Gli orrori della Siberia/Capitolo XX – L'assalto dei predoni delle steppe

Capitolo XX – L’assalto dei predoni delle steppe

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Capitolo XX – L’assalto dei predoni delle steppe
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Capitolo XX – L’assalto dei predoni delle steppe


In lontananza, al di là d’una foresta o meglio d’una grande macchia di pini che fiancheggiava la Wladimirka, si udivano le urla acute della banda affamata, confuse coi ruggiti della bufera.

Non era possibile ingannarsi. Quei feroci carnivori, che sono dotati d’un udito acutissimo, avevano, per modo di dire, sentito il passaggio della troika e tornavano verso il sud per riprendere l’inseguimento, così brutalmente interrotto dall’intervento dei cosacchi della tappa. I due poveri cavalli siberiani non erano forse bastati a calmare la fame feroce che rodeva, probabilmente da più giorni, le viscere di quei predoni a quattro gambe della nevosa steppa.

Forse, dopo una lunga corsa, non erano riusciti anche a mettere a pezzi i due trottatori siberiani, animali che sono dotati d’una resistenza incredibile, malgrado la loro brutta apparenza, e tornavano addosso alla troika per rifarsi coi tre cavalloni della giovane donna.

Le urla s’avvicinavano sempre, però non così presto come avevano temuto i fuggiaschi. Che i predoni guadagnassero via, questo era certo; nondimeno talvolta pareva che quegli ululati si allontanassero.

– Si direbbe che stiano inseguendo ancora i due cavalli, – disse Dimitri, che aveva ascoltato attentamente la direzione degli ululati. – Sembra che seguano una via tortuosa; se corressero in linea retta, a quest’ora sarebbero qui.

– Che i due trottatori siberiani resistano ancora? – chiese la giovane.

– Lo suppongo, padrona. Udite?... Ora gli ululati si allontanano.

– Ed ora tornano verso di noi, Dimitri.

– È vero, e forse comincio a comprendere.

– Che cosa?...

– I cavalli, al pari dei lupi, ci hanno fiutati.

– Vuol dire?...

– Che cercano dirigersi verso di noi, sperando di trovare qui un aiuto. Sanno bene che solamente nell’uomo possono trovare un protettore.

– Pure non si vedono.

– Saranno costretti a descrivere dei lunghi giri per sottrarsi all’attacco. Non credete che i lupi eseguiscano le loro cacce all’impazzata; no, sono astuti, e quando vogliono impadronirsi, o d’una renna o di qualche altro grosso animale, si dispongono in più file per accerchiare la preda e tagliarle la strada.

– Se ci gettassimo fuori della Wladimirka?...

– Non possiamo farlo, pel momento. Sulla nostra sinistra vi sono delle paludi e dei laghetti, e forse il ghiaccio non può ancora sopportare il peso dei nostri tre cavalli. Ah!... Lo diceva io?... Guardate, Maria Federowna!...

Sul margine della pineta, una grande massa oscura era improvvisamente comparsa. Era uno dei due trottatori siberiani, uno dei due cavalli dei cosacchi.

Il povero animale correva all’impazzata, fra i turbini di neve, colla criniera al vento, il pelame irto, gli occhi accesi e la testa quasi cacciata nelle zampe anteriori. Un rauco nitrito che talvolta pareva un sibilo metallico, gli usciva dalle labbra schiumeggianti.

Dietro di lui, la banda famelica, composta di duecento e più capi, arrivava a corsa sfrenata, colle code in aria, il pelame arruffato, ululando ferocemente.

Il disgraziato trottatore, che forse aveva assistito all’atroce fine del compagno, vedendo la troika passargli dinanzi come una meteora, sfolgorando sulla neve la luce del fanale, s’arrestò un momento, come se fosse stato abbacinato, poi con un ultimo slancio si mise ad inseguirla mandando nitriti lamentevoli.

– Quello stupido ci attira addosso tutta la banda!... – esclamò Dimitri.

