Gli orrori della Siberia/Capitolo XXI – Fra i lupi e gli orsi

Capitolo XXI – Fra i lupi e gli orsi

../Capitolo XX – L’assalto dei predoni delle steppe ../Capitolo XXII – L’inseguimento dei cosacchi IncludiIntestazione 7 gennaio 2017 75% Da definire

Capitolo XXI – Fra i lupi e gli orsi
Capitolo XX – L’assalto dei predoni delle steppe Capitolo XXII – L’inseguimento dei cosacchi

Capitolo XXI – Fra i lupi e gli orsi


Quel rifugio, scoperto in così buon momento, quando già i famelici animali si credevano certi di piantare i loro aguzzi denti sulle sospirate prede, era una caverna naturale, aperta nei fianchi della parete granitica del vallone.

Sembrava vastissima, poiché la luce del falò non giungeva ad illuminare l’estremità opposta, ed anche altissima, non potendosi scorgere la vôlta, ed anche numerosi vani o gallerie che forse si diramavano nell’interno della collina. L’apertura poi, che formava un arco quasi perfetto, era così ampia da permettere l’accesso a quattro cavalli di fronte, sicché l’jemskik non s’era trovato imbarazzato a condurre là entro la troika, senza rallentare la corsa furiosa degli animali.

Pareva che quell’antro avesse già servito di rifugio ad altre persone, forse a degli indigeni, a dei buriati della regione transbaikala, e fors’anche a dei forzati fuggiti dalle miniere, trovandosi là entro avanzi di fuochi, degli ossami ed una considerevole provvista di rami di pino già secchi.

Quell’asilo, scoperto a caso ed in così buon momento, non era però del tutto sicuro, in causa della vasta apertura la quale poteva permettere ai lupi una invasione, dopo terminata la provvista di legna. Essendovi però sparsi al suolo numerosi macigni, caduti probabilmente dalla vôlta, con un po’ di fatica si poteva rotolarli fino all’apertura e rizzare una barricata facilmente difendibile, forse sufficiente per tenere indietro quegli accaniti predoni della steppa.

– Quei dannati finiranno col perdere la pazienza e si decideranno una buona volta a rinselvarsi, – aveva detto Dimitri alla giovane donna. – Forse nemmeno l’alba li disperderà, essendo ormai diventati troppo feroci per tornarsene ai loro covi a pancia vuota; ma qui abbiamo legna sufficiente fino a questa sera.

– E poi? – chiese Maria Federowna.

– Barricheremo l’entrata o cercheremo qualche rifugio migliore e più facile a difendersi. Vedo delle cavità e forse sono delle gallerie.

– Non possiamo però fermarci a lungo qui, Dimitri.

– E perché, mia signora?...

– Hai dimenticato i cosacchi? Quando i fumi dell’ebbrezza saranno passati, quei soldati si metteranno in caccia. Saranno furiosi e perciò decisi a tutto.

– È vero, padrona, – disse il polacco. – Noi abbiamo commesso una imprudenza imperdonabile.

– E quale?

– Dovevamo abbandonare ai lupi tutti i loro cavalli.

– Non ne sono rimasti che tre.

– E quei tre forse a quest’ora galoppano sulle nostre tracce.

– Credi che le scopriranno, Dimitri?

– Ne sono certo.

– Il vento e la neve devono averle distrutte.

– Non dappertutto, signora Maria.

– E tu credi che possano raggiungerci? – chiese la giovane con ansietà.

– Conosco quei selvaggi figli delle steppe del Don, e so quanto sono cocciuti e vendicativi.

– Allora bisogna abbandonare questo rifugio al più presto.

– Sì, pure io non vi esporrò una seconda volta ai denti dei lupi. Preferisco i cosacchi a quei feroci animali. D’altronde, possiamo fermarci qui parecchie ore con piena sicurezza e farete bene a prendere un po’ di riposo, padrona. Dovete essere affranta.

– Lo confesso, Dimitri.

– Coricatevi, senza timore d’una sorpresa da parte dei soldati o d’un assalto dei lupi. Io e Fedor veglieremo per turno.

