Gli ultimi filibustieri/Capitolo XXIII - L'isola delle tartarughe
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Capitolo XXIII
L’isola delle tartarughe
Il galleggiante, abbandonato a se stesso, continuava la sua corsa rapidissima, oscillando sulle onde della piena.
La luna era sorta ed illuminava la vallata del Maddalena, la quale rimbombava di continui fragori che talvolta diventavano veramente spaventevoli.
Sembrava che l’astro notturno passeggiasse sulle punte estreme dell’alta sierra, versando fasci di luce azzurrognola, la quale si rifletteva nelle onde.
I tre avventurieri e l’indiano, sfiniti dalle fatiche e anche dall’eterna fame, si erano addormentati gli uni vicino agli altri, colla testa appoggiata sui cadaveri dei due giaguari.
La zattera correva da parecchie ore, ora girando e rigirando su sé stessa fra i gorghi della piena, ed ora rollando o beccheggiando, quando un urto spaventevole accadde.
Don Barrejo, che aveva l’abitudine di dormire con un solo occhio, almeno cosí affermava, fu il primo a saltare in piedi, gridando, con voce stentorea:
— Ohé, camerati, abbiamo dato dentro a qualche cosa!...
Le acque del fiume si precipitavano sulla zattera con impeto rabbioso, spazzandola tutta.
Mendoza, De Gussac e l’indiano, svegliati di soprassalto da quelle doccie che minacciavano di affogarli, erano balzati in piedi.
La luna era tramontata ed una profonda oscurità avvolgeva il fiume.
— Don Barrejo!... — gridò il basco. — Che cosa succede dunque?
— Che ne so io?
— Abbiamo fatto naufragio?
— Mi pare, poiché la zattera non si muove piú.
— Corpo d’un cannone!... — esclamò De Gussac. — Ci vorrebbe un fanale!...
— Sí, va a cercartelo, — rispose don Barrejo.
— Che cos’è quella massa oscura che sta dinanzi a noi?
Fu l’indiano che diede la risposta.
— L’isola delle tartarughe.
— Ecco una bella notizia che fa sussultare di gioia i miei intestini, — disse don Barrejo. — Era molto tempo che non mangiavo di quei deliziosi animali.
«Ne troveremo molti, uomo rosso?»
— I miei compatriotti vengono qui tutti gli anni a farne delle enormi raccolte, e la stagione ora è buona.
— Si può sbarcare dunque?
— Non correte alcun pericolo, poiché l’isola si eleva molto sulle acque del fiume.
— E la zattera?
— Lasciamola qui, — disse De Gussac.
— E poi come faremo a riprendere la navigazione?
— Cercheremo di rimetterla in acqua, don Barrejo.
— Spalancate gli occhi e seguitemi. State in guardia, poiché le zattere potrebbero avere condotti qui altri animali.
I quattro uomini attraversarono il galleggiante, il quale subiva delle scosse formidabili, senza però che la massa cedesse, e sbarcarono in mezzo ad un gruppo d’alberi, i quali proiettavano un’ombra foltissima.
— Il terreno è asciutto e sabbioso, — disse don Barrejo, il quale era stato il primo a saltare a terra. — Noi potremo riprendere tranquillamente il nostro sonno senza timore che questa volta sia l’isola che scappi.
— E le bestie? — chiese Mendoza. — L’isola mi pare abbastanza vasta e potrebbe contenere degli animali piú o meno feroci.
— Per mio conto preferirei un buon fuoco, — disse De Gussac.
— La mia esca che è chiusa in una scatoletta d’acciaio è perfettamente asciutta e dorme accanto all’acciarino.
— Bell’idea!... — esclamò Mendoza. — Mandiamo l’indiano a far provvista di legna se vi riuscirà.
— Un uomo che ode e che sente tutto, è anche capace di tutto, — disse Don Barrejo, ridendo.
L’indiano, ormai abituato ai frizzi del guascone, si fece dare da De Gussac la navaja e si avanzò sotto gli alberi.
I tre avventurieri intanto scavavano il suolo sabbioso per preparare il camino. Ad un tratto misero allo scoperto una specie di cono formato di fango bene spalmato e mescolato ad avanzi di vegetali.
— Qui dentro ci deve essere un tesoro!... — esclamò don Barrejo.
— Un tesoro nascosto certamente da qualche banda di filibustieri, — aggiunse De Gussac.
