Gli ultimi filibustieri/Capitolo XVI - Sull'alta «sierra»

Capitolo XVI - Sull’alta «sierra»

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Capitolo XVI - Sull’alta «sierra»
Capitolo XV - Il pitone delle caverne Capitolo XVII - La cattura di don Barrejo

Capitolo XVI
Sull’alta «sierra»


Don Barrejo, da buon guascone, era un uomo di parola e siccome la gola tentava ferocemente i suoi compagni, tutti furono d’accordo di prepararsi la colazione e di divorarsela, salvo a battersi come era loro abitudine.

Il cane, che doveva avere un olfatto finissimo per sentire i nemici ad una cosí grande distanza, continuava a latrare sui fianchi della sierra. Seguiva probabilmente qualche cañon, forse un po’ a casaccio, tirandosi dietro i combattenti i quali, dopo tante marce faticose, dovevano essere impazienti di finirla con quegli inafferrabili avventurieri.

Due galli del collare, sapientemente arrostiti da De Gussac, anche lui taverniere, infilzati in una bacchetta di ferro d’un archibugio, furono il piatto forte della colazione.

Mendoza però vi aveva aggiunto un coniglio ben grassoccio, il quale arrosolandosi spandeva all’intorno un profumo squisito, fors’anche pericoloso col cane che era sempre sulla loro pista.

Malgrado le spacconate dei due guasconi, i quali affermavano di non volersi muovere fino a che non avevano terminato, la colazione fu fatta alla lesta.

I latrati del maledetto cane, echeggianti sempre sul fianco della sierra e che diventavano di minuto in minuto piú distinti, avevano messo un po’ d’inquietudine anche indosso ai due gradassi.

— Sgombriamo, — disse Mendoza, il quale sospirava l’istante di unirsi alla colonna dei filibustieri. — Chi vuol battersi rimanga pure.

«Per conto mio serbo la pancia per un’altra occasione.»

— Perché è piena di quella deliziosa carne di gallo da scoppiare, — disse don Barrejo. — Se tu fossi affamato terresti testa a quei demoni che c’inseguono. Confesso però che sono anch’io del tuo parere e che preferisco rimettermi in cammino.

«Sai condurci tu, De Gussac?»

— Quando avremo attraversata la sierra vi mostrerò le cascate del Maddalena.

«La via sarà lunga e molto aspra, però vi assicuro che giungeremo prima dei vostri compagni, se sono costretti a seguire la valle di Segovia.»

— Mettiamoci le gambe in ispalla, — disse don Barrejo — e facciamo correre gli spagnuoli.

«Che non si stanchino mai? Oh vedremo se avranno le gambe piú solide dei guasconi e dei baschi.

«Ah!... Quel cane!... Se potessi mandargli una buona palla!»

— Si presenterà piú tardi l’occasione, — disse De Gussac. — Per ora non dobbiamo far altro che correre.

— Da’ un po’ d’olio ai muscoli, Mendoza.

— I muscoli dei baschi non si bagnano che nel vino, — rispose il filibustiere.

Un’altra vetta, altissima, tutta coperta di foreste immense stava di fronte a loro.

I tre avventurieri, dopo essersi ben assicurati che il cane era ancora lontano, attaccarono coraggiosamente la montagna, colla ferma intenzione di far fare agli spagnuoli una lunga e terribile marcia, poiché quella ostinazione cominciava ad impressionarli. Dovevano essersi ben accorti che non avevano dinanzi che degli sbandati e non già il gruppo principale guidato da Raveneau de Lussan e da Buttafuoco, per impegnarsi cosí accanitamente.

Un dubbio si era però cacciato nel cervello del guascone numero uno e del basco, cioè che il marchese di Montelimar, abbandonato il grosso delle sue forze, si fosse unito ai trecento uomini per giungere piú sollecitamente alle frontiere del Darien.

L’idea di doversi trovare ancora dinanzi al terribile marchese, faceva correre dei brividi di spavento nelle ossa dei due avventurieri.