Il polacco prese nella troika una grande pelle d’orso nero ed una coperta di lana, e stese la prima in un angolo della caverna, al riparo dal vento.

Maria vi si coricò, dopo essersi avvolta nella coperta e di aver deposto, a portata delle mani, la rivoltella ed il fucile.

– Riposate tranquilla, padrona, – le disse il polacco. – Il vostro fedele servo non chiuderà gli occhi.

– Grazie, mio buon Dimitri, – rispose la giovane.

Quando la vide assopirsi, il brav’uomo s’accostò all’jemskik, che s’era seduto accanto al fuoco, col fucile fra le gambe, sorvegliando attentamente le mosse dei lupi, e preso un grosso tizzone che ardeva come una torcia, si diresse verso l’estremità del rifugio, mormorando:

– Vediamo se vi è qualche nascondiglio più sicuro; i cosacchi possono giungere più presto di quello che si crede.

Avendo scorta una galleria che pareva più vasta delle altre, vi si cacciò animosamente, tenendo però la sinistra sul calcio della rivoltella. Quel passaggio s’addentrava tortuosamente nei fianchi della collina, mantenendosi assai alto ed anche tanto largo da permettere l’accesso alla troika.

Quantunque il vento s’ingolfasse, ululando sinistramente, vi si godeva una temperatura mite, un tiepore da cantina, molto preferibile a quello della grande caverna.

Le pareti composte d’una specie di granito nero, con venature brillanti che scintillavano sotto la fiamma del tizzone, scendevano lisce ed eguali, mentre la vôlta formava un’arcata quasi perfetta, senza crepacci, come se fosse stata lavorata dalla mano degli uomini.

Dimitri s’era già inoltrato circa cento metri, quando un tanfo di carne corrotta giunse bruscamente fino a lui.

– Che cos’è questo? – si chiese, arrestandosi. – Che questa galleria abbia servito di covo a qualche animale? Non ci mancherebbe altro che ci trovassimo presi tra i lupi e gli orsi o con qualche coppia d’ibis.

Impugnò la rivoltella e tenendo ben alto il ramo per rischiararsi meglio la via, procedette con prudenza.

Percorsi altri dieci passi, si trovò dinanzi ad una seconda caverna, un po’ più piccola dell’altra, di forma circolare e che s’alzava in forma d’imbuto, ricevendo la luce da un foro irregolare aperto sulla cima.

Da quel buco della neve era caduta, ammucchiandosi in mezzo all’antro e quella macchia bianca, candida, spiccava stranamente sul terreno nerastro.

Il polacco s’era fermato, titubante. Un odore acre, nauseabondo, regnava in quell’antro ed era così acuto da non potervi resistere.

Osservando meglio, Dimitri scorse al suolo un ammasso di ossami, di pezzi di pelle, di code di lupi, di volpi, di zibellini.

– Questo è il covo di qualche animale – mormorò girando all’intorno uno sguardo inquieto.

Stava per indietreggiare, temendo di trovarsi improvvisamente dinanzi all’inquilino di quella caverna, quando i suoi orecchi furono colpiti da un tonfo sonoro, poi da alcuni scricchiolii che venivano da una cavità tenebrosa che si trovava all’estremità dell’antro.

Aguzzò gli sguardi e vide delle masse oscure, non ben distinte, uscire da quell’ultimo nascondiglio e farsi lentamente innanzi.

Erano quattro o cinque, forse un’intera famiglia d’animali e probabilmente pericolosi.

Il polacco era coraggioso, però vedendo quei corpi avanzarsi silenziosamente ed accorgendosi che cercavano di avvicinarlo di soppiatto, si sentì bagnare la fronte da alcune stille di sudore.

Comprendendo che la sua vita correva un grave pericolo, guadagnò rapidamente la galleria e si nascose dietro l’angolo della roccia, gettando via il ramo resinoso che poteva tradirlo ed impugnando invece la rivoltella.

Quelle cinque masse erano allora giunte sotto la fessura che illuminava la caverna.

