Gli orrori della Siberia/Capitolo XXVIII – La fuga

Capitolo XXVIII – La fuga

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Capitolo XXVII – L’incendio Capitolo XXIX – Il Baikal

Capitolo XXVIII – La fuga


I depositi di legname della grande miniera bruciavano come zolfanelli, malgrado il ghiaccio e la neve che li copriva. Erano legnami vecchi e resinosi, essendo di pino, e perciò prendevano fuoco facilmente.

Immense lingue fiammeggianti s’alzavano da tutte le parti, tingendo di rosso il cielo, sormontate da enormi nuvole di fumo nero e puzzolente e da un gigantesco pennacchio di scintille che il diacciato vento notturno trascinava sopra la valle, minacciando d’incendiare la borgata vicina e le foreste circostanti.

Al grido delle sentinelle, soldati, poliziotti, guardiani ed impiegati si erano slanciati verso i depositi per cercare di domare il fuoco divoratore. In pochi istanti avevano armate le pompe delle miniere e spezzata la crosta gelata d’un torrente, assalendo le vampe con getti furiosi d’acqua.

Mentre i guardiani e gli impiegati pompavano, i cosacchi si erano gettati coraggiosamente fra il turbine di scintille, fra i tizzoni infiammati ed il fumo, per abbattere le gigantesche cataste di legname e cercare di salvare la borgata che correva il pericolo di venire investita e distrutta.

Il capitano, accertatosi che tutti gli uomini erano corsi sul luogo dell’incendio, ritornò prontamente nel grande magazzino che era ormai vuoto, e si recò nella stanza dei fabbri e dei cucinieri. Impadronirsi di tre lime e di due grosse tenaglie, fu cosa di pochi istanti.

Così armato, salì le scale che conducevano al carcere, e giunto dinanzi alla prima cella, picchiò tre colpi contro la porta.

Nell’interno si udì tosto una voce a gridare:

– Chi va là?...

– Io, il capitano Baunje, – rispose egli. – Dov’è il colonnello Wassiloff?

– È qui che dorme.

Il capitano aprì la piccola feritoia della porta e gettando dentro le tre lime, disse:

– Presto, tagliate le vostre catene, mentre io schianto i chiavistelli.

Poi, senza attendere la risposta, si mise febbrilmente al lavoro, strappando i chiodi, torcendo con forza sovrumana le lamine di ferro, spezzando i chiavistelli.

Bastarono dieci minuti per far cadere tutti quegli ostacoli. Aperta la porta si precipitò nella cella e si strinse fra le braccia il colonnello che aveva appena allora finito di limare la sua catena.

– Voi, capitano!... – esclamò Sergio, baciandolo in volto. – E mia sorella dov’è?... Parlatemi di lei, ve ne prego.

– Fra pochi minuti la stringerete fra le vostre braccia. Presto, seguitemi, o sarà troppo tardi.

Si slanciò giù per le scale seguito dai prigionieri ed uscì dal grande magazzino. I depositi di legname bruciavano ancora, anzi il fuoco si era esteso alla borgata, divorando tre o quattro casupole.

– Fuggite, – disse il capitano. – Finché l’incendio dura, nulla avrete da temere e potrete guadagnare molta via. Raggiungete quel gruppo d’alberi, poi cacciatevi nella foresta. Dimitri non deve essere lontano.

– Dimitri!... – esclamò il colonnello. – È qui anche lui?

– Ed è stato lui a dare il fuoco ai depositi, per lasciarmi il tempo di rendervi liberi.

– Ma non venite voi, capitano?

– No, colonnello; ho altri disgraziati da salvare.

– E non ci rivedremo più?

– Un giorno forse. Addio, colonnello; ricordatevi di me.

– Grazie, amico.

S’abbracciarono strettamente, poi si separarono, entrambi vivamente commossi.

– Addio! – disse un’ultima volta il capitano, indicando la foresta.

– Grazie, signore, – dissero Iwan e l’ingegnere.

Poi tutti e tre si slanciarono attraverso alla vallata, nascondendosi dietro ai cumuli di neve, mentre il capitano si recava rapidamente sul luogo dell’incendio, tenendosi celato dietro alla gigantesca ruota idraulica della miniera.

Giunti al gruppo d’alberi, i fuggiaschi s’arrestarono un istante per vedere se erano inseguiti: poi, non vedendo alcuno, si diressero, sempre correndo, verso i boschi.

Il colonnello era dinanzi a tutti e divorava la via come se avesse ritrovato le sue gambe di sedici anni, ripetendo con voce affannata:

– Maria!... Maria!...

Erano appena entrati sotto i pini e gli abeti, quando il colonnello vide rovinarsi addosso un uomo. Fece un balzo indietro per mettersi sulla difensiva, ma una voce ben nota gli disse:

– E che?... Non conoscete più il vostro fedele Dimitri, colonnello?...