Mendoza era rimasto silenzioso, non condividendo affatto le speranze dei suoi due compagni.
— Scaviamo, De Gussac, — riprese il terribile guascone. — Vedrai che fra poco metteremo le mani su uno strato di dobloni e di piastre.
Tolsero lo strato fangoso che copriva la cima del cono tronco...e misero le mani su uno strato di uova, grosse come quelle di un’oca, ma piú allungate e col guscio molto rugoso e solcato da strani geroglifici.
L’osservazione era stata fatta da De Gussac, il quale aveva accesa l’esca colla speranza di veder la fiammella riflettersi dolcemente sull’aureo metallo.
— Corpo d’un cane strozzato!... — gridò don Barrejo. — Chi può essere stata quella meravigliosa gallina che ha pensato a noi?
«Corbezzoli!... Delle uova, signori miei, e ben grosse. Peccato non avere una padella ed un po’ d’olio per prepararci una frittata.»
— Uhm!... Uhm!... — fece Mendoza.
— Che cos’hai tu da brontolare? — chiese don Barrejo, il quale metteva da parte le uova con grande cura.
— Sarà stata poi una gallina a farle? Io non ho mai veduto di quei bipedi a costruirsi di questi nidi.
— Saranno dei bipedi selvaggi ancora sconosciuti. Toh!... Un altro strato di fango.
«Qui sotto ci deve essere ancora qualche cosa.»
Tolse la crosta, con una certa precauzione, per non fare una vera frittata non mangiabile, e mise allo scoperto un secondo e poi un terzo strato di uova, tutte eguali alle prime.
— Qui dentro c’è l’America coi tesori del Perú!... — esclamò.
In quel momento l’indiano comparve, portando un fascio di legna piú o meno secca.
— Ehi, amico, — disse don Barrejo, mentre De Gussac si affannava ad accendere il fuoco. — Sono proprio uova queste, è vero?
— Sí, — rispose il pelle-rossa.
— Di tartaruga?
L’indiano fece un gesto di disgusto:
— Uova di jacarè, — disse poi.
— Di caimano!...
— È un nido di quei rettili che le sabbie, sollevate dal tornado, hanno quasi ricoperto.
— Tonnerre!... Io non avrò mai il coraggio di assaggiarle. E tu, Mendoza?
— Preferisco stringermi ancora la cintura, — rispose il basco.
— Finirai per scoppiare, compare. Eppure i negri le mangiano queste uova.
— Ed anche le code dei caimani, — disse Mendoza.
— Troveremo di meglio, — disse l’indiano. — Aspettate che spunti il giorno.
«Le careta questa notte verranno a depositare le loro uova e voi ne avrete finché vorrete.»
— Un’altra stretta di ventre per ventiquattro ore, Mendoza, — disse il terribile guascone.
A forza di soffiare, De Gussac aveva acceso il fuoco, ed una bella fiamma aveva illuminato il minuscolo accampamento, spandendo intorno a sé un dolce tepore.
I tre avventurieri, che avevano le vesti inzuppate d’acqua e che tremavano di freddo, essendo tutt’altro che calde le notti di certe regioni dell’America centrale, si strinsero intorno all’allegra fiammata, mentre l’indiano ritornava a fare provvista di legna.
Tutta la notte il Maddalena si mantenne straordinariamente gonfio, tanto anzi da far nascere dei gravi dubbi ai tre avventurieri.
— Se anche l’isola viene coperta, buona sera a tutti, — si ripetevano, prestando orecchio ai fragori cupi della corrente.
La calma però che conservava l’indiano li rassicurava non poco.
Quell’uomo che udiva e sentiva tutto, avrebbe dovuto pur lui allarmarsi, mentre invece si manteneva d’un umore eccellente.
— Tu devi udire e sentire qualche cosa, — gli disse don Barrejo, un po’ prima che il sole spuntasse.
— Sí, le tartarughe che vengono, — rispose il figlio dei boschi.
— È l’ora della raccolta.
— Delle tartarughe o delle uova?
— Delle une e delle altre.
— Tu sei la Provvidenza.
«Amici, ci siamo arrosolati abbastanza al fuoco, senza riempire i nostri ventri, e quest’indiano ci promette delle colazioni straordinarie.
«Levatevi, poltroni.»