Non ci volle molto al polacco a sapere con quali avversarii aveva da fare.

Era una intera famiglia d’orsi, della specie detta dei torquati, una razza speciale che non s’incontra che nella Siberia meridionale e fra le montagne della grande catena dell’Imalaja1.

I torquati, che i montanari dell’India chiamano sonar, sono di taglia più svelta dei neri ed anche dei bruni, lunghi un metro e venti, generalmente, ed alti ottanta e novanta centimetri e pesanti due quintali. Hanno il muso assai più aguzzo degli altri, gli orecchi rotondi e molto grandi, unghie corte e robustissime, pelame nero, attraversato sul petto da una fascia bianca.

Sono d’un umore cattivo e perciò pericolosi. Usualmente si nutrono di frutta, però quando la fame li assale, specialmente dopo il lungo sonno invernale, non esitano a prendersela cogli animali ed anche con gli uomini e sono perciò temuti, specialmente dai montanari dell’Imalaja, ai quali recano gravi danni, assalendo cavalli e giovenche in gran numero.

Quei cinque orsi probabilmente stavano dormendo, essendo abituati a passare l’intero inverno in una specie di torpore non interrotto. La luce della fiaccola doveva averli svegliati ed essendo a digiuno forse da un paio di mesi, alla vista di quell’intruso si erano sentiti improvvisamente ridestare l’appetito.

Il polacco ne sapeva abbastanza. Girò rapidamente sui talloni e si slanciò nella galleria percorrendola tutta d’un fiato.

L’jemskik, udendo quella corsa precipitosa che annunciava un nuovo pericolo, sapendo che il polacco non era uomo da perdere per un nonnulla la sua calma abituale, era balzato precipitosamente in piedi, stringendo il fucile.

– Cos’hai, Dimitri? – chiese, vedendolo comparire coi lineamenti alterati.

– Forse sono inseguito, – rispose il polacco.

– Inseguito?... Da chi?...

– Da una famiglia d’orsi.

– Dove si trovano quegli animali?... – chiese l’jemskik appoggiando un dito sul grilletto del fucile.

– All’estremità della galleria... in una caverna che ho scoperta or ora.

– Ed abbiamo i lupi sempre dinanzi!... Bisogna svegliare la padrona!...

– Aspettiamo, Fedor. Forse gli orsi non hanno osato inseguirmi.

– Ma noi non possiamo rimaner qui, Dimitri.

– Preferisci i denti dei lupi?...

– Ah!... No, nemmeno quelli. Ho meno paura degli orsi che di quella banda affamata.

– Sono quattro o cinque, Fedor, e sono dei torquati.

– Fra i lupi e gli orsi, e fors’anche fra i cosacchi!... – esclamò l’jemskik. – Che cosa decidi di fare?...

– Se non possiamo sbarazzarci dei lupi, cerchiamo almeno di impedire agli orsi di darci addosso entro questo rifugio.

– Sono cinque, m’hai detto. Tu sai, Dimitri, che i torquati non temono l’uomo.

– Non dico già di assalirli e d’impegnare battaglia. Fossero due, per mio conto non esiterei a tentare la lotta, ma cinque!...

– Che cosa vuoi fare adunque?

– Impedire loro di assalirci alle spalle.

– Ed in qual modo?

– Accendendo un fuoco all’entrata della galleria. Tu sai che al pari dei lupi, temono una catasta fiammeggiante.

– Pensa che non avremo tanta legna da poter mantenere accesi i fuochi fino a mezzanotte.

– Quando l’avremo consumata tutta, daremo battaglia o agli orsi od ai lupi, – disse Dimitri.

In quell’istante i tre cavalli che stavano mangiando un po’ di avena data loro dall’jemskik, cominciarono a dar segni d’inquietudine. Prima cessarono di mangiare, poi aguzzarono gli orecchi, come se cercassero di raccogliere dei lontani rumori, quindi si misero a nitrire sordamente ed a scalpitare, tenendo le teste volte verso la galleria.

