Gli orrori della Siberia/Capitolo XL – La punizione del traditore

Capitolo XL – La punizione del traditore

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Capitolo XL – La punizione del traditore
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Capitolo XL – La punizione del traditore


Udendo la voce del fiero capo, i cavalieri che si tenevano immobili lungo la via che conduceva alla steppa, pronti a chiudere il passo a tutti, s’avanzarono al piccolo trotto e vennero ad ammassarsi dinanzi alla piccola truppa.

Erano almeno trecento, tutti splendidamente montati e armati di archi, di fucili, di picche, di scimitarre e di mazze d’acciaio.

Quei fieri figli del deserto indossavano dei costumi molto disparati e non meno pittoreschi.

Alcuni erano vestiti di pelli di fiere che davano loro un aspetto terribile; altri invece indossavano delle casacche ampie di grossa tela azzurra e calzoni larghissimi adorni di bottoni e non pochi sul capo portavano degli elmetti di ferro che contavano forse qualche diecina di secoli.

Il capo di quegli squadroni si fece innanzi e disse all’amico dei russi:

– Tu hai fatto appello alle tribù del deserto e noi siamo venuti. Comanda e noi ti seguiremo. È vero che il tuo bestiame ti è stato predato dai cani della steppa?

– Sì, – rispose l’amico del colonnello.

– È vero che ti sono stati uccisi dodici uomini e quattro donne?

– Anche questo è vero.

– Dente per dente; occhio per occhio; testa per testa. Tale è la legge che impera nel deserto e noi la osserveremo.

– Cosa volete tentare? – chiese il colonnello che temeva di ricadere nelle mani dei suoi nemici.

– Ti ho detto che voglio vendicarmi e riavere il mio bestiame, – rispose l’ospitale capo. – Noi però non vogliamo mescolarti in questa avventura perigliosa. Ti abbiamo liberato, quindi tu devi approfittarne e subito per varcare la frontiera. Ti daremo dieci cavalieri per scorta e ci attenderai nel deserto, di fronte alla torre cinese. Ho da farti una sorpresa.

– Quale?

– Credi tu che l’amico tuo lasci impunito l’infame tradimento del mandarino? No: quell’uomo deve morire perché ha tradito le leggi dell’ospitalità.

– Io vi rinuncio e tale è anche l’intenzione dei miei compagni.

– Noi però non possiamo fare altrettanto. L’offesa recata a te ricade anche su di noi. Addio, mio valoroso amico. Poni in salvo la tua intrepida sorella e aspettaci nel deserto.

– Ah!... No, mio bravo amico, – disse il colonnello. – Tu vai a batterti perciò verremo anche noi e ti aiuteremo con tutte le nostre forze onde riavere il tuo bestiame.

– La vostra compagnia è troppo preziosa per rifiutarla, – disse il nomade. – Non vorrei esporre tua sorella ad un grave pericolo.

– Mia sorella non ha paura; tu lo sai.

– È una valorosa: l’ho veduta or ora alla prova.

– Ma sai tu dove si trova il bestiame?

– I miei uomini lo sanno.

– Allora affrettiamoci. I cosacchi possono radunarsi e piombarci addosso.

– Non li temiamo, anzi li desideriamo. Nomadi del deserto: avanti!

La colonna si mise subito in marcia, prendendo una via abbastanza larga che conduceva ai quartieri orientali della città.

Fino a quel momento nessun cosacco era comparso. Probabilmente se ne trovavano pochi a Charazainsk e anche quei pochi dormivano della grossa o si trovavano in perlustrazione verso la frontiera cinese.

Quella grossa banda in breve giunse ai quartieri orientali e si arrestò dinanzi ad un vasto recinto, racchiudente nel centro un fabbricato assai basso, costruito in legno.

– È là che si trova il nostro bestiame, – disse il capo al colonnello.

– Sarà però guardato dai cosacchi.

– Certamente.

– Dovremo venire alle mani!

– Tanto meglio.

Ordinò ai suoi uomini di circondare il recinto, poi col colonnello, Iwan ed i loro compagni s’avvicinò ad una campana che si vedeva sospesa ad un palo e la percosse fortemente col calcio del fucile.

Udendo quel tocco sonoro, la porta del fabbricato si aprì e comparvero due cosacchi armati. Vedendo quella numerosa banda di cavalieri, diedero il chi vive, puntando le armi.

– Aprite!... – comandò il capo dei khalkhas, con voce minacciosa.

– Chi siete? – chiese uno dei cosacchi.

– Nomadi del deserto.

– Cosa volete e chi vi ha autorizzati a entrare in Charazainsk in così grosso numero?...

– L’autorizzazione ce la siamo presa noi e basta.

– E volete?

– Il bestiame che i tuoi compagni ci hanno predato.

– Ebbene, prendilo!...

Due colpi di fucile rimbombarono simultaneamente e uno dei nomadi cadde.

Un urlo di furore scoppiò fra i figli del deserto.

– Avanti miei prodi!... – tuonò il capo.

