Gli ultimi filibustieri/Capitolo XVII - La cattura di don Barrejo

Capitolo XVII - La cattura di don Barrejo

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Capitolo XVII - La cattura di don Barrejo
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Capitolo XVII
La cattura di don Barrejo


Quantunque i flessibili rami della magnolia acuminata, – si chiamano cosí quegli altissimi cespugli, – avessero ceduto subito sotto il suo peso, passarono parecchi minuti prima che il taverniere di Panama potesse rimettersi un po’ in gambe. La volata prima, la corsa furiosa dopo, l’avevamo talmente stordito da domandarsi se per caso aveva sognato.

Da vero guascone possedeva però dei nervi d’una solidità a prova di bomba e non tardò a lasciarsi scivolare giú dal cespuglio, trascinando seco una moltitudine di frutta, somiglianti nella forma ai citriuoli, ma d’un rosso lucentissimo, buonissime per le febbri intermittenti.

— Che cosa è successo? — si era chiesto subito. — Sono ancora vivo o sono morto? Eppure poco fa dormivo tranquillamente sul nido dei condor... Tonnerre!... In venti o trenta minuti io ho arrischiata due volte la pelle... ora me ne ricordo... Ed il toro? Dove è andato a finire? L’uccellaccio l’ho ben veduto rialzarsi ma l’animalaccio, non l’ho veduto continuare la sua furiosa corsa dopo avermi scaraventato in mezzo a queste piante come se fossi una palla di cannone.

Colle gambe allargate, le mani chiuse intorno alla fronte, ancora intontito, don Barrejo giaceva al suolo, respirando a pieni polmoni per riprendere un po’ di lena.

Tonnerre!... — riprese un momento dopo, togliendosi l’archibugio che portava ad armacollo e del quale per sua ventura non aveva mai pensato fino allora a servirsi. — Io chiacchiero come un pappagallo, mentre Mendoza e De Gussac saranno ancora alle prese coi condor.

«Gambe, don Barrejo, ed andiamo a cercare gli amici in pericolo.»

Si era finalmente alzato e dopo pochi passi si era fermato dinanzi ad una profonda buca, in fondo alla quale gemeva il toro della puna, col corpo attraversato da un palo aguzzo, di quel certo legno forse preso dall’albero del ferro.

— Mi dispiace per te, amico — gli disse, — ma don Barrejo ha una taverna ed una bella moglie, mentre tu non hai che qualche nera compagna brutta al pari di te e non meno feroce.

«Ad ogni modo mi hai salvata la vita e ti sono riconoscente.

«Muori in pace.»

Si allontanò da quella trappola scavata probabilmente dagl’indiani per impadronirsi, senza correre alcun pericolo, di quei grossi animali che hanno le carni eccellenti, ma dovette subito fermarsi di nuovo.

Si trovava in mezzo ad una folta foresta e non udiva né colpi d’archibugio, né grida di condor, né altri rumori. Solo di quando in quando un muggito strozzato del toro agonizzante, rompeva quel gran silenzio.

Il guascone si grattò la testa, come per sollecitare il cervello a dargli qualche buon consiglio, poi disse:

— Questo si chiama un gran brutto affare. Dove mi ha condotto quella bestia dannata nella sua pazza corsa? E i miei due compagni? Saranno riusciti a tagliare la testa a quei dannati uccellacci o saranno stati scaraventati sopra la foresta? Oh!... Comincio a rimpiangere la tranquilla taverna d’El Moro!

Si guardò intorno, cercando di orizzontarsi e si convinse subito dell’impossibilità di prendere una giusta direzione, poiché sopra di lui le gigantesche foglie delle palme s’intrecciavano, formando una vôlta quasi impenetrabile alla luce solare.

A un tratto Don Barrejo si diede un gran pugno sul cranio.

— Zucca maledetta, — disse. — Dovevi venire prima in mio aiuto. È vero che anch’io qualche volta sono un bestione.

«Per uscire da questa boscaglia non vi è che una cosa sola da fare: seguire alla rovescia le orme del toro.

«Anche per questa volta ho scoperto l’America.»

Infatti, il toro nella sua corsa furiosa, doveva aver aperto come un solco attraverso alle masse di cespugli e di liane che aveva sfondati.