Marciavano da quattro ore, con lena affannosa, non fermandosi che qualche istante per ascoltare se il cane guadagnava su di loro, quando De Gussac che marciava in testa si fermò bruscamente, facendo un gesto di dispetto.

— Ehi, amico, mi pare che tu non sia contento in questo momento. Hai veduto le corna o la coda di compare Belzebú?

— Temo che avremo fra poco da fare appunto con delle corna e con delle code, — rispose il taverniere di Segovia. — Ascolta un po’ dunque.

— To’!... Si direbbe che qui vi sono delle mucche, — rispose don Barrejo. — Che bella occasione per bere una tazza di latte!

— Sí, va’ a mungerlo tu, — rispose De Gussac, il quale non pareva affatto tranquillo.

— Non sono spagnuoli e a me basta, — rispose don Barrejo.

— Sono ben piú terribili. Hai mai udito parlare dei tori della puna?

— M’immagino che saranno delle bestie fornite di corna, di zoccoli e di code come tutte le altre.

— Uff!... — fece don Barrejo.

— Non prendete le cose alla leggiera, — disse Mendoza, il quale aveva già armato l’archibugio. — Io ho udito parlare dei tori delle alte sierre e sempre con grande spavento.

— Insomma che animali sono? — chiese don Barrejo.

— Dei tori fuggiti dalle tenute in seguito ai feroci trattamenti dei vaqueros e diventati ormai cosí selvaggi che appena scorgono un uomo lo assaltano e lo sventrano.

— Veramente non amerei affatto lasciare sulle loro corna la mia squisita colazione, — disse don Barrejo. — Che cosa si fa dunque?

— Si aspetta, — rispose De Gussac.

— E gli spagnuoli che ci sono sempre alle spalle!...

— Preferisco affrontare loro, per mio conto, piuttosto che un toro della puna.

— Sei un guascone come me, quindi io devo crederti. Guardiamoci dunque dalle corna di questi signori dell’alta sierra.

Si erano gettati dietro il tronco d’un altissimo pinou, facile a scalarsi avendo i rami fino quasi a terra, e si erano messi in ascolto.

Nella boscaglia si udivano dei muggiti sordi, che avevano un non so che di feroce ed attraverso agli squarci delle piante si vedevano passare e ripassare delle grandi ombre tutte nere.

Qualche drappello di quei formidabili animali, riconosciuti di una ferocia inaudita e d’uno slancio irrefrenabile, si era radunato in quel luogo e tagliava la via agli avventurieri, i quali correvano il pericolo di vedersi presi fra i colpi d’archibugio degli spagnuoli e quelli delle corna non meno temibili.

— Non ci mancava che questo, — disse sottovoce don Barrejo, il quale spiava curiosamente quelle grosse ombre. — Io no ho mai avuto a che fare con questi animali.

«Ci vorrebbe il signor Buttafuoco con una mezza dozzina di bucanieri.»

— Vallo a pescare sul Maddalena, — disse Mendoza.

— Eppure anche senza di lui dobbiamo fare qualche cosa. Preferisci le palle o le corna?

— Preferisco aspettare che i tori se ne vadano, — rispose Mendoza.

— Ed allora avremo addosso gli spagnuoli. Il cane ha trovato certamente la nostra pista. Odi come latra giocondamente, ora? Se potessi prenderlo a calci!...

— Non impicciarti coi mastini. Hanno dei denti formidabili e non esitano mai ad attaccare il nemico.

— Mi ricordo di Sandomingo.

— Lascialo quindi in pace e se vuoi sbarazzarti di lui, ammazzalo con una buona fucilata e anche a distanza, poiché non sempre vanno a terra con una palla.

— L’odio ferocemente.

— Ed io non meno di te ed aspetto pazientemente l’occasione che mi giunga a tiro. Morto lui, gli spagnuoli rimarranno disorientati.

Tonnerre!...

Un colpo di archibugio era risuonato in quel momento lungo i fianchi della sierra.

I tori, udendo quella detonazione, si gettarono fra i cespugli facendo udire dei muggiti minacciosi.

— In alto!... — comandò De Gussac.

