Gli orrori della Siberia/Capitolo XVI – Il pozzo abbandonato

Capitolo XVI – Il pozzo abbandonato

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Capitolo XVI – Il pozzo abbandonato
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Capitolo XVI – Il pozzo abbandonato


Come aveva detto l’ingegnere, quella seconda galleria, che faceva parte dell’antica miniera già da lunghi anni sfruttata, era così bassa che i fuggiaschi non potevano tenersi in piedi.

Un tempo doveva essere stata praticabile non solo agli uomini, ma anche ai carretti; poi numerose frane dovevano essere cadute e l’avevano, in certi punti, quasi ostruita.

Ora camminando, ed ora strisciando come i serpenti, i fuggiaschi si avanzavano più rapidamente che potevano e senza molte precauzioni, ben sapendo che nessuno poteva udirli. D’altronde mille sordi fragori soffocavano i loro passi e le loro voci.

Dietro le pareti di roccia si udivano scorrere impetuosi torrenti sotterranei, che scendevano nelle viscere della terra, o lo scrosciare di cateratte invisibili. Anche sopra la vôlta si udivano scorrere con muggiti prolungati, delle acque, le quali trapelavano attraverso alle rocce, lasciando cadere sui fuggiaschi dei larghi goccioloni.

Ad un tratto si sentirono rinfrescare i volti da una fresca corrente d’aria, che veniva dal fondo della stretta galleria.

– Ci siamo, – disse l’ingegnere. – Il pozzo è vicino.

La galleria saliva rapidamente, avvicinandosi alla superficie del suolo, ma diventava sempre più ingombra. Macigni staccatisi dalla vôlta, in causa delle incessanti filtrazioni delle acque, ed ammassi di terreno umido, impedivano quasi il passaggio, obbligando i fuggiaschi a rimuovere tutti quegli ostacoli.

Ben presto però si trovarono in una specie di caverna circolare, lievemente rischiarata da un po’ di luce pallida, quasi livida, che cadeva dall’alto.

– Il pozzo! – esclamò l’ingegnere, respirando.

– Dov’è? – chiesero tutti.

– Guardate lassù!...

Tutti gli occhi guardarono in alto. A venticinque piedi sopra le loro teste, s’apriva un’apertura circolare, attraverso alla quale poterono scorgere un lembo di cielo stellato, rischiarato da una splendida luna.

– La libertà!... la libertà!... – esclamarono tutti, aspirando avidamente l’aria gelata, ma pura, che scendeva dal pozzo.

– Ora si tratta di salire, – disse l’ingegnere.

– Dove mette questo pozzo? – chiese il colonnello.

– Se i miei calcoli sono esatti, deve avere lo sbocco dietro al burrone, al di là del villaggio abitato dagli impiegati, dal pope e dai poliziotti.

– Non vi saranno sentinelle!

– Non lo credo, colonnello. Ho udito raccontare che questo pozzo era stato turato per evitare delle possibili evasioni. Forse alludevano alla galleria che abbiamo or ora attraversata.

– E come avete scoperto il pozzo?

– Per caso. Avendo trovato la bocca della galleria, che era semi-turata da un cumulo di macigni, un giorno, durante il riposo, deludendo la sorveglianza dei guardiani, mi avventurai nel passaggio e giunsi presso il pozzo. La galleria era però ingombra di macerie, e dovetti ritornare parecchie volte per aprirmi il passaggio e vedere la luce. Ecco perché ho tardato a mettere in esecuzione il mio progetto.

– Ma io non vedo scale per salire, – disse Iwan.

– Ne faremo senza, – rispose l’ingegnere.

– L’orifizio del pozzo è molto alto, – disse Sergio.

– Lo raggiungeremo egualmente. Vi sono circa dodici metri, mentre tutti noi, l’un sull’altro, ne misuriamo almeno tredici, essendo tutti di alta statura.

– Vi comprendo: si tratta di formare una colonna umana.

– E voi ne formerete la base. Siete forte come un ercole e potrete reggerci tutti.

– E gli ultimi, come saliranno poi?

– Con una fune che ho portato con me.

– All’opera adunque.

L’ingegnere estrasse dal disotto della camicia una fune solida, affatto nuova, che teneva arrotolata attorno al corpo. La porse al galeotto, dicendogli:

– Tu sei il più magro di tutti ed il più agile. Formerai la cima della colonna, poi salderai la fune a qualche macigno o a qualche albero. Ho veduto alcuni pini dietro al villaggio.