Don Barrejo si assicurò che l’archibugio fosse carico, potendo trovarsi dinanzi, da un momento all’altro, a qualche coguaro, o peggio ancora a qualche giaguaro, poi tornò indietro girando intorno alla trappola.

Il toro era spirato e giaceva in mezzo ad una vera pozzanghera di sangue.

Don Barrejo non si degnò nemmeno di guardarlo e si mise subito in cerca del solco.

Aveva fatto appena pochi passi, quando si trovò dinanzi ad un ammasso di liane che pareva fossero state violentemente strappate.

— Ecco la via del ritorno, — disse. — Orsú, cerchiamo di raggiungere al piú presto la radura dove pascolavano i tori.

«Il nido non deve trovarsi che a qualche centinaia di passi, poiché la mia volata non ha durato che un paio di minuti. Sono impaziente di ritrovare i miei bravi camerati, senza dei quali io non saprei piú far nulla.»

Passò attraverso lo squarcio delle liane e venti passi piú innanzi trovò un cespuglio, che pareva fosse stato sfondato da un ariete.

Anche per di là il toro era passato, quindi era sulla buona via.

Si avanzò cosí per una buona ora, seguendo le orme, stupito di essere stato condotto tanto lontano, poi si arrestò guardandosi intorno con inquietudine.

— Che ci siano degli altri tori? — si era domandato. — Sarebbe un magnifico incontro!... Don Barrejo, sta’ in guardia e ricordati che non hai piú con te la tua fida draghinassa.

Si era messo in ascolto, tenendo il dito sul grilletto dell’archibugio. Delle fronde si muovevano dinanzi a lui ad una distanza di soli pochi passi. Qualche animale doveva trovarsi in mezzo ai folti cespugli che formavano come una muraglia di verzura, tanto erano alti.

Trascorse qualche minuto d’angosciosa aspettativa pel povero guascone, il quale non poteva ancora sapere con chi doveva fare, poi un lungo corpo setoloso, nero a riflessi azzurrastri, con una splendida coda ricca di peli, s’aprí il passo fra i cespugli, fermandosi non meno sorpreso, dinanzi a don Barrejo.

Era un animale grosso quanto un cane di Terranuova, basso di zampe e che invece di avere una vera bocca, aveva una specie di tubo da cui usciva ad intervalli una brutta lingua vischiosa.

— Che cos’è questo? — si chiese il guascone un po’ rassicurato, poiché quello strano animale se possedeva delle robuste unghie mancava assolutamente di denti.

Se don Barrejo fosse stato un po’ piú istruito avrebbe potuto subito riconoscere nel nuovo venuto un orso formichiere, ma non essendosi occupato che di dare colpi draghinassa anche a coloro che non ne volevano, non capí niente.

L’orso, un’animale niente affatto pericoloso, che si difende però ferocemente cogli artigli contro i coguari che sono ghiotti della sua carne, si era seduto sulle zampe posteriori, mettendosi dinanzi, come uno scudo, la sua magnifica coda, la quale gli giungeva fino all’altezza della testa.

Si dondolava cosi comicamente, continuando a lanciare fuori, come uno stantuffo, la sua lingua impregnata d’una materia viscosa colla quale si prende le formiche che formano il suo unico cibo, che don Barrejo non poté trattenere una allegra risata.

— Micò!... Micò!... Compare Micò!... — esclamò. — Sei ben gentile per offrirmi questo spettacolo in piena...

Si era bruscamente interrotto. L’orso non badava piú a lui; teneva i suoi occhietti nerissimi, fissi su un albero sotto il quale giganteggiava una magnolia acuminata.

Il guascone, messo in sospetto, alzò gli occhi e spiccò quattro o cinque salti.

Tonnerre!... — aveva gridato. — Altro che compare Micò!

Coricato sopra un ramo che si spingeva quasi orizzontalmente a pochi metri dal suolo, stava un altro abitante della foresta e non cosí mansueto come il povero formichiere.

Don Barrejo questa volta l’aveva subito riconosciuto e perciò si era messo prontamente fuori di portata.

Si trattava d’un giaguaro, l’animale piú temuto nell’America centrale e meridionale, possedendo la forza, lo slancio e la ferocia della tigre indiana, pur essendo inferiore per mole.