– Dimitri!... – esclamò Sergio. – Abbracciami, mio valoroso!...

Il vecchio soldato esitò un istante, poi si gettò fra le braccia del padrone scoppiando in singhiozzi e ripetendo:

– La gioia mi soffoca.

– Dov’è Maria? – chiese Sergio, che aveva pure le lagrime agli occhi.

– Laggiù, in un’isba, padrone.

– Sola!...

– Sotto la protezione dell’jemskik, un uomo fidato, padrone.

– Accorriamo!...

Ripresero la corsa internandosi nella nevosa foresta, che i riflessi dell’incendio, salendo dalla valle, illuminavano, e poco dopo giungevano all’isba dinanzi alla quale scalpitavano e nitrivano i tre cavalli della slitta e quelli della troika.

Maria Federowna era là, assieme all’jemskik, che aveva preso posto nella slitta.

– Fratello mio!... – esclamò, scorgendo il colonnello.

– Maria!... – gridò questi.

E si trovarono l’uno nelle braccia dell’altro, piangendo, ridendo, baciandosi.

– Maria!... Mia buona sorella!... – esclamava il povero esiliato, pazzo di gioia. – Ah!... Quanto ho sofferto per te!...

– Ma non ci lasceremo più, fratello mio, è vero?

Poi, separandosi bruscamente da lui e prendendolo per una mano, lo trasse verso la troika, dicendogli:

– Fuggiamo! Io tremo per te.

– Un momento, Maria. Lascia che ti presenti due coraggiosi amici, lo studente Iwan Sandorf, un bravo amico che ha diviso con me tutti gli orrori della catena vivente e che io amo come fosse mio figlio, e l’ingegnere finlandese Alexis Storn, che mi ha accettato per compagno nel tentativo di fuga.

– Saranno miei fratelli, – disse la giovinetta.

– Grazie, signorina, – disse lo studente, che divorava cogli occhi quella splendida e coraggiosa ragazza.

– Ora partiamo, – disse il colonnello. – Dimitri, sali sulla troika.

– Ho le briglie in mano, padrone.

– Dove andiamo? – chiese l’jemskik.

– Al Baikal, – rispose il colonnello. – Evita le borgate.

– È inutile, – disse Dimitri. – Ho tagliato i fili del telegrafo, e nessuno saprà la vostra fuga prima di dodici ore.

– La prudenza non è mai troppa, e...

– Cosa vuoi, fratello? – chiese Maria.

– Hanno ripreso i prigionieri fuggiti prima di noi?

– No, padrone, – rispose Dimitri. – I cosacchi sono ritornati oggi colle mani vuote.

– Speriamo di ritrovarli sulle rive del Baikal. Frusta, jemskik!...

La slitta, montata dall’jemskik, da Iwan e dall’ingegnere, partì colla rapidità d’un lampo, seguita da vicino dalla troika guidata da Dimitri e montata da Sergio e da Maria.

Avevano preso la via dei monti per evitare la valle dell’Angara che è frequentata da numerose slitte ed abitata da numerose tribù di buriati. La via era più difficile e più lunga, dovendo costeggiare i contrafforti della grande catena dei Sajan, e passare attraverso grandi boscaglie, ma potevano più facilmente sfuggire agli occhi degli uomini e far perdere più facilmente le loro tracce. Fortunatamente i pini non crescono gli uni accanto agli altri come gli alberi delle foreste tropicali, e lasciano fra un tronco e l’altro un certo spazio, sicché la slitta e la troika potevano procedere speditamente, senza fare dei lunghi giri per trovare dei passaggi.

Mentre le slitte procedevano, più rapidamente che lo consentivano le salite, attraverso alle foreste, Maria raccontava al colonnello tutte le peripezie superate nella sua rapida corsa attraverso alla Siberia.

– Il pellegrino aveva mantenuto adunque la parola, – disse il colonnello.

– Sì, e appena appresi ove tu ti trovavi, partii la notte istessa in compagnia di Dimitri, recando con me due tratte per duecentomila rubli. Da Varsavia a Tjumen il viaggio fu celere e comodo, ma fra le steppe, in pieno inverno, ho sofferto assai, fratello mio.

– Povera Maria!...

– Bah!... Cosa importa?... Se avessi sofferto il doppio, non vi avrei fatto caso.

– E come sei riuscita a sfuggire alla polizia siberiana?

– Viaggiando con cavalli miei ed evitando le grosse borgate. Se avessi chiesto la podarosnaia, la polizia russa mi avrebbe tenuta d’occhio ed avrebbe segnalato il mio viaggio a quella siberiana e non so se avrei potuto accorrere in tuo aiuto.

– Ti avrebbero fatta scortare e forse arrestare. Quale fortuna, che tu abbia incontrato quel bravo capitano.

– Una vera fortuna, fratello. Che nobile cuore!... Non lo dimenticheremo mai, è vero?

– Mai, Maria.