I tre uomini s’aggrapparono ai grossi rami del pinou e diedero la scalata al vegetale gigante, il quale lanciava la sua cima a sessanta e forse piú metri dal suolo.

Si erano appena innalzati, quando dieci o dodici tori, tutti neri, cogli occhi iniettati di sangue, le corna lunghe ed aguzze bene piantate sulla fronte, si gettarono come un uragano sotto la boscaglia.

— Un momento di ritardo e facevano di noi una bella frittata, — disse don Barrejo.

— Te lo avevo detto io che erano piú pericolosi degli spagnuoli, — rispose De Gussac. — Quando sono lanciati non li arresterebbe nemmeno un pezzo d’artiglieria.

— Speriamo che s’incontrino coi nostri nemici e che sventrino quel dannato cane.

Temendo di venire da un momento all’altro scoperti, si erano messi a salire frettolosamente, passando di ramo in ramo.

Sotto di loro i tori continuavano a scorrazzare all’impazzata per la boscaglia, ora scagliandosi con impeto spaventoso ed ora sostando qualche istante, come se cercassero di raccogliere dei lontani rumori.

Probabilmente avevano udito i latrati del cane e si erano accorti dell’avanzata degli spagnuoli.

— Che brutte bestie, — disse l’eterno chiacchierone, salendo sempre. — Avevi ragione a dire, De Gussac, che sono peggiori degli spagnuoli, quantunque non li abbia ancora provati.

— E ti auguro di non provarli, — rispose il guascone numero due. — Fortunatamente non possono arrampicarsi e troveremo sulla cima di questo pinou un comodo nido.

— Un nido, avete detto? — chiese Mendoza, il quale era piú avanzato di tutti. — Io credo che ce ne sia uno lassú e abbastanza comodo per starci tutti.

«Avremo però da fare i conti con i proprietarî.»

— Che cosa hai scoperto dunque? — chiese don Barrejo.

— Non vedi lassú, una grossa macchia nera?

— E sarebbe un nido quello?

— È di condor!

— Vuoto o non vuoto noi lo occuperemo, — rispose il terribile guascone.

— Bada ai tuoi occhi, camerata. Non si scherza coi condor.

— Può essere vuoto.

— Questo lo sapremo fra cinque minuti.

— Mi pare che il diavolo abbia messo la coda nei nostri affari. I tori sono sotto di noi, i grossi uccellacci sopra e gli spagnuoli pronti a fucilarci!

— Taci e sali, — rispose Mendoza.

Quella scalata pareva che non dovesse finire mai, tanto alta era la pianta. Finalmente Mendoza, che era sempre piú in alto di tutti, giunse sotto una specie di piattaforma, coi margini rialzati, formata di robusti rami intrecciati.

Era cosí vasta da poter contenere non tre, bensí anche sei uomini, e sulla sua robustezza non si poteva dubitare.

— È proprio un nido di condor, — disse. — Se è vuoto, potremmo riposarci tranquillamente e lasciar passare gli spagnuoli.

«Quassú non verranno certo a scovarci.»

— E se sarà occupato, metteremo gli inquilini alla porta, — disse don Barrejo. — Abbiamo archibugi e spade per tenere in rispetto quei giganti dell’aria.

«Sali, Mendoza, ma prima assicurati se questa gigantesca cesta è solida.»

— Ne rispondo pienamente, senza provarla.

Il basco si aggrappò all’orlo ed in due tempi si tirò su piantando il viso fra una moltitudine di penne e di avanzi animali che puzzavano orrendamente.

— Sacco rotto!... — esclamò, mettendosi in ginocchio. — Il nido è occupato.

— Da chi? — chiese Barrejo, il quale si era issato dall’altra parte, aiutato da De Gussac.

— Vi sono due condorini che sonnecchiano in mezzo a tutta questa porcheria.

— Mettili alla porta.

— E se i genitori ritornano? Non vi è molto da scherzare coi condor, compare.

— Allora strozzali e ci serviranno piú tardi di colazione.

— Puah!... Volatili nutriti di carogne!...

Aveva alzate le piume e le erbe secche ed aveva messo allo scoperto due condorini, già grossi come un tacchino, quantunque non avessero ancora messe le piume.