Scaricarono e poi ricaricarono i loro archibugi, temendo di fare qualche brutto incontro e si misero dietro all’indiano, mentre l’aurora spuntava rosseggiando pel tersissimo cielo, ormai sgombro di nubi. L’isola pareva che avesse piú di qualche miglio di lunghezza, e mentre le sue rive erano coperte da altissimi strati di sabbia, la sua parte centrale era coperta da bellissime palme, le quali facevano ondeggiare, ai primi soffi della brezza mattutina, le loro immense foglie dentellate.
L’indiano costeggiò dapprima quei boschetti che erano pieni di parraneca, bruttissime rane nere che hanno le gambe posteriori assai piú lunghe delle anteriori sicché permettono loro di spiccare dei salti cosí alti da poter entrare comodamente nelle case, passando attraverso le finestre; poi il figlio dei boschi, che era diventato prudentissimo, si fermò, indicando agli avventurieri la riva.
Uno spettacolo straordinario si offriva ai loro occhi. Tutte le dune sabbiose erano coperte di testuggini, le quali uscivano dal fiume a battaglioni, disperdendosi subito per l’isola.
Ve n’erano di due specie: le testudos midas, che hanno il guscio verdastro marmorizzato, squamoso, lunghe quasi due metri e larghe uno, e le testudos careta, dal guscio bruno chiazzato di macchie rossastre, irregolari, formato di tredici lamine poste superiormente e dodici inferiormente.
Se le prime sono ricercate per la massa delle loro carni, le seconde non lo sono meno, poiché dal loro guscio si ottiene quella scaglia di tartaruga che serve per mille usi.
— Chi prendere? — chiese don Barrejo, il quale non poteva tenersi piú fermo.
— Aspettiamo, — rispose l’indiano.
— Vuoi lasciare loro il tempo di riguadagnare il fiume?
— Aspetta che abbiano deposto le uova.
— A noi basta un paio di quei bestioni, — disse Mendoza. — Per noi le uova ci sarebbero d’impiccio.
«Addosso, don Barrejo!...»
I tre avventurieri si scagliarono in mezzo ai battaglioni dei rettili, disorganizzandoli e mettendoli in completa rotta.
Due grosse midas però erano rimaste nelle loro mani e non ne desideravano piú, almeno pel momento.
Tornarono trionfanti all’accampamento, alimentarono il fuoco, e gettarono in mezzo ai tizzoni fiammeggianti uno dei rettili.
L’altro era stato capovolto, colle gambe in aria, affinché non potesse fuggire.
— Eccoci radunati all’albergo della tartaruga, — disse don Barrejo, il quale assisteva impassibile ai disperati soprassalti di quella che stava cuocendo viva nel suo guscio. — Anche in questi dannati paesi, della fame se ne prova; però offrono, di quando in quando, delle splendide rivincite.
«Fiuta, Mendoza, ed anche tu, De Gussac. La bestia frigge allegramente nel suo grasso.»
— Dopo tanto digiuno sia la benvenuta, — rispose il basco. — Almeno potrò ora allentare la mia cintura.
— Questa è un’isola veramente meravigliosa, — disse De Gussac. — Io mi ci stabilirei per sempre, se qualcuno si ricordasse di mandarmi, di quando in quando, un barile di Xeres o d’alicante.
— Io preferisco muovere alla conquista del tesoro del Gran Cacico, — rispose don Barrejo. — A te le tartarughe, a me l’oro.
«Tonnerre!... Noi chiacchieriamo come scimmie rosse, non pensiamo che a prepararci delle colazioni o dei pranzi e dimentichiamo gli amici. Che i filibustieri siano sempre alle cascate?»
— Buttafuoco e Raveneau non sono uomini da abbandonarci e, se non ci vedranno giungere, manderanno gente a cercarci.
— Ed il marchese?
— Questo è un punto nero che mi cruccia.
— Possibile che quel gentiluomo faccia paura a due delle migliori lame della Guascogna e ad una spada famosa? Eppure devo confessare che non me lo scordo mai.
«Scommetterei che lo rivedremo quanto prima.»
— Se la piena non l’ha affogato assieme a tutti i suoi uomini, — disse De Gussac.
— Può essere successo anche questo, ma io, amici miei, vi dico che, riempito il ventre, rimetterò in acqua la zattera.