– Povero animale, chiede soccorso a noi, – disse la giovane. – Mi rincresce, ma la sua morte è decretata.

Il polacco si era alzato col fucile in mano.

– Che cosa fai? – gli chiese Maria Federowna. – Non aprire il fuoco contro i lupi o diventeranno più feroci e precipiteranno l’assalto.

– Non è contro di loro che sparo.

– Sul cavallo?...

– È necessario, padrona, – rispose Dimitri. – Ritarderemo l’inseguimento.

Il trottatore non si trovava che a centocinquanta passi e faceva sforzi disperati per raggiungere la troika, sperando di trovare protezione nelle persone che la montavano. Dietro di lui, in semi-cerchio, venivano i famelici carnivori, sempre ululando. Dimitri mirò per alcuni istanti, poi uno sparo rintronò. Il povero trottatore, colpito dalla palla del polacco, s’alzò di colpo sulle zampe anteriori, descrivendo un mezzo giro su sé stesso, mandò un nitrito che aveva qualche cosa di straziante, poi piombò in mezzo alla neve.

Era appena caduto che già il suo corpo, ancora caldo e palpitante, veniva invaso dalle prime schiere degli affamati. Il suo corpo in meno che si dice, sparve sotto la massa degli assalitori e fu fatto a brani. Le altre schiere però, più lontane, vedendo deluse le loro speranze di partecipare a quel banchetto, varcarono l’ostacolo senza arrestarsi e si scagliarono dietro alla troika che fuggiva all’impazzata.

– Canaglie!... – esclamò Dimitri. – Non basta un cavallo a quei divoratori. Vorrebbero anche i nostri, ma per voi abbiamo del piombo.

– Non far fuoco, – ripeté la giovane donna. – Lasciamo che corrano.

– Purché i cavalli non si stanchino.

– Sono vigorosi, Dimitri.

– È vero, però è la seconda corsa che fanno in poche ore.

– Apri un’altra cassa di munizioni, e quando vedremo che ci stringono troppo, ricominceremo le fucilate. Fedor!...

– Signora!... – rispose l’jemskik.

– Danno segno di stanchezza i cavalli?

– Non ancora.

– Credi che resisteranno fino all’alba?...

L’jemskik non rispose; esitava.

– Parla, – comandò la giovane. – Tu sai che io non ho paura.

– Mancano ancora due ore allo spuntar del sole e la bufera di neve non accenna a diminuire.

– Allora tu temi che non possano resistere.

– È vero, signora.

– È lontano Catulik?...

– Quindici verste.

– Maria Federowna, pensate che a Catulik forse ci aspettano, – disse Dimitri.

– E se questi lupi non ci lasciassero?... – chiese la giovane, con una certa ansietà. – Solamente presso le prime case del villaggio desisterebbero dal continuare questa tremenda caccia. Ah!... Se vi fosse qualche rifugio!...

– Dove trovarlo?... La steppa è deserta.

– Ma le montagne sono vicine, signora, – disse ad un tratto l’jemskik.

– Vuoi dire?...

– Che la catena del Sajan è ricca di caverne.

– Ne conosci qualcuna.

– Parecchie, signora.

– Conducici in una di quelle.

– Bisognerà però abbandonare la Wladimirka.

– È quello che desidero.

– Resisterà il ghiaccio delle paludi?...

– Tutto dobbiamo tentare, Fedor.

– Lo volete, padrona?

– Lo voglio!... – disse la giovane, con voce recisa.

– Ebbene, avanti mie colombelle!... – urlò l’jemskik, facendo scoppiettare la frusta. – Via a destra!... Avanti!... Hop!... Hop!... I lupi hanno fame!...

I cavalli, sotto le vigorose sferzate di Fedor e le strappate delle briglie, avevano piegato bruscamente a destra atterrando di colpo uno dei pali che indicano il margine della Wladimirka e s’erano precipitati attraverso alla steppa con una volata così improvvisa che per poco Dimitri e la sua padrona non furono sbalzati nella neve.