Pareva che sonnecchiasse, però di quando in quando socchiudeva or uno ed or l’altro occhio, fissandolo volta a volta sull’uomo e sul formichiere.

— Signora tigre americana, — disse don Barrejo, tenendo imbracciato l’archibugio. — Se desidera assaggiare le polpette di compare Micò faccia pure, a patto che mi lasci andare per le mie faccende.

La risposta fu un sordo miagolío che poteva passare per un ruggito strozzato.

Il guascone fece precipitosamente altri quattro o cinque passi indietro e s’appoggio fortemente contro il tronco d’un pino, tenendo l’archibugio sempre puntato.

Il povero formichiere non aveva abbandonato la sua guardia e dietro la grande coda piumata agitava minacciosamente le zampe anteriori armate di lunghi artigli.

— Qui sta per succedere una tragedia, — disse il guascone. — Sarebbe meglio che lasciassi quei due abitanti della foreste alle prese, senza occuparmi dei fatti loro.

Stava per voltarsi e riprendere la corsa, quando il giaguaro con un gran salto cadde in mezzo alla piccola radura mostrando la sua superba pelliccia macchiata.

Le sue potenti unghie, che sono cosí dure da trapassare perfino i gusci delle testuggini, strappavano le erbe insieme a larghi lembi di corteccia, essendo caduto in mezzo a delle enormi radici.

— Gambe, don Barrejo! — gridò il guascone, prendendo lo slancio. Non desiderava affatto di assistere a quel dramma, poiché dopo il formichiere, il giaguaro poteva attaccare anche l’uomo.

Per qualche istante il fuggiasco udí dei grugniti e dei miagolii strozzati, poi il silenzio tornò ad imperare nella grande foresta.

La tigre americana aveva avuto la sua cena.

Per dieci o quindici minuti il guascone, che aveva due buone gambe, continuò a scappare, seguendo lo squarcio aperto del toro, quando si sentí cadere addosso qualche cosa, come una corda e stringere il corpo cosí fortemente da togliergli il respiro. Alcuni soldati spagnuoli erano usciti dai vicini cespugli e lo avevano attorniato, brandendo minacciosamente spadoni, picche ed archibugi.

Il lazo lanciato cosí destramente da uno di loro, fu subito allargato per impedire che il povero guascone morisse strozzato.

— Sangue d’un caimano!... — esclamò il guascone, cercando inutilmente la sua fida draghinassa. — Toccano tutte a me dunque le disgrazie. Chi siete voi e che cosa volete da me? Non sono un toro per prendermi al lazo.

I soldati, dieci o dodici in tutti, si erano messi a ridere, godendosi della sua rabbia impotente.

L’archibugio per precauzione era stato subito raccolto per impedirgli di commettere qualche pazzia.

— Appartenete a qualche tribú di muti? — gridò il guascone, sempre piú infuriato. — Oh! Se avessi la mia draghinassa vi farei gelare sulle labbra le vostre risa. Tonnerre!...

Il comandante del drappello, un vecchio sergente dai baffi bianchi e col naso arcuato come don Barrejo, udendo quell’esclamazione, aveva avuto un sussulto.

— Non vi è che un Lussac solo e quello si trova in Guascogna, — aveva mormorato.

Si avvicinò al prigioniero, il quale non cessava di bestemmiare e di minacciare, quantunque non avesse ormai indosso nemmeno un semplice coltello, e gli disse, battendogli famigliarmente una mano sulla spalla:

— Avete fatta la vostra parte di guascone: ora finitela. L’onore è salvo.

— Chi vi ha detto che sono un guascone? — gridò don Barrejo.

— Sarà stato il marchese di Montelimar, credo. Finitela di sagrare e seguiteci.

— Un momento, sergente. Avete detto il marchese di Montelimar, è vero?

— E poi?

— Dov’è quel signore?

— A pochi passi da noi.

Don Barrejo si morse le labbra a sangue e provò un brivido. Quel gentiluomo, che non avrebbe probabilmente potuto resistere a tre colpi della sua draghinassa, gli aveva sempre inspirato un vero senso di paura.

— La catastrofe è completa, — pensò. — Cerchiamo di cavarcela alla meglio.

Il vecchio sergente, che continuava a tenergli gli occhi addosso, lo prese per un braccio, dicendo ruvidamente:

— Andiamo: abbiamo chiacchierato abbastanza.