«Non mi sentirò sicuro finché non mi troverò fra i filibustieri.»
L’indiano, armato d’un grosso piuolo, aveva spinta la testuggine fuori dal fuoco, e dopo d’aver soffiata via la cenere, con un colpo di draghinassa di don Barrejo, vibratole su un fianco, l’aperse, non senza però l’aiuto dei suoi compagni.
Il profumo che tramandò la povera bestia, ben arrostita nel suo grasso, fu tale da far fare a don Barrejo quattro salti.
— Fiuta, fiuta Mendoza!... — gridava. — Fiuta anche tu, De Gussac!...
— Preferisco divorare, — aveva risposto il basco, allentando interamente la cintura.
Se avessero avuto del pane da bagnare nell’olio profumato che friggeva ancora intorno alle carni del rettile, la colazione sarebbe stata certamente migliore.
I tre avventurieri, e soprattutto l’indiano, si rifecero, rimpinzandosi di carne squisitissima, poiché quella delle tartarughe può figurare sulle migliori tavole, malgrado la repulsione istintiva che ispira il disgraziato rettile condannato ad una vera galera fino all’ultimo giorno della sua vita.
Quando furono ben pieni, stavano per allungarsi in mezzo alle erbe, coi piedi rivolti verso il fuoco, per digerire tranquillamente l’arrosto, quando udirono verso l’alto corso del fiume echeggiare delle grida.
Don Barrejo, piú agile di tutti perché piú magro, era stato il primo a saltare in piedi, scaraventando una sequela d’imprecazioni contro i disturbatori della quiete pubblica.
— Chi sono quei signori che vengono a guastarci la digestione? — aveva gridato, dopo una sfilza di tonnerre. — Non si può dunque cacciar giú, dopo quarant’otto ore di digiuno, un pezzo di arrosto, senza che vengano a molestarci?
«Mendoza, noi metteremo alla porta quegli importuni!...»
— È come dire che li getteremo nel fiume, — aveva risposto il basco, alzandosi di cattivo umore. — Si stava cosí bene ora qui!
In pochi salti i tre avventurieri e l’indiano attraversarono il gruppo di cespugli che li divideva dalla loro zattera, e scorsero subito, non certo con molto piacere, una grossa canoa indiana, montata da sette od otto uomini e che la piena portava verso l’isola.
— Tonnerre!... — esclamò don Barrejo, facendo una brutta smorfia. — Gli spagnuoli!...
— Che siano quelli del marchese di Montelimar? — chiese De Gussac.
— Che cosa vuoi che vengano a fare qui gli altri, in questo paese infame? Preferiscono godersi la vita tranquilla della città, mio caro.
— Otto, — disse in quel momento il basco. — Non sono molti e non sono nemmeno pochi.
— Decidi, Mendoza, — disse Don Barrejo. — Fra venti minuti quegli uomini saranno qui.
«Dobbiamo impedire loro lo sbarco a colpi d’archibugio?»
— No, don Barrejo. Preferisco lasciarli prendere terra, aspettare la notte e prendere loro la canoa.
«Indio, spegni subito il fuoco, rimetti sulle sue zampe la tartaruga perché vada a farsi mangiare altrove, e scappiamo verso l’altra estremità dell’isola.»
— E se ci scoprono? — chiese De Gussac.
— Allora daremo battaglia e senza quartiere, — rispose il basco. — Suvvia, gambe!...
Non vi era un istante da perdere. La corrente del Maddalena, ancora gonfio, trascinava velocemente la pesante canoa, che gli spagnuoli stentavano a mantenere in rotta.
— Orsú, — disse don Barrejo, sospirando. — Faremo la digestione correndo, invece che colle ginocchia in aria.
«Questa corsa però me la pagheranno, per le corna del diavolo!»
Si erano messi a correre, preceduti dall’indiano, il quale aveva affermato di conoscere a fondo l’isola e di sapere dove si trovavano anche dei nascondigli. La traversata di quel pezzo di terra, gettato attraverso il Maddalena, fu piú lunga di quanto avessero prima creduto. Non era un isolone ma nemmeno un isolotto.
Sbuffando come foche, poiché si erano presi una strepitosa rivincita sulle colazioni mancate, rimpinzandosi come uruba, giunsero finalmente in un luogo ove pareva che una muraglia di verzura, formata esclusivamente da passiflore gigantesche, chiudesse il passo, e ad un segno dell’indiano sostarono.