I lupi, che non s’aspettavano quel brusco cambiamento di linea, trasportati dal proprio slancio, proseguirono la corsa ruzzolando gli uni addosso agli altri, ma poi girarono in massa a destra e si gettarono nuovamente dietro la troika, formando due lunghe file.

I cavalli avevano però guadagnato un centinaio di passi e si sforzavano di mantenerli. Disgraziatamente il terreno non era più eguale, essendo interrotto da ammassi di erbe che la neve nascondeva e che cedevano di colpo sotto il peso della troika.

– Perderemo via, – disse Dimitri a Maria Federowna. – I cavalli non possono galoppare colla velocità di prima.

– Quando diverranno troppo audaci, riprenderemo il fuoco, – rispose la giovane. – Fedor, è lontano il rifugio?

– Fra mezz’ora ne troveremo qualcuno, signora, – rispose l’jemskik. – Credo però che sarete costretta a tenere indietro i lupi a fucilate.

– Siamo pronti; pensa ai cavalli tu, e non preoccuparti di noi. Sono cartucce a mitraglia, è vero, Dimitri?...

– Sì, padrona.

– Teniamoci pronti adunque.

La troika continuava a fuggire. I cavalli erano già giunti sopra i terreni paludosi, interrotti da stagni e da laghetti dai margini ineguali, i quali causavano di frequente tali scosse da temere che il veicolo, da un istante all’altro, andasse in pezzi o si rovesciasse.

I veloci corsieri non s’arrestavano però, anzi pareva che raddoppiassero la velocità.

Bianchi per la neve che turbinava attorno a loro, coi fianchi ansanti, il pelame arruffato pel terrore e l’ansietà, si slanciavano innanzi all’impazzata, mandando di quando in quando rauchi nitriti, strappati loro dalla frusta che rigava le loro poderose groppe.

Il vento ruggiva all’intorno sollevando nembi di neve che salivano in alto in forma di trombe o che correvano per la steppa come immensi drappi bianchi, ma che importava?... I lupi urlavano sempre alle loro spalle e quegli ululati bastavano per aizzarli più della frusta e della voce dell’jemskik.

Quale terribile e fantastico spettacolo avrebbe offerto ad uno spettatore, quella troika trabalzante in mezzo a quei turbini di neve, accompagnata da quelle schiere feroci, che facevano rintronare le lontane vallate del Sajan colle loro lugubri urla!...

Quella corsa disperata, tremenda, durò un quarto d’ora, poi bruscamente cessò. Uno dei cavalli di volata, nel balzare sopra il margine d’un laghetto gelato, era caduto, trascinando seco quello di mezzo che sosteneva la duga.

Un urlo di terrore era sfuggito dalle labbra della giovane donna e dei suoi due compagni. Trasportati dallo slancio, erano stati proiettati innanzi al disopra della troika, capitombolando in mezzo alla neve.

– Dimitri!... – aveva gridato la giovane donna. Il polacco, con quattro calci, s’era sbarazzato della neve che lo aveva quasi coperto ed era balzato prontamente in piedi, raccogliendo il fucile che gli era sfuggito di mano. I due cavalli s’erano rialzati e, trascinati dal terzo, stavano per riprendere la disordinata fuga, abbandonando i loro padroni in balia dei lupi.

– Fedor!... Ai cavalli! – urlò. L’jemskik aveva intuito il pericolo. Essendo caduto al pari di Dimitri, in mezzo ad un cumulo di morbida neve, non aveva riportata alcuna contusione. Con rapidità fulminea balzò innanzi e si gettò alla testa dei cavalli afferrando quello di mezzo per le nari e stringendolo così poderosamente da farlo cadere sulle ginocchia.

In quel momento i lupi arrivavano, pronti a scagliarsi sulle prede.

Precedevano la fitta schiera tre giganti della specie, alti quasi quanto i cani di Terranova, ma magri come se fossero a digiuno da tre mesi.

I due primi si gettarono risolutamente addosso al polacco, mentre il terzo si scagliava contro uno dei due cavalli di volata, tentando di azzannarlo alla gola.

