gussac.
Il tempo si era rasserenato, poiché, come abbiamo detto, se le tempeste sono formidabili sotto quei climi, hanno una brevissima durata.
I densi vapori, tra i quali rumoreggiava il tuono, erano scomparsi verso levante, ossia in direzione del golfo del Messico, ed il sole tramontava dietro le cime della sierra, in mezzo ad un mare di luce iridiscente.
D’altra parte la luna occhieggiava al di sopra delle foreste, alzandosi rapidamente.
Sotto i cespugli gli occhi fosforescenti dei giaguari, contratti come un i, brillavano stranamente. Pareva però che i due feroci animali, impressionati dalla corsa vertiginosa che la corrente imprimeva alla zattera, non avessero alcun desiderio di tentare un assalto, almeno pel momento.
Che fossero però un terribile pericolo per i quattro amici non si poteva negarlo, poiché la fame poteva spingerli ad un disperato assalto.
I tre avventurieri e l’indiano, risoluti a rimanere i soli padroni del galleggiante, si divisero in due gruppi: De Gussac e Mendoza; don Barrejo e l’uomo rosso armato del suo rompi-costole che aveva servito cosí bene contro il sauriano.
I due giaguari, vedendoli avanzare, si erano messi a brontolare minacciosamente, senza però lasciare i loro rifugi.
Cantano la loro marcia funebre, — disse don Barrejo. — Sanno già di dover finire nel fiume.
— Non scherzare, compare, — disse Mendoza. — Sono piú terribili di quello che tu credi.
— Proviamo dunque le draghinasse dei guasconi e la spada basca sulla pellaccia di quelle bestie, — rispose il terribile guascone. — A me fa l’effetto di andare alla caccia dei gatti.
— Di quel genere!...
— Non dico che non siano molto grossi, però anche le nostre lame sono di tempra superiore.
«Voglio vedere quale effetto produrrà un colpo di draghinassa vibrato all’estremità d’una zampa. Povere unghie!... Vedremo se resisteranno!...»
— Adagio don Barrejo!... Tu vuoi scherzare troppo!... — disse Mendoza.
— Dopo tutto, quelle bestie non sono che dei gattacci, che forse non valgono certi gatti della nostra Guascogna, è vero De Gussac?
L’ex taverniere di Segovia non credette opportuno di rispondere a quella spacconata, degna veramente d’un guascone.
Mendoza però borbottò fra i denti:
— Questo diavolo d’uomo vuole farsi mangiare da quei gattacci. Fortunatamente ci sono io e lo tratterrò all’ultimo momento.
Mentre si avanzavano, chiacchierando tranquillamente come se si recassero alla caccia dei conigli, i due giaguari non cessavano di ringhiare.
Accovacciati alla distanza di dieci passi l’uno dall’altro, continuavano a fissare intensamente i cacciatori, sbadigliando e mostrando nel medesimo tempo certe bocche da far rabbrividire.
— Ehi, Mendoza, — riprese il terribile guascone, quando furono a una quindicina di passi dai due animali. — Che siano due maschi o due femmine?
— Vivaddio, è troppo, don Barrejo, — rispose il basco. — Tu scherzi troppo, e colle tue imprudenze un giorno o l’altro finirai nel ventre di qualche...
— Tigre, — disse il guascone, ridendo.
— Se non sarà asiatica, sarà americana.
— Ah, bah!... La pelle dei guasconi è troppo dura da mandarsi giú quando vi è insieme una draghinassa.
«Che brutto lavoro farebbe negli intestini di quelle bestie.»
— Taci!... Ci siamo!
I quattro terribili uomini si trovavano ormai a pochi passi dai due giaguari, sempre in agguato fra i cespugli.
Da una parte e dall’altra vi fu un momento di grande ansietà, poiché i pretesi gattacci del guascone erano degli avversari formidabili.
Don Barrejo, sempre noncurante del pericolo, fu il primo che si mosse, tenendo la draghinassa in linea, come se dovesse bucare sul colpo qualche avversario.
