Gli orrori della Siberia/Capitolo XXVII – L'incendio
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Capitolo XXVII – L’incendio
L’ispettore di polizia, udendo quella voce che suonava come un acerbo rimprovero, si era rapidamente voltato. Scorgendo il capitano, il quale lo guardava con due occhi severi, il poliziotto impallidì e tutta la sua insolente spavalderia gli mancò bruscamente.
– Voi, signor capitano!... – esclamò. – A quale fortuna devo la vostra gradita visita?
– Vi ho chiesto che cosa succede qui, signor Demidoff, – ripeté il capitano, duramente. – Mi pare che si lascino fuggire i forzati, è vero? Valeva la pena che io li conducessi qui in pieno inverno, con mille pericoli e mille fatiche, per poi lasciarli evadere!...
– Ma... signor capitano... tutto non si può prevedere. Il pozzo dell’antica miniera era stato in gran parte ostruito.
– In gran parte!... Si doveva turarlo interamente, signor Demidoff!... Quanti uomini sono fuggiti?
– Quattro.
– Politici forse?
– Uno è un galeotto, gli altri, disgraziatamente, sono politici.
– Ciò è grave, signor Demidoff. Il governatore d’Irkutsk schiatterà dalla rabbia, quando verrà a saperlo. Bisogna assolutamente riprenderli; mi capite, assolutamente!
– Ho dato ordine ai soldati di riprenderli vivi o morti.
– Se riusciranno a riprenderli. Chi sono gli arrestati?
– Il colonnello Wassiloff, un uomo audace e forte come un ercole, uno studente ed un ingegnere. Farò somministrare a ciascuno venticinque colpi di knut, così passerà loro la voglia di ritentare l’impresa.
– Lo knut!... Ecco la vostra grande parola!... – disse il capitano, con ironia. – Non sapete far altro che bastonare, voi. Dov’è il colonnello?
– Nella prigione del grande magazzino.
– Badate che non vi fugga: è un «pericoloso».
– Vi trattenete qualche tempo qui, capitano?
– Alcuni giorni. Sono giunto ieri sera col mio amico, il principe Peteroff, per cacciare l’orso nelle foreste dell’Algasithal. Stavamo precisamente per scovarne uno, quando abbiamo udito gli spari e l’allarme delle vostre sentinelle.
– Non è qui adunque la vostra slitta?
– No, l’ho lasciata in mezzo al bosco, presso un’isba. Fate tosto turare il pozzo, prima che altri prigionieri prendano il volo; io intanto andrò a fare una visita ai depositi di minerale. Venite, mio caro principe.
Volse le spalle all’ispettore, senza degnarsi di salutarlo, ed in compagnia di Dimitri e dell’jemskik si diresse verso il grande magazzino.
Era questo un vasto fabbricato, costruito parte in legno e parte in muratura, che serviva di deposito al minerale e che conteneva un carcere diviso in varie celle, un piccolo ospedale, le cucine pel vitto dei forzati e parecchi alloggi destinati ad un numero ragguardevole di guardiani e di poliziotti.
Il capitano, che lo osservava attentamente come se cercasse un buon punto per effettuare la progettata evasione, ad un tratto s’arrestò come se fosse stato colpito da un’improvvisa idea.
– È meglio prevenirlo, – mormorò. – Sono appena le sette del mattino: l’ora è propizia.
Estrasse un libriccino e colla matita scrisse:
«Maria Federowna è qui; si veglia su di voi»
«V.B.».
Strappò la pagina scritta, l’arrotolò accuratamente e se la nascose in petto.
– Cosa fate capitano? – chiese Dimitri.
– Avverto il tuo padrone che noi siamo qui.
– Non lo vedremo il colonnello?
– No.
– Ma il vostro grado e la vostra posizione non vi permettono di poterlo vedere ed interrogare?
– Sì, ma mi preme di allontanare ogni sospetto. Io non fuggo con voi e non voglio che si possa poi accusarmi di complicità.
– E come faremo a liberarlo?
– Lascia fare a me. Ti dico che questa sera sarà libero.
Passarono dinanzi alle sentinelle, che salutarono il capitano presentandogli le armi, ed entrarono nel grande magazzino, visitando successivamente, con affettato interesse e curiosità, i depositi di minerale, l’ospedale, gli alloggi dei guardiani e finalmente le cucine. Giunti in queste, proprio nel momento in cui i cucinieri preparavano l’orribile mistura di segala destinata ai forzati, il capitano disse, con severo cipiglio, volgendosi verso il capo dispensiere:
– Son pervenuti dei gravi lagni al governatore di Irkutsk, sulla pessima qualità della segala e del pane. Badate che il governatore non ischerza.