– Contate su di me, – rispose il forzato. – Mi farò uccidere se sarà necessario, ma fisserò la corda.

– Un’ultima parola ancora, – disse l’ingegnere. – Appena fuori, non fermatevi, fuggite per diverse direzioni. Non bisogna lasciare una sola traccia sulla neve, bensì parecchie per dividere le forze degli inseguitori. Ci ritroveremo più tardi sulle rive del Baikal, all’estremità della nuova via che conduce a Chaia-Mürinsk. Colà vi sono dei monti selvosi affatto deserti, e più tardi penseremo a raggiungere la frontiera cinese. All’opera ora!... L’alba non deve essere lontana più di tre ore.

Bisognava affrettarsi per non farsi sorprendere nei dintorni della miniera alla sveglia. A quell’ora era necessario trovarsi in mezzo alle montagne, fra le selve di pini, di abeti e di larici. Sergio inarcò le potenti reni e si appoggiò alla roccia. L’ingegnere, il più pesante di tutti dopo Sergio, gli salì sulle spalle, poi salirono, successivamente, Iwan, i tre politici e finalmente, con un’agilità da scimmia, il galeotto.

– Ci sei? – chiesero Sergio e l’ingegnere con trepidazione.

– No, tenete fermo, – rispose il galeotto. Il pozzo era più alto di quanto avevano creduto. Mancava ancora un metro per giungere all’orifizio, ma il galeotto come aveva detto, era deciso a tutto. S’appoggiò per bene sulle spalle del compagno che gli stava di sotto, si raccolse su sé stesso, come le tigri allorquando si preparano a piombare sulla preda, e, senza pensare che poteva mancargli il colpo e sfracellarsi il cranio in fondo al pozzo, si slanciò in alto. Le sue mani toccarono il margine del pozzo e vi si aggrapparono con suprema energia.

– Ci sono, – disse.

– Fermi tutti, – disse l’ingegnere. – Colonnello, potete resistere pochi minuti!

– Anche mezz’ora, se è necessario, – rispose il gigante.

– Manteniamo la colonna; i primi saliranno più facilmente e aiuteranno ad innalzarci.

Il galeotto intanto si era issato ed aveva gettato all’esterno un rapido sguardo.

Come l’ingegnere aveva previsto, il pozzo sboccava dietro alla piccola borgata abitata dai funzionari del governo, dai soldati, dai guardiani e dal pope. Era lontano circa trecento metri dalle ultime case ed a breve distanza si ergevano alcuni vecchi pali, che un tempo dovevano aver servito a sostenere qualche ruota idraulica.

Il galeotto, non vedendo alcuna sentinella e non udendo alcun rumore, legò ad un palo l’estremità della fune, poi gettò l’altro capo nel pozzo, dicendo:

– Affrettatevi.

Il politico, che stava alla sommità della colonna umana, s’aggrappò alla fune e, facendo forza di braccia e di gambe, uscì; poi uscì il secondo, quindi il terzo.

– A voi, – disse l’ingegnere allo studente.

Iwan stava per aggrapparsi alla fune, quando al di fuori echeggiò uno sparo seguito dal grido:

– All’armi!...

Che cos’era accaduto?... Erano stati sorpresi da qualche sentinella che vegliava nei dintorni?...

– Fuggite!... – aveva gridato il galeotto ai compagni. Lo studente e l’ingegnere erano balzati a terra mandando una sorda imprecazione.

Un secondo sparo risuonò al di fuori, poi altri spari più lontani, quindi si udirono delle grida che si perdevano in direzione del burrone. La caccia era cominciata: le sentinelle si erano slanciate dietro ai fuggiaschi.

– Possano almeno salvarsi loro, – disse il colonnello.

– In ritirata! – comandò l’ingegnere. – Cerchiamo di riguadagnare la cella.

Stavano per lanciarsi verso la galleria, quando sul margine del pozzo si udì una voce gridare:

– Date ordine ai guardiani di appostarsi allo sbocco detta galleria abbandonata. Devono essere entrati per di là.

– Siamo presi, – disse l’ingegnere.

– Difendiamoci, – disse Sergio con voce risoluta.

– Ci faremo uccidere inutilmente, colonnello, – rispose l’ingegnere.

– E se ci prendono, ci appiccheranno, – disse Iwan.