Si trovavano su una piccola altura, quindi in buone condizioni per sorvegliare le due correnti del fiume.
— È finita la trottata, tu che senti e odi tutto? — chiese don Barrejo.
— In mezzo a queste folte passiflore nessuno verrà a cercarci, se voi vi aprirete un passaggio.
— Povera la mia draghinassa!... Finirà per perdere il filo, ed allora che cosa ne farò della gloriosa arme dei miei avi?
«Senti qualche cosa?»
L’indiano scosse la testa, sorridendo.
— Che siano già sbarcati?
— Lo credo, uomo bianco. Con una corrente cosí rapida sarebbero già passati.
— De Gussac, — riprese don Barrejo, dopo un breve silenzio, — tu che possiedi una arma meno gloriosa della mia, provala contro quelle piante e squarcia loro il cuore come se fosse quello del marchese di Montelimar.
L’ex-taverniere di Segovia-Nuova, quantunque ci tenesse anche lui al filo della sua draghinassa, non si fece ripetere due volte la cosa, e si mise a massacrare le passiflore, facendo cadere dall’alto una pioggia di splendidi fiori.
Bastarono pochi minuti per aprire un varco attraverso a quella massa di verzura, poiché anche l’indiano, armato del suo randello, bene o male, aiutava l’ex-taverniere. Scavatosi una specie di nido, che tappezzarono di erbe freschissime, si permisero finalmente di tirare il fiato.
— Paese cane, dove non si può nemmeno digerire un pezzo di tartaruga, — disse don Barrejo, lasciandosi cadere sull’ammasso di erbe.
— Io finirò per tornare a Panama piú magro d’un chiodo...
— Ma carico d’oro, — disse De Gussac, ironicamente.
— Non l’ho ancora in tasca, compare. Abbiamo un certo affare ora da sbrigare, che mi dà non poco da pensare.
— Quegli otto spagnuoli che sono sbarcati? — chiese Mendoza.
— Se sono armati anche essi di archibugi, non avremo molto da ridere, amico.
— Niente canne che tuonano, — disse l’indiano, il quale non perdeva una sillaba.
— Ah!... Tu hai veduto!... — esclamò don Barrejo. — Uomo meraviglioso!...
— Niente canne che tuonano, — ripeté il selvaggio figlio dei boschi.
— Allora avranno da fare con noi.
«Se si fermeranno fino a questa sera porteremo loro via la scialuppa. Vorrei però essere ben sicuro se sono sbarcati o se sono naufragati.»
— M’incarico io, — disse l’indiano. — Io non ho nulla da temere da quegli uomini, non essendo le mie tribú in guerra con loro.
— Va’, mastro Provvidenza, — disse il terribile guascone. — Tu diventi di ora in ora un uomo sempre piú prezioso.
L’indiano si gettò fra il palmito e s’allontanò senza far rumore, mentre i tre avventurieri si spingevano cautamente prima verso l’uno e poi verso l’altro braccio del Maddalena.
Gli spagnuoli dovevano aver preso proprio terra, poiché la corrente non trascinava che dei tronchi d’albero e degli enormi ammassi di radici, le quali fluttuavano come altrettante zattere.
— Se ci fosse fra di loro il marchese di Montelimar? — si chiedeva don Barrejo, mordendosi i baffi grigiastri. — La faccenda del tesoro sarebbe bella e finita.
L’assenza dell’indiano non durò piú di un’ora, e giunse al campo correndo, come se fosse inseguito. I tre avventurieri erano balzati prontamente sui loro archibugi, temendo un attacco.
— Che cosa c’è? — chiesero ad una voce.
— Sono sbarcati, — rispose l’uomo rosso.
— Non era necessario che tu ti affannassi tanto a correre, — disse don Barrejo.
— Ne ho uno alle calcagna.
— Uno di quegli uomini?
— Sí, uomo bianco.
— Sei stato dunque scoperto? — chiese Mendoza.
— No, signore. L’uomo che si avanza forse ha intenzione d’esplorare l’isola o di sparare qualche colpo di fucile.
— È lontano? — chiese De Gussac.
— Sarà qui fra poco.
— E gli altri? — domandò don Barrejo.
— Si sono accampati all’opposta estremità dell’isola, dopo d’aver messo in secco la loro canoa.