– I prigionieri si lagnano sempre, capitano, – rispose il capo. – Vorrebbero tavola scelta tutti i giorni.
– Qualche volta i loro lamenti sono giusti. Voglio dare l’assaggio io per essere convinto. Quali sono le razioni destinate ai prigionieri di stamani?
– Eccole, signore, – rispose un cuciniere, presentando un canestro contenente tre pagnotte siberiane ed una pentola ripiena di segala mal macinata.
Il capitano spezzò una pagnotta e la fiutò, poi l’assaggiò, ma nel fare quelle mosse, con una destrezza ammirabile, introdusse il bigliettino sotto la crosta.
– Il sonkari non è cattivo, però potrebbe essere migliore, – disse.
Poi assaggiò la segata facendo una smorfia.
– Questa è detestabile, – aggiunse. – Per oggi passi, e se domani non la migliorerete appoggerò i reclami dei forzati. Recate pure il canestro ai prigionieri. Andiamo ora a visitare la miniera, principe.
Uscirono tutti e tre, però invece di recarsi direttamente alla miniera, salirono un piccolo poggio come se volessero ammirare il panorama che offriva la vallata d’Algasithal, ma in realtà per poter discorrere senza il pericolo di venir uditi.
Il capitano, assicuratosi che il poggio era affatto deserto, disse ai compagni:
– Ora ascoltatemi attentamente.
– Parlate, capitano, – dissero Dimitri e l’jemskik.
– Questa sera io andrò a cenare coll’ispettore di polizia che ha l’alloggio nel grande magazzino, a pochi passi dalle carceri ove sono rinchiusi il colonnello ed i suoi due compagni. Procurerò di fargli bere più dell’usato, così voi potrete agire con maggior sicurezza.
– Cosa dovremo fare? – chiesero i due polacchi.
– Vedete quegli ammassi di legname?
– Dietro la borgata della miniera? – chiese Dimitri.
– Sì.
– Ordinate; siamo decisi a tutto.
– Questa sera, fra le dieci e le undici, voi andrete a incendiarli.
– A incendiarli!... – esclamarono Dimitri e l’jemskik con stupore.
– Sì, se volete liberare il colonnello.
– Ma... non comprendo, capitano...
– Mi spiego, Dimitri. Quando io udrò dare l’allarmi, costringerò tutti i guardiani, i poliziotti, i cucinieri e le sentinelle ad accorrere sul luogo dell’incendio. Fra la confusione mi riuscirà facile tornare indietro ed aprire la cella dei prigionieri.
– Splendido piano!... – esclamò Dimitri.
– Un colpo di scena, – disse l’jemskik.
– E, dopo incendiati quei depositi, cosa faremo?
– Fuggirete verso il bosco ed attenderete il colonnello, poi salirete sulla slitta e sulla troika, e vi allontanerete di galoppo. I miei cavalli sono eccellenti e non la cederanno a quelli della vostra padrona.
– E voi?...
– Non occupatevi di me, – disse il capitano, sorridendo. – Chi oserà accusarmi? Si dice che sono il più severo capitano della Siberia.
– E non vi rivedremo più? – chiesero i due polacchi.
– Chissà!... forse un giorno. Una parola ancora: fuggendo, evitare Irkutsk o vi prenderanno prima di giungere al Baikal.
– Come potranno saperlo a Irkutsk?
– Il telegrafo è più rapido dei cavalli.
– Io taglierò i fili, – disse Dimitri. – Così potremo fuggire con maggior sicurezza e raggiungere il Baikal prima che sia dato l’allarme.
– Una domanda, capitano, – disse l’jemskik. – Prenderanno fuoco quei legnami, con questa neve?
– Sono vecchi e arderanno facilmente. Separiamoci: rientrate ora nella foresta; dirò all’ispettore che siete andati a scovare l’orso.
– A questa sera, adunque, – disse Dimitri, – e se non vi vedrò più, vi auguro, signor capitano, di esser felice.
– Grazie, amici. Alle dieci attendo l’allarme.
– Ci faremo uccidere, ma daremo fuoco ai depositi.
– Conto su di voi.