Dimitri non s’era smarrito. Con un colpo di fucile mitragliò il più grosso mandandolo a gambe levate, poi afferrata l’arma per la canna percosse il secondo sul cranio, rovesciandolo fra la neve.

Intanto l’jemskik era accorso in difesa del cavallo. La sua formidabile frusta piombò sibilando sul carnivoro che cercava di giungere alla gola del povero animale, strappandogli un ululato terribile. Pazzo di dolore, tentò allora di scagliarsi contro l’uomo, ma un secondo sparo rimbombò e cadde col cranio fracassato.

La giovane donna s’era rialzata ed aveva fatto fuoco sul terzo assalitore.

– Grazie, signora, – disse l’jemskik.

– Sali, Fedor!... – gridò la giovane.

Poi si slanciò nella troika che era stata già raddrizzata da Dimitri.

– Presto, la frusta!... – urlò il polacco.

I lupi non erano che a pochi passi. Mentre i primi si avventavano sui cadaveri dei loro compagni, contendendoseli ferocemente, gli altri si scagliarono contro la troika.

Un momento di ritardo e tutto era perduto. In quel supremo istante un’idea era però balenata nel cervello dell’jemskik.

Strappò il secondo fanale e lo scagliò in mezzo alla muta urlante.

Vedendo quello sprazzo di luce attraversare l’aria e rimbalzare fra la neve, i carnivori, sorpresi e spaventati, avevano arrestato lo slancio, rimanendo perplessi.

Quella breve esitazione bastò perché i cavalli guadagnassero una cinquantina di metri. Maria e Dimitri avevano impugnati i fucili.

– Bisogna incominciare il fuoco, – disse il polacco. – Ormai le sole palle arresteranno il loro assalto.

– È aperta la cassa delle cartucce? – chiese la giovane.

– Sì, padrona.

– Mitragliamo quegli affamati, adunque!...

La torma urlante aveva ripreso lo slancio e tornava alla carica, decisa di farla finita con quelle prede che avevano eccitato, all’ultimo grado, il loro appetito.

Due detonazioni rimbombarono ben presto, e sette od otto carnivori, uccisi o storpiati dai pallottoni delle cartucce, caddero.

Mentre alcuni si arrestavano per dilaniare i morti ed i feriti, gli altri continuavano la corsa, con un ultimo slancio, riguadagnando la distanza.

Il fuoco della giovane donna e del polacco continuava incessante, implacabile. I colpi si succedevano ai colpi e altri lupi cadevano ululando spaventosamente.

Anche l’jemskik non rimaneva inattivo. Quando qualche lupo s’avvicinava troppo ai cavalli, la sua lunga frusta cadeva senza misericordia sull’imprudente, strappandogli ad un tempo lembi di carne e di pelo.

I cavalli, pazzi di terrore, correvano sempre, ansanti, trafelati, precipitando la fuga; però si capiva che non dovevano durare ancora molto.

Già due volte il cavallo della duga aveva inciampato ed era stato sorretto a tempo da una vigorosa strappata dell’jemskik.

Se fosse caduto, più nessuno avrebbe potuto salvare Maria Federowna ed i suoi due compagni dai denti di quei voraci animali.

La valorosa giovane, quantunque il pericolo aumentasse di momento in momento, conservava una calma ammirabile ed un sangue freddo da far stupire il polacco. Addossata allo schienale dell’jemskik per non venire trabalzata fuori dalle incessanti scosse della troika, bruciava con calma le cartucce, facendo fuoco contro i lupi più vicini.

Talvolta, quando se li vedeva troppo addosso, impugnava la rivoltella e scaricava, uno dietro l’altro, i sei colpi senza che una palla andasse perduta.

Solamente dalla voce tradiva l’ansietà dell’animo. Ogni minuto essa chiedeva insistentemente, con un legger tremito, se il rifugio era in vista.