– I nostri cavalli hanno sentito gli orsi, – disse l’jemskik, rabbrividendo.

– Prendi un fascio di rami e seguimi, – comandò il polacco, raccogliendo il fucile che aveva deposto presso la troika.

Fedor obbedì sollecitamente e tutti e due s’avvicinarono guardinghi alla galleria, l’uno tenendo l’arma imbracciata e l’altro, oltre il fascio di rami, un grosso tizzone acceso per scagliarlo sul muso degli assalitori.

Giunti sotto le prime arcate si arrestarono, guardando ansiosamente nell’oscuro passaggio.

I loro occhi, almeno in quel momento, nulla scorsero, però essendo la galleria tortuosa, non era improbabile che i cinque orsi avessero già abbandonata la caverna e che stessero avvicinandosi cautamente.

– Vedi nulla, Dimitri? – chiese Fedor, con un certo tremito nella voce.

– No, – rispose il polacco. – Ascolta.

Dimitri tese gli orecchi rattenendo il respiro e udì dei sordi brontolii che l’eco della galleria trasmetteva nettamente.

– I torquati sono in marcia, – disse. – Getta il fastello e accendilo.

– Tieni pronto il fucile, Dimitri.

– Non temere.

L’jemskik mise il fastello in mezzo alla galleria e lo sciolse, sparpagliando i rami in modo da impedire il passaggio, poi col tizzone che teneva in mano vi diede fuoco. Le fiamme si erano appena alzate crepitando, quando un orso, il capo-fila, apparve allo svolto della galleria.

Vedendo quei due uomini, si alzò sulle zampe deretane, pronto a slanciarsi, ma subito ricadde abbagliato dalla luce intensa del falò.

– Fuggiamo!... – gridò l’jemskik.

Il polacco, invece di obbedire, alzò il fucile, mirando il plantigrado con grande attenzione.

– Cosa fai? – Fedor.

– Mi provo ad abbatterlo, – rispose freddamente Dimitri. – Se ci riesco, sarà uno di meno.

Ciò detto, lasciò partire la carica. Quel colpo di fucile, sparato fra quello stretto corridoio, echeggiò come una cannonata, ripercuotendosi a lungo nell’ultima galleria.

L’orso, colpito forse gravemente, era stramazzato al suolo, però si era subito rialzato, mandando un urlo spaventoso.

Cieco di rabbia, si slanciò innanzi, come se fosse deciso a passare anche sopra il falò pur di piantare gli artigli nelle carni del suo feritore.

– In guardia, Dimitri, – gridò l’jemskik, impugnando la rivoltella.

– Sono pronto, – rispose il polacco.

Vedendo che l’orso continuava ad avanzare, puntò nuovamente l’arma e fece fuoco alla distanza di sei passi.

Sia che avesse fatto partire il colpo con troppa precipitazione o che in quel supremo momento il suo braccio avesse tremato, la palla invece di colpire l’orso in mezzo al cranio, lo ferì un po’ troppo in alto, attraversandogli un orecchio.

Il polacco non s’era ancora rimesso dallo stupore, che si sentì afferrare fra due zampe villose e stringere con tanta forza, da venirgli meno il respiro.

– Aiuto, Fedor!... – gridò.

– Vengo in tuo soccorso!... – rispose una voce, quella di Maria Federowna.

Poi, mentre l’jemskik, pazzo di terrore, girava attorno alla fiera senza osare di far fuoco colla rivoltella, per tema di colpire anche il compagno, si vide comparire Maria con un fucile in mano.

Alzare bruscamente la canna, appoggiarla alla fronte dell’animale e premere il grilletto, fu la cosa d’un istante.

Il torquato cadde col cranio fracassato, trascinando nella caduta anche il polacco e cercando, nell’ultimo spasimo della morte, di rompergli le costole con una stretta suprema, ma le forze lo tradirono e le sue zampacce caddero inerti, abbandonando la preda.

– Dimitri!... – esclamarono Maria e l’jemskik, precipitandosi su di lui.

– Sono ancora vivo, padrona, – rispose il polacco, alzandosi con una lestezza straordinaria.