— Sarei stato piú contento se non li avessimo trovati, — disse. — Buttali via, prima che giungano i vecchi e facciamo un po’ di pulizia.

«Questo è un letamaio.»

Il basco guardò prima in aria, poi non avendo scorto nulla, prese i due piccini e li gettò nella foresta, mentre De Gussac e don Barrejo rovesciavano penne, avanzi d’animali puzzolenti e grossi mazzi d’erbe secche.

— Panchita sarebbe stata piú brava colla scopa, — disse il terribile guascone, con un sospiro. — Noi d’altronde non abbiamo maneggiato altro che spade e draghinasse.

— E boccali di mezcal o di Xeres, aggiunse maliziosamente Mendoza.

— Mio caro, bisogna sapersi guadagnare la vita... Toh! E gli spagnuoli? Io non odo piú i latrati del cane.

I tre uomini si misero in ascolto ed infatti non udirono piú la grossa voce del terribile mastino.

— Che ci siano già sotto? — si chiese don Barrejo, facendo una smorfia. — Impegnare un combattimento a sessanta metri d’altezza è un certo affare che non mi va troppo a sangue.

— Vediamo innanzitutto che cosa fanno i tori della puna, — disse Mendoza. — Se pascolano sempre nel bosco, vuol dire che gli spagnuoli non sono ancora giunti.

Si gettò carponi e si spinse fino sull’orlo del vasto paniere.

Da quell’altezza poteva dominare un immenso tratto di foresta, anche perché le piante non erano piú folte come sui fianchi della sierra.

— Si vedono? — chiese don Barrejo che gli stava dietro.

— Sí, e pascolano precisamente sotto questo pinou, — rispose Mendoza.

— Eppure poco fa gli spagnuoli non erano molto lontani. Quel corpo d’archibugio deve essere stato sparato a non piú di mille passi.

— Sapete, amici, che questo silenzio m’inquieta?

— Che abbiano abbandonata la caccia? — chiese De Gussac.

— Quando le cinquantine spagnuole che hanno per guida un mastino, si mettono su una pista, la seguono con non minor ostinazione degl’indiani, — rispose Mendoza. — Li conosco troppo bene.

— Sono tranquilli i tori? — chiese il taverniere di Segovia.

— Manifestano una certa inquietudine, però non si allontanano.

— Sai che dobbiamo fare, camerata? — disse don Barrejo.

— L’aria è purissima, il sole è splendido, il nido oscilla dolcemente come per invitarci a dormire. Chiudiamo gli occhi e lasciamo che gli spagnuoli ci cerchino in mezzo alla foresta.

Con un calcio gettò giú gli ultimi rimasugli di erbe secche, e dopo aver sbadigliato tre o quattro volte di seguito con relativi stiramenti di braccia, si coricò nel robusto paniere, incrociando le mani sul ventre.

— Felici volatili, — disse. — Coll’aria che soffia quassú devono provare degli appetiti straordinarî.

— Tali da levare gli occhi anche a te, — disse De Gussac.

— Se vengono a seccarci, con due colpi di draghinassa taglierò loro il collo e li manderò a tenere compagnia ai condorini che spero si saranno accoppati, cadendo da questa altezza.

«Se avessi una carica di tabacco sarei l’uomo piú felice del mondo.»

— La provvista è esaurita, — rispose Mendoza.

— Mi rifarò alle cateratte del Maddalena.

I suoi due compagni, vedendo che i tori si mantenevano sempre tranquilli, giú, alla base del pinou, e non udendo piú i latrati del cane, si erano decisi a coricarsi accanto a lui, quantunque tutti quei rami fossero impregnati d’un fetore di carne marcia quasi insopportabile.

Il vento che spirava abbastanza forte, faceva dondolare la cima dell’altissima pianta imprimendo anche al nido un leggiero movimento di rollio.

Non ci voleva di piú per far chiudere gli occhi ai tre avventurieri, che ben poco si erano riposati dopo la loro fuga da Segovia-Nuova.