– Non dobbiamo essere lontani, – rispondeva invariabilmente l’jemskik, continuando a sferzare ora i cavalli ed ora i lupi che si trovavano a portata della sua frusta.

La troika, trascinata in quella corsa precipitosa, era giunta in un vallone riparato da ambe le parti da colline coperte di neve e di pini. Era una specie di gola, assai selvaggia, che s’inoltrava serpeggiando, salendo verso la grande catena dei Sajan, le cui vette candide si cominciavano già a distinguere.

L’jemskik guardava ansiosamente a destra ed a manca, specialmente alla base delle rupi che s’alzavano sui due fianchi del vallone. Cercava un rifugio, una qualche caverna, sapendo che in quei paraggi ve ne dovevano essere.

I suoi occhi però, fino allora, non avevano scorto alcuna apertura.

Intanto i lupi diventavano più audaci. Già più d’uno era perfino riuscito a balzare nella troika ed era stato freddato con un colpo di rivoltella appena in tempo, ed altri avevano cercato di assalire i due cavalli di volata.

Il momento dell’assalto generale s’avvicinava. I carnivori non temevano ormai più il fuoco dei fucili.

Un gran numero era caduto sotto gli spari incessanti della valorosa giovane e del polacco, però ve n’erano ancora tanti da non poter avere la menoma speranza di respingerli.

Una morte orrenda minacciava i disgraziati. Ancora pochi minuti, forse pochi istanti e si sarebbero sentiti lacerare vivi da quei formidabili denti.

La giovane donna cominciava a perdere la sua calma. Il suo bel viso era diventato pallido, mentre un freddo sudore le bagnava la fronte.

– Dimitri!... – esclamò ad un tratto. – Ho paura!...

– Coraggio, padrona, – rispose il polacco. – Non cessate il fuoco o noi siamo perduti!... Forse il rifugio non è lontano.

– Ci piombano addosso da tutte le parti!...

– Quando ci vedremo stretti, adopreremo il calcio dei fucili, Fedor!...

– Dimitri!...

– Resistono sempre i cavalli?...

– Sì, ancora...

– Ed il rifugio?...

Un grido di gioia fu la risposta. I tre cavalli, sotto una violenta strappata, avevano piegato a sinistra, slanciandosi verso una parete rocciosa, incrostata di ghiaccio, che scendeva a picco.

– Fedor!... – gridò la giovane donna che s’era tenuta in piedi per un vero miracolo.

– Una caverna, signora!... – urlò l’jemskik. Un istante dopo la troika passava sotto una specie di vôlta e si arrestava quasi di colpo, gettando l’uno addosso l’altro, il polacco e la giovane.

– Attenti ai lupi!... Non lasciateli entrare!... – aveva gridato l’jemskik.

Poi era balzato a terra, impugnando rapidamente la rivoltella che teneva alla cintola.

Otto spari rimbombarono uno dietro l’altro.

Maria Federowna e Dimitri si erano pure slanciati fuori dalla troika, tenendo in mano i fucili. I lupi erano già giunti dinanzi alla caverna, entro la quale era, per modo di dire, scomparsa la troika, e si preparavano a forzarne l’ingresso.

Accolti da quelle scariche, e diventati diffidenti, si erano arrestati, poi avevano cominciato ad indietreggiare, ululando spaventosamente.

– Fuoco, signora! – gridò l’jemskik.

Dimitri e la giovane non si fecero ripetere il comando, e con due colpi a mitraglia costrinsero i carnivori a portarsi più al largo.

– Spezza una cassa e accendi un po’ di fuoco per tenerli lontani, — gridò il polacco all’jemskik.

– Non occorre spezzare le nostre casse, – rispose questi.

Si era slanciato verso un angolo e poco dopo tornava con un ammasso di rami di pino. Li ammonticchiò dinanzi all’apertura, poi vi diede fuoco. Il legno, imbevuto di resina, scoppiettò, poi una vampa guizzò e si levò altissima, proiettando sulla muta ululante una luce così intensa, da costringerla a ritirarsi cento metri più oltre.