In un baleno i nomadi balzano a terra, sfondano il recinto, rovesciando, con impeto irresistibile, i pali ormai mezzi fracidi, e si scagliano contro il fabbricato, entro il quale si erano prontamente rifugiati i due cosacchi.

Una scarica nutrita parte dalle finestre. Altri nomadi cadono, ma gli altri non si arrestano e danno valorosamente l’assalto.

La porta è sfondata, le pareti cadono come sotto l’urto possente delle onde in furore e i nomadi entrano, sparando all’impazzata.

I quattro cosacchi che difendono l’edificio, in meno che lo si dica cadono sotto i colpi degli invasori e le loro teste vengono infitte sulle picche di quattro cavalieri.

Il bestiame che era stato radunato in un’ampia scuderia laterale venne fatto uscire e spinto al galoppo verso la steppa, da una cinquantina di cavalieri.

Gli altri divisi in tre bande proteggevano la ritirata.

– Andiamo, lesti! – grida il capo. – Questi spari faranno accorrere tutti i cosacchi di Charazainsk e fors’anche i distaccamenti scaglionati lungo la frontiera.

– Andiamo subito nel deserto? – chiese il colonnello.

– E senza perdere tempo, – rispose il capo.

– Non verremo inseguiti?

– È probabile. Mi pare di udire dei cavalli galoppare verso la città.

– Che siano accorsi i cosacchi della frontiera.

– O quelli che perlustravano la steppa? – si chiese il khalkha, con una certa inquietudine. – Sono certo di venire inseguito. Ah!... Udite?

Il colonnello tese gli orecchi e udì, verso il centro della città, il galoppo pesante di numerosi cavalli.

– Sì, vengono, – disse.

– Se non avessimo il bestiame, vorrei farli correre, – disse il capo dei nomadi. – Fortunatamente siamo in tale numero da assaltare anche la città, se lo volessimo. M’inquietano solamente i drappelli scaglionati lungo la frontiera. Se possono radunarsi prima che noi giungiamo sul territorio cinese, ci daranno molto da fare. Ohe!... Attenti!... Ecco i cosacchi!...

Sulla via principale di Charazainsk si vedevano galoppare numerosi cavalli i quali si avanzavano rapidissimamente. Alla luce degli scarsi fanali a petrolio luccicavano le lunghe lance dei cavalieri.

– Mettete il bestiame alla corsa, – comandò il capo. – E voi altri stringete le file e preparatevi a caricare. La vittoria non sarà difficile a guadagnare.

I cosacchi arrivavano al galoppo. Non erano più di due dozzine; però si preparavano ad attaccare con slancio disperato.

Vedendo i nomadi della retroguardia arrestarsi, proruppero in un assordante hurrah e si slanciarono al galoppo colle lance in resta.

Il colonnello, Iwan, l’ingegnere, Dimitri e l’jemskik che erano armati di fucili a retrocarica li lasciarono avvicinarsi fino a venti passi, poi fecero una salva nel più fitto del gruppo.

Sei cavalli stramazzarono al suolo sbalzando di sella i loro cavalieri e rompendo la carica. Gli altri però non si arrestarono che un solo istante.

Con un nuovo e più selvaggio hurrah rovinarono addosso ai nomadi i quali li aspettavano a piè fermo, colle scimitarre in pugno.

L’urto fu tremendo, ma l’esito non doveva essere dubbio. I cosacchi, nonostante il loro valore furono in un baleno avviluppati, rotti e sciabolati senza misericordia dagl’intrepidi figli del deserto.

Solamente dieci o dodici riuscirono ad aprirsi un varco ed a fuggire a briglia sciolta verso la città e per la maggior parte feriti.

Durante quella carica il bestiame, vigorosamente frustato dai guardiani, aveva di già attraversato la piccola steppa e si era cacciato nella gola che doveva condurlo al di là della frontiera.

Onde evitare una sorpresa, parecchi cavalieri si erano spinti sui due versanti e non avevano trovato alcun cosacco sulle vicine colline.

Il grosso, respinti gli assalitori, si era affrettato a raggiungere i compagni dell’avanguardia, cacciandosi pure entro quella gola selvaggia.

– Pare che i cosacchi della frontiera dormano, – disse il colonnello, al capo dei nomadi.

– Purché non ci aspettino all’uscita della gola, – rispose il khalkha. – Quei furfanti sono astuti come i lupi delle steppe. La loro tranquillità, invece di rendermi sicuro, m’inquieta non essendo probabile che non abbiano udito le nostre scariche.

– Io credo invece che siano corsi a Charazainsk, – disse l’ingegnere.

– Sarebbe una vera fortuna per noi, – disse il nomade. – Almeno ci lascerebbero il tempo di compiere la nostra vendetta.

– Non sei ancora contento? – chiese il colonnello.

– No, – rispose il nomade. – Il mandarino cinese ha tradito le leggi dell’ospitalità e deve morire.

– Ti ho detto che rinuncio.

– Tu puoi farlo, noi no.

– Ti attirerai la collera delle autorità mongole.

– Noi ce ne ridiamo del governo cinese. Siamo i figli del deserto e non riconosciamo altra autorità che quella dei nostri capi.