Il capitano s’allontanò dirigendosi verso la miniera, mentre i due polacchi si dirigevano verso i boschi di pini e di larici, salendo le colline che circondano la vallata d’Algasithal.
Il capitano occupò l’intera giornata a visitare la grande miniera in compagnia dell’ispettore, interrogando parecchi forzati sull’evasione della notte e minacciandone parecchi che assicuravano di non aver udito nulla, né veduto nulla. Pareva, agli occhi dell’ispettore, che volesse aprire una vera inchiesta per scoprire i responsabili di quell’audace fuga, o che temesse che altri forzati avessero partecipato al complotto.
Giunta la sera, condusse con sé l’ispettore, dicendogli con una certa amabiltà:
– Spero, signor Demidoff, che mi offrirete una cena. Conto di ripartire domani mattina per Irkutsk col mio amico Peteroff.
– È un grande onore quello che mi fate, signor capitano, – rispose l’ispettore.
– Che pagherete con una bottiglia di champagne, – disse il capitano sorridendo.
– Ne ho ancora sei e le vuoteremo tutte alla vostra salute.
– Grazie, signor Demidoff.
Chiacchierando giunsero nell’alloggio del capo di polizia, che era situato nel grande magazzino, a pianterreno. Entrarono in un salotto riscaldato da una grande stufa ed illuminato da una doppia lampada, e si sedettero attorno ad una tavola già imbandita.
Il cuoco, prontamente avvertito, non si fece attendere ed allestì una cena squisita, accompagnata da una vera batteria di bottiglie deliziose e molto polverose.
L’ispettore ed il capitano assalirono con molto appetito il caviale, la zuppa d’anitra selvatica, il salmone salato del Volga, il luccio del Baikal, lo zampone d’orso affumicato e un bel pezzo di renna arrosto, poi stapparono le bottiglie di vino di Saratow, di Crimea e di Rostow.
Il capitano beveva molto, ma faceva bere di più l’ispettore, invitandolo a fare numerosi brindisi. Quando fecero saltare le bottiglie di champagne, l’ispettore aveva già la lingua molto grossa.
Il capitano invece pareva che non avesse bevuto che acqua, quantunque avesse bevuto la sua parte per calmare l’ansietà che lo divorava. Pur fingendo di mostrarsi tranquillo, tendeva sovente gli orecchi sembrandogli sempre di udire il grido d’allarme delle sentinelle o dei colpi di fucile, ed ogni volta che il suo compagno s’alzava per riempire i bicchieri o per sturare una nuova bottiglia, lanciava un rapido sguardo sull’orologio.
Le dieci ore eran già passate, e nulla ancora si era udito. Le sue inquietudini crescevano di momento in momento. Cosa era avvenuto?...
Erano stati, i due polacchi, sorpresi dalle sentinelle od il legname non poteva prendere fuoco?...
Si era rimesso a bere quasi con rabbia per calmare le ansie che lo rodevano. Stava per sturare la terza bottiglia di champagne, quando si udirono le sentinelle del grande magazzino urlare con voce tuonante:
– All’armi!...
Il capitano e l’ispettore erano balzati in piedi, l’uno col volto raggiante di gioia e l’altro pallido come un cadavere.
– Una nuova evasione!... – balbettò l’ispettore.
– È impossibile! – esclamò il capitano.
– All’armi!... Al fuoco!... – gridarono le sentinelle.
– Il fuoco!... – esclamò l’ispettore.
– Fuori!... fuori!... – gridò il capitano.
Abbandonarono precipitosamente la sala e si slanciarono all’aperto.
Una luce intensa, a riflessi sanguigni, illuminava la notte.
– Bruciano i depositi di legname!... – gridò l’ispettore.
– E la borgata è in pericolo!... – tuonò il capitano. – All’armi!... Tutti laggiù!...
Si slanciò nei corridoi del grande magazzino, ripetendo:
– Tutti al fuoco!... Tutti, mi capite!... Presto! presto!...
In un baleno i guardiani, i poliziotti, i cuochi, tutti infine, munitisi alla meglio di scuri e di recipienti, si rovesciarono giù dalle scale, uscirono in frotta e si slanciarono dietro all’ispettore che correva verso la miniera urlando a perdifiato:
– Al fuoco!... al fuoco!...
Il capitano lo seguì per trenta o quaranta passi, poi si arrestò, mormorando:
– Il colpo è fatto; non perdiamo tempo!...