– No, ci daranno venticinque colpi di knut, pena terribile, ma non mortale.

– Preferisco farmi uccidere, piuttosto che farmi straziare le spalle, – disse Sergio.

– Ah!... Ah!... – ghignò una voce dall’alto. – Ci sono ancora delle canaglie nel pozzo!... La pagheranno per tutti!...

– L’ispettore!... – esclamò Iwan. – Riconosco la sua voce beffarda.

– Lui!... – esclamò Sergio, con accento intraducibile. – Sarà il primo che accopperò, se ardisce scendere.

– Olà!... – riprese l’ispettore. – Arrendetevi, o invece dello knut vi faccio scorticare vivi.

– Vieni a prenderci! – urlò il colonnello furibondo.

– Viva Iddio!... il colonnello Wassiloff! – esclamò l’ispettore. – Sono ben felice di averti preso!...

– Non mi tieni ancora.

– Ti giuro che ti farò scorticare le spalle con uno knut nuovissimo.

– Ma scendi se l’osi!... – tuonò Sergio, con voce formidabile.

– Arrenditi o faccio scaricare le armi.

– Uccidimi adunque!... Il colonnello Wassiloff non teme la morte.

– No!... – urlò l’ispettore furibondo. – Voglio farti scorticare.

– Provati!...

– Te lo prometto, canaglia!...

– Canaglia!... a me!... Ah!... Questo è troppo, infame poliziotto!... Vengo a ucciderti!...

Con un balzo da tigre s’aggrappò alla fune che penzolava ancora nel pozzo e con quattro bracciate apparve all’orifizio, prima ancora che l’ispettore potesse sospettare tale audacia.

Vedendo apparire improvvisamente quel gigante, coi lineamenti contratti pel furore, cogli occhi che mandavano fiamme, i soldati che avevano seguìto l’ispettore erano indietreggiati. Erano dieci o dodici, tutti armati; ma dinnanzi a quell’uomo, che sapevano già aver occupato un giorno uno dei più alti gradi dell’esercito russo, non avevano osato alzare i fucili.

– Eccomi, infame poliziotto!... – tuonò il colonnello. – Vedi che non ho paura!

E si slanciò innanzi colla mano aperta per afferrare quell’uomo; ma i soldati, rimessisi dallo stupore, gli si scagliarono addosso, come una torma di cani contro un cinghiale.

Il gigante, con due formidabili pugni, mandò a ruzzolare a destra ed a sinistra i due primi; poi afferratone un terzo a mezzo corpo, lo scaraventò contro gli altri con impeto tale da gettarne a terra altri tre.

Disgraziatamente, nel vibrare quel supremo colpo, scivolò sul ghiaccio e cadde. Prima che avesse avuto tempo di rimettersi in piedi, gli altri, aiutati da sette od otto guardiani giunti di corsa sul luogo della lotta, gli si gettarono nuovamente addosso e l’oppressero, malgrado la sua disperata resistenza.

Quando l’ispettore lo vide legato e ridotto all’impotenza, gli si appressò, dicendogli con tono beffardo:

– Non ve lo avevo detto, che vi avrei fatto scorticare, colonnello Wassiloff, ex-nichilista?... Fra tre giorni avrò l’onore di farvi somministrare venticinque colpi di knut.

Il colonnello volse sul miserabile un cupo sguardo, accompagnato da questa parola:

– Vigliacco!...

– Conducetelo in prigione, – comandò l’ispettore.

– Un momento, furfante, ci siamo anche noi, – disse una voce.

Tutti si volsero: lo studente e l’ingegnere erano usciti dal pozzo e venivano a farsi arrestare per dividere la sorte del loro compagno.

– Coraggiosi amici!... – esclamò Sergio, commosso.

– Gli eroi da strapazzo!... – esclamò beffardamente l’ispettore. – Benvenuti, birbanti!... Faremo lavorare lo knut anche sulla vostra pelle.

– È il vostro mestiere, – disse Iwan, con disprezzo. – Incatenateci.

Pochi minuti dopo i tre disgraziati prigionieri venivano rinchiusi in una cella del grande magazzino della miniera, in attesa del loro giudizio.

L’indomani però, il colonnello, nello spezzare il pane nero, recato da un carceriere, vi trovava dentro, abilmente nascosto, un pezzetto di carta accuratamente arrotolato, sul quale stava scritto in inglese:

«Maria Federowna è qui e si veglia su di voi.»

«V.B.»