– E perché ti hanno arrestato, fratello? È vero che eri diventato un nichilista?

– È vero, Maria. Mi ero affiliato a quella setta che mira a dare alla Russia un governo più liberale e che se riuscisse a trionfare non opprimerebbe più tanto la nostra disgraziata patria; a quella setta che chiamasi la Giovane Russia e che aborre i delitti degli altri nichilisti.

– E dove ti hanno arrestato?

– A Riga, avendo trovato nella mia abitazione delle carte compromettenti. La polizia, non seppi mai in quale modo, aveva saputo che mi ero inscritto alla Giovane Russia.

– Quanto devi aver sofferto, povero fratello.

– Assai, Maria; ma ora tutto ho dimenticato e mi sento doppiamente felice accanto a te.

– Che riescano a riprenderci?

– La frontiera cinese è poco lontana e spero di poterla varcare prima che possano organizzare, su vasta scala, l’inseguimento!

– E poi, dove andremo?

– Superata la frontiera, attraverseremo il gran deserto di Gobi e ci rifugeremo a Pechino. Giunti là, sfido la polizia russa a riprendermi.

– È lontano il Baikal?

– Stasera lo scorgeremo dall’alto delle montagne, e domani lo attraverseremo.

– Colle slitte?

– Sì, Maria, poiché sarà tutto gelato. Abbrevieremo la via, ed eviteremo delle aspre e pericolose discese, e poi abbiamo dei compagni che ci attendono.

– I forzati fuggiti?

– Sì.

– Ma sai dove trovarli.

– Lo so. Attenzione, Dimitri!... Corriamo il pericolo di piombare attraverso all’abisso.

– Ho il pugno solido, padrone, – rispose il polacco. – I cavalli procederanno adagio o lacererò le loro bocche.

La slitta e la troika erano giunte sull’orlo d’uno spaventevole baratro, profondo almeno trecento metri, tagliato quasi a picco. Una nebbia azzurra saliva dal fondo e sotto di essa si udivano a ululare delle bande di lupi.

Un piccolo sentiero coperto da un alto strato di ghiaccio, scavato nella montagna, costeggiava quell’abisso spaventevole.

L’jemskik, dopo essersi assicurato che vi era spazio appena sufficiente per far passare i due veicoli, aveva spinto i cavalli su quel sentiero senza esitare. Aveva però raccolto le briglie per trattenerli di colpo, in caso di pericolo.

Dimitri aveva seguito la slitta.

– Adagio, jemskik!... – gridò il colonnello. – Se la crosta di ghiaccio frana od un cavallo scivola, andremo a sfracellarci in fondo all’abisso.

– Non temete, – rispose il polacco, con voce ferma.

I cavalli, consci del pericolo, s’avanzavano prudentemente, tenendosi gli uni contro gli altri, tastando prima il ghiaccio con gli zoccoli e volgendo altrove il capo per evitare l’attrazione del baratro.

Avevano già percorso trecento metri, quando giunti ad una svolta del sentiero, quelli della slitta s’arrestarono bruscamente emettendo un triplice nitrito e cercando di dare indietro.

L’jemskik impallidì; la slitta si trovava proprio sull’orlo dell’abisso e se veniva urtata dagli animali, capitombolava dentro l’immane apertura.

– Jemskik!... – gridarono Iwan e l’ingegnere.

– Cosa succede? – gridarono Maria ed il colonnello.

La risposta fu pronta: un urlo rauco era echeggiato sull’orlo dell’abisso, al di là della curva del sentiero.

– Siamo perduti!... – esclamò l’jemskik. – Un orso ci sbarra la via!...

– A me! – gridò Iwan. – Cocchiere!... Tieni fermi i cavalli!...

– Iwan!... – gridò il colonnello. – Cosa volete fare?

– Vi farete uccidere!... – esclamò Maria.

– Non temete signorina, – rispose lo studente.

Armò un fucile, quello del capitano, scese dinanzi alla slitta, strisciò fra le zampe dei cavalli e passò oltre.

Trascorsero alcuni istanti d’indicibile ansietà per tutti, poi echeggiò un’acuta detonazione, seguita da un urlo e poco dopo da una specie di tonfo che s’allontanava verso il fondo dell’abisso.

– Iwan!... – gridarono il colonnello e la giovane.

– È morto, – rispose lo studente, ricomparendo alla svolta del sentiero. – È caduto nell’abisso con una palla nel cranio.

– Valoroso ed audace, – mormorò Maria, con ammirazione.

– E leale compagno, – disse il colonnello, guardandola negli occhi.

La giovane arrossì, ma non rispose.

– Avanti! – comandò Iwan, che era risalito nella slitta.

I due veicoli ripresero le mosse, superarono l’abisso, poi scesero attraverso le montagne che s’abbassavano verso l’est.

Ai primi albori, i fuggiaschi, dall’alto d’una collina, scorgevano il Balkal.