Nella muraglia di verzura vi era un largo squarcio, aperto probabilmente a colpi di spadone e che formava come una specie di galleria.

Il drappello vi si cacciò sotto e, dopo aver percorso una cinquantina di passi, si trovò in mezzo ad una piccola radura, circondata tutta da alberi enormi, i quali intercettavano quasi completamente la luce.

Due soldati s’affaccendavano intorno ad un pentolone sospeso al ramo d’una pianta e soffiavano di quando in quando sul fuoco.

Vi era però nel piccolo campo un terzo uomo, il quale in quel momento stava seduto sul tronco d’un albero, tutto occupato a studiare una carta geografica: era il marchese di Montelimar. Vedendo ricomparire la sua scorta, il marchese alzò gli occhi ed un perfido sorriso gli comparve sulle labbra.

— Buona preda, a quanto pare, — disse. — Io ho già veduto altre volte quest’uomo. Deve essere uno dei tre che da giorni faccio inseguire dalla retroguardia.

Don Barrejo fece un profondo inchino e rispose subito:

— Io credo che v’inganniate, poiché nella taverna d’El Moro che da sei anni tengo in Panama, i gentiluomini non si vedono, quantunque la mia cantina non sia peggiore delle altre.

— Tu sei un taverniere!... — esclamò il marchese.

— Per servirvi, Eccellenza.

— La taverna d’El Moro!... Toh! Toh! Io ho udito parlare ancora di quella celebre cantina, — disse il marchese ironicamente. — è appunto là dentro che uno dei miei segretari è scomparso, senza piú dare alcuna notizia di sé.

Don Barrejo ebbe uno scatto d’indignazione:

— Signor mio, — disse, — io sono sempre stato un onesto taverniere e non ho mai ammazzato le persone che venivano a bere.

— Vi prego di chiamarmi Eccellenza.

— E voi datemi allora del don, perché se nelle vostre vene scorre sangue azzurro, anche nelle mie la tinta non cambia.

— Rossa?

— Azzurra con quarti di nobiltà dei Riberac, un tempo signori di Lussac.

— E fate il taverniere?

— Cioè, lo facevo.

— Per imbrancarvi colla canaglia, che scorazza dalle coste dell’oceano Pacifico fino a quelle dell’Atlantico. Che bel nobile!

Tonnerre!... — urlò don Barrejo. — Sono un guascone e i guasconi non sono mai stati ricchi.

Il vecchio sergente, che assisteva all’interrogatorio, approvò con un leggiero gesto del capo.

— Non vi infuriate, — disse il marchese, con la sua solita calma ironica. — È vero che avete sangue francese nelle vene, ma ne ho anch’io, perché i Montelimar hanno un nome in quella grande nazione.

— E vi siete messo ai servigi della Spagna, nemica continua della Francia? Eccellenza, avevo della stima per voi ed ora non l’ho piú.

«Non si rinnega una patria.»

Il marchese era diventato livido e aveva fatto un gesto di rabbia. La sua tempesta però non ebbe che la durata di pochi secondi poiché riprese, quasi subito, la sua calma e, fissando il guascone con due occhi saturi d’odio disse:

— Che importa a voi che sia stato francese od olandese o inglese? Oggi sono uno spagnuolo e servo la mia nuova patria, mio caro don...

— Barrejo de Lussac, — rispose prontamente il guascone.

— Portate un sedile a questo signore, — disse il marchese, dopo aver guardato il sole che si mostrava attraverso uno squarcio della boscaglia. — Avremo ancora due buone ore di luce e chissà che in questo frattempo le mie retroguardie finiscano per prendere gli altri due amici del signore, poiché eravate proprio in tre signor don... de Lussac.

— Dove?

— Salivate la sierra e vi avevamo veduti.

— Si vede che gli spagnuoli che un tempo hanno avuto tanti buoni occhi da scoprire l’America, ora non ci vedono piú.

«Infatti il sole equatoriale non fa bene alla vista.»

— Fate dello spirito, mi pare, signor guascone.

— Chiamatemi compatriota, sarà piú spiccio.

— No, — rispose il marchese, con impeto quasi feroce. — I Montelimar non appartengono piú alla Francia da qualche secolo.