— Hanno canne che tuonano?
— Una sola che tiene l’uomo che mi segue.
I tre avventurieri si scambiarono uno sguardo, poi una parola uscí dalle loro labbra: — Prendiamolo!...
Non vi era bisogno di preparare un agguato, poiché l’esploratore o cacciatore che fosse, doveva fatalmente impegnarsi in mezzo a quei meravigliosi ammassi di passiflore, e non esistendo che un solo passaggio, quello aperto dalle draghinasse, non poteva prenderne altri se voleva avanzare. I tre avventurieri si ritrassero nel loro rifugio ed attesero impazientemente il loro uomo.
Udirono prima un colpo di archibugio, poi quel grido che non manca mai di lanciare il cacciatore quando ha messo a terra qualche volatile o qualche capo di selvaggina.
— Non è che a pochi passi da noi, — disse don Barrejo. — Non lasciamogli il tempo di sparare.
Trascorsero alcuni minuti, occupati forse dal cacciatore a raccogliere la sua selvaggina ed a ricaricare l’archibugio, poi nel palmito si udirono a scrosciare le foglie secche che coprivano il suolo.
L’uomo, ignaro del pericolo a cui andava incontro, era giunto dinanzi alla grande massa delle passiflore, e dopo d’aver esitato un po’, si era cacciato nel passaggio aperto dalle draghinasse, quantunque tutti quei rami ancora freschi, sparsi al suolo, avrebbero dovuto metterlo in sospetto.
— Attenti!... — sussurrò Mendoza.
Si erano messi due da una parte e due dall’altra del rifugio. L’indiano teneva alzata la sua terribile clava.
Lo spagnuolo finalmente comparve.
Era un giovane soldato, bruno come un andaluso, tutto nervi e muscoli e gli occhi ardentissimi ed irrequieti. Aveva appena messo i piedi dentro il rifugio, quando tre fucili lo presero ad un tempo di mira, mentre don Barrejo gridava, con tono minaccioso:
— Arrenditi, o sei morto!...
Il soldato, quantunque perso alla sprovvista, tentò di fare qualche passo indietro per servirsi anche lui dell’archibugio, ma De Gussac in un baleno gli fu sopra e lo disarmò, mentre don Barrejo ripeteva:
— Arrenditi, o sei morto!...
— Volete assassinarmi? — chiese il soldato, impallidendo. — Chi siete voi? Che cosa fate qui?
— Chi siamo noi sarebbe un po’ difficile a spiegarvelo, giovanotto, — rispose don Barrejo, ridendo. — Siamo uomini che non si classificano piú, ma che hanno sulla loro coscienza un bel numero di colpi di spada e d’archibugio.
«Volete sapere che cosa facciamo?
«Niente, signor mio: attendevamo che qualcuno ci portasse un po’ di tabacco per scacciare la noia. Voi ne avete: io me lo prendo!»
Il terribile guascone, mentre Mendoza e De Gussac tenevano ben fermo il prigioniero, lo frugò e gli tolse una borsa ben gonfia di tabacco.
— Grazie!... — gli disse.
— Siete un ladro, — rispose lo spagnuolo, fremente.
— Io non mi offendo affatto, quantunque sia un tale uomo, in altre occasioni, da scucire il ventre, con un colpo di draghinassa, ad un insolente pari vostro.
«Pel momento penso che una buona pipata di tabacco, dopo che da una settimana e piú ne sono privo, può valere un’offesa, giovanotto.
«Badate però, che noi siamo di quei terribili filibustieri che hanno fatto tremare e piangere le colonie americane d’oltre oceano.»
Il soldato era tornato ad impallidire. Il nome dei filibustieri era troppo noto per non dare un gran fremito di terrore a qualunque persona avesse appartenuto alla nazione spagnuola.
— Mendoza, — continuò l’implacabile don Barrejo, — disarma quest’uomo e legalo. Bisogna che canti se vuole vivere.
L’indiano strappò da una pianta alcune liane e le porse a De Gussac, il quale si affrettò ad avvolgerle intorno al prigioniero.
— Ora, amico, — riprese don Barrejo, — sciogli la lingua ed apri bene gli orecchi. Ricordati, innanzi tutto, che il fiume è profondo e che la sua corrente non rende piú la preda che le si affida.
— Che cosa volete dunque da me? — chiese il giovane, impressionato da quella minaccia.