Avevano dimenticato spagnuoli e condor; pei tori nulla avevano certo da temere e potevano dormire anche una settimana.

Ad un tratto una fortissima corrente d’aria si produsse sopra di loro, poi qualche cosa precipitò sul nido, emettendo stride acute. De Gussac che aveva ricevuto un terribile colpo di becco sull’elmetto, aprí gli occhi, gridando:

— All’erta!... I condor!...

Un uccellaccio mostruoso, che aveva dell’aquila e del marabuto indiano avendo il collo spelato e rognoso con grosse sporgenze, si era lasciato cadere sopra di loro.

Come si sa, i condor sono i piú grossi volatili che esistano al mondo, possedendo delle ali che misurano, prese insieme, perfino cinque metri ed una forza tale da portare in aria un montone o un guanaco colla stessa facilità come fossero delle semplici lepri.

Non vi era quindi da scherzare con un tale avversario.

Vedendo i tre avventurieri balzare in piedi colle spade in mano, si ritrasse fino all’orlo del nido, agitando furiosamente le sue immense ali e spalancando il rostro pronto all’offesa.

Imprimeva alla costruzione tali scosse da temere che da un momento all’altro tutto si sfasciasse.

I tre avventurieri, ben risoluti a non lasciarsi levare gli occhi o fare un salto di cinquanta o sessanta metri, stavano per spingersi innanzi, quando una grande ombra si proiettò sopra di loro.

— Il maschio!... — aveva gridato De Gussac, il quale conosceva meglio dei suoi compagni quei formidabili uccellacci.

Un altro condor, piú gigantesco del primo, si precipitava sul pinou mandando grida acute e sbattendo rabbiosamente le ali.

— Diamo battaglia!... — gridò don Barrejo. — A me il maschio, per ora; a voi la femmina.

— Bada di non farti scaraventare nel bosco, — avvertí De Gussac.

Il secondo uccellaccio si era pure aggrappato all’orlo del nido e tendeva il collo rognoso, avventando furiose beccate in tutte le direzioni.

Un combattimento a terra, fosse pure contro dei nemici piú numerosi, non avrebbe spaventato i due guasconi ed il basco, oramai troppo abituati a menar le mani. Una lotta lassú, dentro un nido situato sulla cima di un albero, a sessanta metri d’altezza, contro due volatili che con un solo colpo d’ala potevano spazzarli via, era una certa faccenda che faceva sudar freddo anche don Barrejo.

— Gettatevi in ginocchio!... — aveva comandato De Gussac.

Era l’unica cosa da farsi per evitare un terribile capitombolo.

Mendoza e l’ex taverniere di Segovia-Nuova si erano gettati contro la femmina, la quale sembrava la piú furiosa, mentre don Barrejo cercava tener testa al maschio che minacciava di spaccargli la testa con un tremendo colpo di rostro.

La lotta però era tutt’altro che facile, in causa delle spaventose oscillazioni che subíva il nido, sotto l’enorme spinta di quelle quattro gigantesche ali.

I colpi grandinavano, colpi di spada e colpi di draghinassa, e non ottenevano altro successo che quello di far volar in aria una nuvola di penne.

I condor tenevano coraggiosamente testa agli invasori del loro nido e sembravano ben decisi a vendicare la loro prole.

S’avanzavano, producendo delle impetuose correnti d’aria, gridando rabbiosamente, riparandosi destramente dai colpi di spada colle ali e perfino col rostro. Gli archibugi avrebbero potuto avere buon giuoco contro di loro, se il timore di attirare l’attenzione degli spagnuoli, forse vicinissimi, non avesse trattenuto prudentemente gli avventurieri.

La battaglia durava da cinque minuti, con pari furore d’ambe le parti e con scarso successo, quando il maschio che si sentiva punzecchiare da tutte le parti, abbandonò l’orlo del nido, e alzatosi di pochi metri piombò come una massa inerte addosso al terribile guascone, sperando forse di opprimerlo col suo peso o d’imprigionarlo fra le sue ali.