Un soldato aveva portato un tamburo, e fece cenno a don Barrejo di sedersi.

Il guascone che conservava un buon umore superbo, provò colle nocche delle dita la pelle dell’asino, per assicurarsi della sua solidità, poi si sedette tranquillamente, colle magre gambe aperte, guardando bene in viso il marchese.

— Eccellenza, — disse, — la mia sedia è piú comoda della vostra e, se può farvi piacere, sono pronto a cedervela.

— I miei avi rendevano giustizia ai loro vassalli, seduti su un tronco d’albero, — rispose il signor di Montelimar.

— I miei invece, seduti sulla punta d’uno scoglio emergente di fronte al mar di Biscaglia.

«I nostri antenati avevano dei gusti singolari. Io, per mio conto, avrei preferito una comoda poltrona coi bracciuoli imbottiti.»

— Avete finito?

— Che cosa?

— Di dire delle sciocchezze?

— Se V. E. ha parlato dei suoi avi, io ho parlato dei miei, — rispose don Barrejo. — Sono pure un gentiluomo ed una lingua la posseggo anch’io.

— La metteremo subito alla prova, — disse il marchese. — Mi direte, prima di tutto, dove avete lasciati i vostri due compagni.

— Io credo, signor marchese, che di quei due disgraziati non sia rimasta piú intatta nemmeno una costola.

«Io li ho veduti scomparire in mezzo ad una furiosa carica di tori della puna e non li ho piú riveduti.»

— Voi mi vendete delle carote, signor guascone.

— Non nascono nel mio paese, quindi non potrei vendervele nemmeno a peso d’oro.

— Voi siete stupefacente.

— Perché, signor marchese?

— Io sto cercando l’albero a cui domani mattina vi appiccherò e voi continuate a scherzare! È vero che siete un guascone e non mi stupisco della vostra audacia.

Don Barrejo si dimenò sul tamburo, facendo crepitare la pelle, poi disse con voce minacciosa:

— Badate, signor marchese, che avete dinanzi a voi un corpo di filibustieri.

— Lo so.

— E non dimenticate che quegli uomini invincibili hanno l’abitudine di vendicare i loro camerati.

— Vengano.

— Vi hanno già distrutto tutti gli uomini che difendevano le colline e non avete ancora paura di quei terribili scorridori del mare?

— Un Montelimar non ha mai saputo che cosa sia la paura.

— Vorrei però vedervi appeso a quel certo albero che ora state cercando, con una solida fune al collo, — disse don Barrejo.

— Siete insolente o spavaldo?

— Io veramente sono sempre stato un terribile spadaccino.

— Mi pare però che la vostra lingua sia lesta come la vostra mano.

— Non me n’ero accorto prima d’ora.

— Dovreste allora fare una cosa.

— Quale, signor marchese?

— Andarvene a dormire per prepararvi pel grande viaggio che avrà luogo allo spuntar del sole. Ho giurato che quanti di quei ladroni mi capiteranno fra le mani li avrei giustiziati senza misericordia e manterrò la parola.

Don Barrejo divenne un po’ pallido, tuttavia non si dette ancora per vinto.

— Un gentiluomo francese assassinare un altro gentiluomo pure francese! Siete un giaguaro voi?

— Vi ho detto che ormai sono spagnuolo e che colla mia antica patria non ho piú alcun vincolo.

«Andate a recitare le vostre preghiere, poiché vi ripeto che domani voi non sarete piú vivo.»

— Eccellenza, buon riposo, — disse il guascone, tergendosi con un moto nervoso alcune stille di sudor freddo che gli bagnavano la fronte.

— Legate quell’uomo ad un albero, accanto al fuoco, ed alzate la mia tenda, — disse il marchese. — Desidero non essere disturbato fino al momento in cui appiccheremo questo ribaldo.

Tonnerre!.... — urlò il guascone, alzandosi di colpo ed afferrando il tamburo. — A me del ribaldo?

Gli spagnuoli che gli stavano intorno furono lesti a piombargli addosso ed a ridurlo all’impotenza.

Il disgraziato, in un batter d’occhio, si trovò seduto alla base d’una palma, col corpo quasi interamente avvolto da corde. Dinanzi a lui era stato ravvivato il fuoco su cui bolliva il pentolone, sprigionando dei profumi indescrivibili. Doveva essere una vera olla podrida, composta di chissà quali vegetali o radici raccolte nella foresta, poiché anche gli spagnuoli, dopo un inseguimento che durava da parecchie settimane, dovevano essere assolutamente a corto di viveri.