— Dirci, innanzi tutto, se fra voi si trova il marchese di Montelimar.
— No, ve lo assicuro: la sua canoa deve essere ancora molto lontana.
— Ah!... Scende il fiume con delle barche? Chi gliele ha fornite?
— Una piccola tribú di indiani pescatori.
— Che avrete, si capisce, prima sterminati.
Lo spagnuolo non rispose.
— Di quei disgraziati non m’importa, — continuò il terribile guascone, dardeggiando sul giovane uno sguardo pieno di minaccia. — Conosciamo troppo bene qual è il vostro sistema, ed il diavolo non ha messo al mondo per niente i filibustieri. Lagrima contro lagrima; colpo di spada contro colpo di spada; strage contro strage; e noi, signor mio, ne abbiamo compiute abbastanza ai vostri danni.
«Ditemi un po’ come se l’è cavata il marchese contro i mangiatori di carne umana, che lo avevano assalito.»
— Vittoriosamente.
— E contro la piena?
— Un disastro...
— Continuare, — disse don Barrejo. — Qui bisogna parlare o finire in fondo al fiume.
— La piena ci ha distrutti quasi tutti, — rispose il prigioniero.
— Non vi è che una canoa dietro di noi montata dal signor marchese.
— E da quanti uomini?
— Ah!... Non so!...
— Ehi, amico, allungate la lingua, — disse don Barrejo, sguainando la draghinassa.
— Pochi.
— Il numero.
— Potete annegarmi, se vi piace, io non lo so.
— Noi non siamo dei cannibali per mandare subito all’altro mondo un giovanotto pieno di vita come siete voi. Alla vostra età forse non avevo tanto coraggio, come non ne aveva Enrico IV.
— Non so chi sia, signore.
— Il piú grande re che abbia avuto la Francia, ma ciò non vi deve interessare.
«È solo del marchese di Montelimar che pel momento dobbiamo occuparci.
«Voi dite che scende il fiume con una canoa e che la sua scorta è stata distrutta?»
— Spazzata via dall’inondazione che ci ha sorpresi sulle rive del fiume, prima che tutte le canoe fossero giunte.
— Ecco una notizia importantissima, — disse don Barrejo, colla sua solita calma ironica. — Peccato che non abbia scopato via anche S. E. l’illustrissimo marchese, però di questo affare mi occuperò io.
«Dove siete diretti?»
— Al Darien.
— Per conquistare l’eredità del Grande Cacico, è vero?
— Credo che il signor marchese abbia questa intenzione.
— Sa che dinanzi a lui ha un corpo di filibustieri, capace di contrastargli il passo e di farlo correre fino a Segovia-Nuova, se vi è rimasta una casa?
— Non lo so: si è parlato però di un gruppo di ladroni del mare, venuti dalle sponde dell’oceano Pacifico, diretto verso quelle dell’Atlantico.
«Di piú io non potrei dirvi.»
— Allora lasciate che prenda la vostra pipa e che la carichi. Se fumiamo noi, fumerete anche voi.
Il guascone, unendo i fatti alle parole, tolse al prigioniero la pipa, gliela riempí, gliela accese e si degnò di mettergliela perfino in bocca, dicendo:
— Fumate senza timore: il tabacco spagnuolo è sempre stato eccellente.
«Ah!... Contro chi avete fatto fuoco poco fa? Sarei curioso di saperlo.»
— Su un uccellaccio che è scappato via, benché gli avessi spezzata un’ala.
— Ciò non sarebbe accaduto ad un filibustiere, — disse don Barrejo. — Fumate, e noi, camerati, accendiamo i nostri camini e mandiamo giú l’arrosto di tartaruga.
I tre avventurieri si gettarono al suolo, colle ginocchia ripiegate e si misero a fumare allegramente, in attesa che la notte scendesse per tentare l’audace colpo di mano già progettato.
La giornata passò tranquillissima. L’indiano, sempre alla scoperta, aveva riveduto i sette spagnuoli seduti intorno al fuoco, occupati ad arrostire la tartaruga che gli avventurieri avevano catturata e che non aveva ancora avuto il tempo di guadagnare il fiume.
Verso il tramonto don Barrejo fece legare solidamente, al tronco d’una palma, il disgraziato prigioniero, e disse:
— Andiamo: è l’ora.