Don Barrejo, sconcertato da quel fulmineo attacco, che certamente non s’aspettava, vedendo sopra di sé gli artigli pronti a piantarsi nella sua testa, lasciò cadere la draghinassa e s’aggrappò disperatamente alle zampe dell’uccellaccio, confidando nella propria forza e nel proprio peso. Il condor invece, con uno sforzo disperato, si risollevò e spiccò una grande volata al di sopra del bosco, abbassandosi gradatamente.

Il disgraziato guascone, che non aveva nessun desiderio di fracassarsi le ossa, non aveva abbandonate le zampe.

— Aiuto, Mendoza!... — aveva urlato.

Disgraziatamente il basco e l’ex taverniere di Segovia-Nuova non potevano in quel momento occuparsi di lui, né seguirlo nel suo viaggio aereo.

Stretti dalla femmina, che li assaliva con una ferocia inaudita, avevano un gran da fare a tenerla lontana a colpi di spada.

Il condor, che non poteva reggere a tanto peso, calava dolcemente, quasi sfiorando le cime degli alberi, contro i quali il guascone di quando in quando urtava, ammaccandosi malamente le ginocchia.

Teneva le immense ali aperte, per servirsene come di paracadute e si dirigeva verso una spianata sulla quale pascolavano alcuni tori della puna. Invano don Barrejo, spaventato, urlava disperatamente e stringeva le zampe con tutta la sua forza: l’uccellaccio, forse non meno spaventato di lui, continuava la sua discesa, facendo degli sforzi giganteschi per reggersi.

Le disgrazie del teverniere di Panama non erano però ancora finite.

Il gigantesco uccellaccio, stremato probabilmente dagli sforzi fatti, precipitava rapidamente e proprio sopra il branco di tori brucanti la fresca e odorosa erba dell’alta sierra.

Gli animali, vedendo piombarsi addosso quel mostro, tentarono di darsi alla fuga nel momento in cui il guascone, vedendosi ormai a pochi metri da terra, si lasciava andare. Fu una caduta straordinaria, inaspettata. Il disgraziato invece di andarsene a coricare sia pure a gambe levate, sulle folte erbe, si era trovato, senza sapere come, sul dorso d’uno dei tori fuggenti!...

— Ecco la fine, — pensò. — Addio, bella castigliana!...

Deciso però a lottare fino all’estremo delle sue forze, si era aggrappato disperatamente alle corna del toro, mentre il condor riprendeva il suo volo verso il nido, in aiuto della sua compagna.

L’animale, uno splendido toro tutto nero, sentendosi addosso quel peso, si era slanciato a corsa furiosa, lasciandosi addietro subito i compagni, i quali non parevano affatto disposti a seguirlo in quella galoppata.

Il toro in pochi minuti attraversò la radura e si scagliò pazzamente in mezzo alla foresta, muggendo e scuotendo la robusta testa.

Probabilmente credeva di essere stato assalito da qualche coguaro o da qualche giaguaro e perciò si gettava furiosamente in mezzo ai cespugli, colla speranza che la supposta bestia lo lasciasse.

Don Barrejo, piú spaventato che mai, si era allungato tutto sul dorso del bestione perché qualche ramo basso non gli spaccasse la testa.

Foglie e fronde gli cadevano addosso in grande quantità e si sentiva sferzare crudelmente il viso dai ramoscelli dei cespugli, però non lasciava le corna e stringeva disperatamente le gambe, per non fare un capitombolo che avrebbe potuto avere delle conseguenze mortali, fra tanti tronchi d’albero.

Il toro, sempre piú inferocito e spaventato, precipitava la corsa. Col collo teso, gli occhi iniettati di sangue, i fianchi pulsanti, si scagliava sempre piú impetuosamente.

Vi erano certi momenti che il guascone si credeva trasportato da qualche spaventoso uragano.

Ad un tratto quella galoppata disordinata si arrestò di colpo. Don Barrejo, proiettato innanzi con impeto irresistibile, era andato a cadere, per sua fortuna, in mezzo ad un folto ed altissimo cespuglio di citriuoli, mentre l’indemoniato animale scompariva in uno squarcio del terreno, mandando un lamentevole muggito.