Frattanto il sergente, aiutato da un paio di soldati, aveva alzata la tenda destinata al marchese, una tenda da campo qualunque.

Don Barrejo, un po’ scombussolato dalla cattiva piega che prendevano i suoi affari, si era abbandonato lungo il tronco della palma, fingendo di dormire.

Il volpone però non aveva alcuna intenzione, pel momento, di schiacciare un sonnellino, colla prospettiva poco allegra che aveva dinanzi, ossia di venire appiccato all’alba come un ladrone qualunque.

I suoi occhi seguivano, anche semi-socchiusi, tutte le mosse del vecchio sergente e fra uno sbadiglio e l’altro si domandava insistentemente ed anche angosciosamente se per caso aveva trovato un protettore dell’ultima ora.

Anche il soldato non lo perdeva di vista. Quando i suoi compagni non facevano attenzione a lui, faceva al guascone, di nascosto, dei segni che non erano certo malevoli.

— Che sia anche lui un guascone? — si chiedeva Don Barrejo, con crescente ansietà. — Veramente il nostro naso caratteristico lo possiede anche lui.

Il pentolone fu finalmente tolto dal fuoco ed un intruglio nerastro, a base di cipolle e di funghi, fu dispensato a tutti entro certe gamelle che da parecchi giorni non dovevano aver veduto l’acqua.

Don Barrejo, a cui l’appetito non faceva mai difetto, fece discretamente onore a quel brodaccio.

Invidiava però il coniglio selvatico, splendidamente arrosolato, che il marchese si divorava, stando seduto dinanzi alla sua tenda. S. E. non voleva guastarsi lo stomaco coll’intruglio dei soldati ed a quanto pareva serbava i migliori bocconi per sé.

Terminata la cena, gli spagnuoli non udendo nessun rumore ed essendo d’altronde certi di non venire disturbati, poiché i filibustieri si trovavano dinanzi a loro, ammassarono intorno ai fuochi, poiché altri ne erano stati accesi per tenere a distanza le belve feroci, delle bracciate di foglie fresche e profumate, e si coricarono.

Il marchese era già scomparso dentro la tenda e stava digerendo tranquillamente il suo coniglio.

Don Barrejo, a cui nulla sfuggiva, vide, con una certa sorpresa, il vecchio sergente montare il primo quarto di guardia.

Il soldato, dopo d’aver coperto i camerati con delle bracciate di foglie per difenderli dall’umidità e fors’anche con un altro scopo segreto, si era seduto intorno al falò che ardeva presso il guascone e si era messo a fumare la pipa, tenendo l’archibugio sulle ginocchia.

Pareva che aspettasse l’occasione di scambiare due parole col prigioniero, poiché di quando in quando i suoi occhi si fissavano attentamente sui suoi camerati, sdraiati sul fogliame, ed ogni volta che qualcuno faceva un moto, don Barrejo lo udiva sagrare sottovoce e lo vedeva fumare con maggior veemenza.

I grossi grilli della foresta trillavano fra le tenebre, le coyotes, specie di volpi e di lupi, urlavano lugubremente; ondate di splendide moscas de luz si incrociavano fra i rami della foresta con un effetto magnifico.

In lontananza un urlo rauco, che non si poteva comprendere da quale animale lanciato, si alzava di quando in quando, coprendo per qualche istante tutti gli altri rumori della boscaglia.

Nel piccolo campo già si russava. I pochi uomini che formavano la scorta del marchese Montelimar, stanchi dalle lunghe marce, dormivano come ghiri, col ventre in aria e le gambe allungate verso i fuochi.

Il vecchio sergente si era alzato, tenendo sempre in mano l’archibugio.

Girò intorno alla tenda del marchese, ascoltando con profonda attenzione, guardò i suoi camerati ormai vinti da un sonno irresistibile e si accostò a don Barrejo il quale aveva tutt’altra voglia che di dormire e di recitare le preghiere dei moribondi, e stesosi sull’erba, gli disse sottovoce:

— Di Lussac, avete detto?