– Sei ferito?...

– Ho le costole un po’ addolorate, però nient’altro. E gli altri orsi?...

— Badate!... Eccoli!...

I compagni del morto erano comparsi allo svolto della galleria, grugnendo come maiali in collera. Vedendo il fuoco e quelle persone, s’erano arrestati, indecisi se muovere all’attacco per vendicare il compagno o retrocedere. Un momento d’irresolutezza e forse tutt’e quattro si precipitavano all’assalto.

– Fedor! – gridò Maria.

L’jemskik comprese. Alzò la rivoltella e bruciò una dietro l’altra le sei cariche.

I quattro orsi, spaventati da quel rimbombo e sentendosi penetrare i proiettili nella pelle, girarono sulle zampe e fuggirono precipitosamente grugnendo e fremendo.

– Bravo Fedor! – gridò Dimitri. – Scalda per bene i loro dorsi.

L’jemskik aveva preso alcuni tizzoni accesi, e per accelerare la fuga dei pericolosi plantigradi e per spaventarli maggiormente, si era messo a scagliarli dietro a loro.

– Credo che ne abbiano abbastanza, – disse Dimitri, ridendo. – Spero che per un po’ ci lasceranno tranquilli.

– Ritorniamo, – disse la giovinetta. – Non dimenticate che vi sono anche i lupi.

– Non mi ricordava quasi più di loro, – rispose Dimitri. – Aspettate un momento, padrona; vi voglio offrire un arrosto delizioso.

– Lascia fare a me, Dimitri – disse l’jemskik, che lo aveva già compreso. – Andate alla caverna a sorvegliare i lupi.

Maria ed il polacco s’affrettarono a ritornare, temendo che i lupi approfittassero della loro assenza per entrare e balzare addosso ai cavalli della troika. Quando vi giunsero, s’avvidero che non avevano invano avuto soverchia fretta e che i loro timori non erano esagerati.

I predoni delle steppe s’erano già avvicinati e ronzavano dinanzi al falò, cercando un punto favorevole per entrare. Forse si erano accorti dell’assenza della giovane e dei due uomini e stavano per approfittare della nessuna sorveglianza, per piombare sui cavalli.

Vedendoli tornare coi fucili in mano, s’affrettarono a battere in ritirata, e andarono ad accovacciarsi cento metri più lontano, ululando rabbiosamente.

– Dimitri, cosa facciamo? – chiese la giovane. – Dopo i lupi anche gli orsi ora?...

– Non vi nascondo, padrona, che la nostra situazione minaccia di diventare estremamente pericolosa.

– Se tentassimo una nuova battaglia coi lupi?...

– I nostri cavalli hanno bisogno di riposo, padrona. Io non oserei tentare una nuova fuga in questo momento.

– Vuoi rimaner qui, stretti fra due pericoli, uno peggiore dell’altro?...

– I torquati non mi danno molto pensiero; il fuoco che arde nella galleria è sufficiente per trattenerli.

– Ed i lupi?... La provvista di legna non durerà eternamente, Dimitri.

– Non so se basterà fino a mezzanotte.

– Poi lupi e orsi ci piomberanno addosso.

– Questa sera i cavalli saranno ben riposati e potremo tentare una nuova corsa. Aspettiamo, padrona; chissà, i lupi possono perdere la pazienza ed andarsene.

– Tu hai dimenticato un altro pericolo.

– No, padrona, anzi è quello che mi cruccia maggiormente. I cosacchi non mi escono dal cervello.

– Se ci sorprendono qui, per noi è finita.

Poi soggiunse, con un sordo singhiozzo:

– E mio fratello?... Chi lo salverebbe poi?...

– Povero colonnello, – sospirò Dimitri.

Ad un tratto alzò vivamente il capo, dicendo: – Zitto!...

– Che cos’hai Dimitri? – chiese la giovane, impallidendo.

– Ascoltate, – disse il polacco, traendola verso l’uscita della caverna.


Note

  1. Una specie simile trovasi anche nel Giappone, però il pelame è macchiato.