— Signor mio, — disse al giaguaro di destra, che si teneva ostinatamente nel suo covo. — Volete degnarvi di accettare una partita d’onore fra acciaio ben temprato ed unghie non meno solide?
La risposta fu un rauco ruggito che terminò in una specie di miagolío.
— L’ho detto io, — riprese il terribile uomo, — che questi sono dei gattacci.
«Ehi, pelle-rossa, mentre io punzecchio, tu picchia sodo e spacca teste.
«Ti ho già veduto alla prova e so quanto vali, quando hai una mazza fra le mani.»
Si era messo in ginocchio, dinanzi al rifugio della belva, per offrire meno bersaglio all’attacco, il quale non doveva tardare.
Contrariamente alle sue abitudini aggressive e sanguinarie, il giaguaro che don Barrejo si proponeva di scucire con un buon colpo di draghinassa, invece di spingersi innanzi, si mise a rinculare, cacciandosi sempre piú fra i cespugli e le radici.
— Tonnerre!... — esclamò il terribile guascone, facendo descrivere alla sua draghinassa un gran molinello. — I gatti americani sarebbero piú codardi di quelli europei?
«Ehi, amico, si arrischia la pelle qui!... O provare il filo della mia draghinassa o saltare nel fiume.
«Non hai che da scegliere.»
Il giaguaro rispose con urlo feroce, e questa volta si fece innanzi, allungandosi e spalancando le mascelle.
Don Barrejo diede uno sguardo all’indiano, il quale teneva sollevata la sua mazza, pronto ad ammazzare.
— Bada, amico, — gli disse. — Ci attacca!...
Con una pazza temerità si era spinto innanzi, riprendendo la sua linea di combattimento.
— Su, dunque!... Attacca!... — urlò.
Il giaguaro, vedendosi l’uomo a pochi passi, si raccolse su se stesso, poi spiccò un salto immenso passando sopra al guascone e cadendo quasi ai piedi dell’indiano.
Questi, sapendo con che razza di bestie aveva da fare, lasciò calare la sua mazza e d’un colpo abbatté la belva, stordendola.
Don Barrejo si era voltato di colpo.
Piombò come un fulmine sul giaguaro, ormai impotente a rimettersi sulle gambe, e gli vibrò un formidabile colpo di draghinassa attraverso il collo, staccandogli quasi interamente la testa.
Mentre il primo cadeva senza aver potuto far uso delle sue unghie, il secondo, invece di dare indietro, aveva affrontato risolutamente Mendoza e De Gussac. Aveva mandato un urlo ferocissimo e, come il suo compagno, si era disteso, pronto a slanciarsi.
— Guardatevi, De Gussac!... — aveva detto il basco.
— La draghinassa berrà, fra poco, il sangue della tigre americana, — rispose l’intrepido ex-taverniere di Segovia, coprendosi con una serie di fulminei molinelli. — Addosso, Mendoza!... Mi pare che i nostri compagni abbiano già finito.
— Allora, sotto!...
I due valorosi, non volendo mostrarsi da meno del primo guascone e dell’indiano, attaccarono risolutamente a colpo perduto, vibrando stoccate in tutte le direzioni. Il giaguaro, vigorosamente incalzato, dapprima retrocesse, poi a sua volta attaccò coll’impeto fulmineo che sogliono usare quei terribili animali.
Non era certamente una serata favorevole pei giaguari, poiché andò a cadere fra la spada del basco e la draghinassa del guascone.
La prima lo inchiodò fra le radici, mentre la seconda spaccava costole e troncava zampe, riducendolo ben presto all’impotenza.
— Olà, compari, avete bisogno d’aiuto? — gridò in quel momento don Barrejo, accorrendo colla draghinassa ancora sanguinante.
— Abbiamo finito, — rispose il basco.
— Allora giú, dormiamo, e che la zattera vada all’inferno insieme a noi ed ai giaguari.