Il guascone, che fingeva di sonnecchiare, spalancò gli occhi.

— Sí, di Lussac, — rispose.

— Non vi è al mondo, io credo, che un Lussac solo e quello si trova in Guascogna, — disse il sergente, con una profonda commozione. — È di là che escono le migliori lame della Francia che fanno stupire anche la Spagna e l’Allemagna.

— Ebbene, brav’uomo, che cosa volete dire? — chiese don Barrejo, a cui cominciava ad allargarsi il cuore.

— Che in Lussac sono nato anch’io, — rispose il sergente. — I vostri vi posseggono un castelluccio, è vero?

— In cattivo stato, purtroppo, — sospirò il guascone. — Non vi è mai stato un soldo in casa mia da destinare alle riparazioni.

«La Guascogna non è mai stata ricca.»

— Lo so meglio di voi, signore.

— Che cosa volete allora?

— E me lo chiedete? — domandò il vecchio sergente con stupore. — Quando due guasconi s’incontrano e si vedono in pericolo, levano fraternamente le loro draghinasse e si aiutano.

— Toh!.... Un altro guascone!.... — esclamò don Barrejo, respirando a pieni polmoni. — È il secondo che incontro in America.

— Avete mai avuto da lagnarvi del primo?

— Mai!....

— Il castellano di Lussac non avrà da lagnarsi di uno dei suoi vecchi vassalli.

«Succeda quello che si vuole, voi domani non sarete appiccato.»

— E veramente ci tenevo a non farmi strangolare all’estremità d’un ramo.

Il sergente, il quale pareva in preda ad una vivissima emozione, si alzò, fece un’altra volta il giro della tenda occupata dal marchese, guardò i suoi camerati e sciolse silenziosamente un fascio d’archibugi, deponendoli dinanzi a don Barrejo.

— Io non so che cosa accadrà, — gli disse, mentre con una navaja gli tagliava le corde che lo avvincevano all’albero. — Tuttavia non vi preoccupate per me. I guasconi hanno sempre saputo trarsi d’impiccio anche in mezzo alle piú terribili circostanze.

— Che cosa devo fare?

— Cacciatevi nel bosco, mio signore e scaricate tutti questi archibugi, che sono carichi, in aria.

«Io darò l’allarme e voi prenderete subito il largo. Vi avverto che vi sono quasi trecento spagnuoli nei dintorni e che sono guidati da un mastino impareggiabile. Ora regolatevi e ricordatevi che anche tra guasconi, simili favori, non si fanno due volte.»

Don Barrejo si era alzato.

— Qua la mano, amico, — disse. — Io non scorderò mai che a te devo la vita.

«Se un giorno tu torni a Lussac, salutami la torre che dovrebbe ergersi sul castelluccio dei miei avi, se non è già diroccato tutto.»

Prese i sei fucili che il suo compatriotta aveva deposto ai suoi piedi, fece col capo un segno d’addio e se ne andò tranquillamente, almeno in apparenza.

Il vecchio sergente si era intanto gettato a terra, fingendo di essersi addormentato.

Trascorse qualche minuto, poi nella boscaglia rintronarono, uno dopo l’altro, cinque colpi d’archibugio.

Don Barrejo simulava l’attacco del piccolo campo, sparando però in aria per non ammazzare il suo compatriotta.

Il primo sparo era echeggiato, quando si udí il vecchio sergente urlare a squarciagola:

— All’armi!... I filibustieri!... Fuggite!

Don Barrejo udí delle grida, delle bestemmie, poi un tramestío e dei comandi precipitati, quindi uno sparo che gli parve un colpo di pistola.

— Gambe ora, amico, — disse.

Si era slanciato a corsa disperata, a casaccio, cercando qua e là dei passaggi che non sempre trovava.

Ad un tratto un’ombra bianca, seguita da un uomo, gli si parò dinanzi.

Don Barrejo aveva mandato un vero ruggito ed aveva spianato il sesto archibugio che era carico.

— Mastino maledetto!... — gridò. — Muori!...

Un lampo illuminò le tenebre seguíto da un guaito lamentevole. Il famoso cane che guidava le retroguardie era caduto per non rialzarsi piú. Il guascone approfittò dello spavento che aveva invaso l’uomo che lo conduceva per spiccare quattro o cinque salti e scomparire nella foresta.