– Fa come vuoi adunque, – concluse il colonnello.

In quel momento l’avanguardia giungeva all’uscita della gola. Ancora pochi passi ed i nomadi non avrebbero avuto più nulla a temere da parte dei cosacchi, perché al di là si trovavano i pali indicanti il confine degli immensi territori dello Czar.

Prima di avventurarsi in quell’ultima stretta, i nomadi lanciarono alcuni cavalieri a destra ed a sinistra per perlustrare le fitte macchie di abeti e di larici, poi spinsero innanzi il bestiame. Nessun allarme venne dato dagli esploratori. Certamente i posti di guardia della frontiera, invece di occupare subito le colline, si erano diretti su Charazainsk onde accorrere in aiuto di quella piccola guarnigione.

– La fortuna è con noi, – disse il capo dei nomadi, al colonnello. – Voi ormai siete salvi e più nessuno oserà minacciarvi fra le sabbie dei nostri deserti.

– Capo, – disse il colonnello, con voce commossa. – Come devo ricompensare la tua amicizia e la tua devozione?

– Ti ho già detto che l’ospitalità non si paga.

– È vero, nondimeno spero che accetterai un regalo.

– Questo è affare tuo, – rispose il nomade, sorridendo. – Di ciò parleremo più tardi. Ora dobbiamo punire il traditore che ha disonorato la lealtà della razza nostra.

Alla loro destra, sull’alto della collina, si vedeva giganteggiare fra le tenebre la vecchia torre cinese.

Non vi era che da salire l’altura per giungere alla sua base.

Il capo dei khalkhas osservò attentamente il terreno, poi diede alcuni ordini.

Pochi istanti dopo cinquanta cavalieri si staccavano dal grosso della truppa, incolonnandosi su di un sentiero che saliva serpeggiando fino alla cima della collina.

– Basteranno per costringere alla resa quei poltroni, – disse il capo. Poi volgendosi verso Maria Federowna che si trovava a fianco d’Iwan, le disse:

– Andrete innanzi col grosso della banda e ci aspetterete alle nostre jurte. Voi siete la donna più valorosa che io abbia incontrato finora, ma non voglio farvi assistere alla punizione del traditore.

– Fate grazia a quello sciagurato, – disse Maria.

– È impossibile, signora, – rispose il khalkha, con accento deciso. – Se voi chiedeste le mie armi, i miei cavalli, i miei armenti, ve li darei, ma non posso darvi la vita di quel traditore. Chi tradisce l’ospitalità deve morire e il mandarino morrà prima che spunti il sole, poiché i suoi occhi non sono più degni di veder la luce. Addio, signora: la nostra assenza sarà breve.

Fece cenno a quattro cavalieri di mettersi a disposizione della valorosa giovane, poi col colonnello, Iwan, l’ingegnere e Dimitri, raggiunse la colonna che si era già messa in marcia salendo i primi scaglioni della collina.

Nella torre tutto era silenzio, però un lumicino brillava entro una delle più alte finestre e quello indicava che i cinesi, compiuto il tradimento, erano ritornati nella loro semi-diroccata fortezza e che forse vegliavano, temendo qualche pessimo tiro da parte dei nomadi che sapevano alleati dei fuggiaschi.

Ed infatti i cavalieri non erano per anco giunti sulla spianata, quando sul terrazzo fu veduto apparire un soldato munito di una lanterna. Quella sentinella doveva essersi accorta dell’avvicinarsi di quella banda di cavalieri.

Poco dopo un grido ruppe il silenzio che regnava sulla cima della collina.

– Chi vive? – aveva gridato il cinese.

Il capo dei khalkhas non si degnò nemmeno di rispondere.

La medesima domanda si ripeté con un tono più minaccioso, poi uno sparo rintronò destando l’eco della gola sottostante, seguito subito dal ben noto miagolìo d’un proiettile.

– Lasciamoli sparare, – disse il capo, al colonnello. – Sono così maldestri bersaglieri che le loro palle non ci toccheranno.

– Prenderemo d’assalto la torre?

– Non ne vale la pena. Quando i cinesi si vedranno circondati si arrenderanno.

– E poi l’esplosione ha aperto una breccia abbastanza ampia da permetterci d’entrare, – disse Iwan. – I cinesi non devono aver avuto il tempo di costruirla.

– Entreremo per di là.

– Badate che ci sono due cannoni sulla terrazza, – disse Dimitri.

– So quanto valgono, – rispose il capo dei nomadi, ridendo. – Il mandarino ha venduto alle nostre tribù la polvere, quindi non so con che cosa potrebbe caricarti.

– E poi sono in così pessimo stato che scoppierebbero al primo colpo, – aggiunse l’ingegnere.

Mentre scambiavano quelle parole, il presidio della torre, allarmato dalle grida della sentinella e dallo sparo, si era radunato sulla terrazza.

Si componeva del mandarino e di sette uomini armati di fucili vecchissimi che dovevano fare più fracasso che danno, specialmente in mano a quei cattivi tiratori.

Vedendo i khalkhas apparire sull’altipiano, il mandarino si affacciò al parapetto, gridando:

– Che nessuno si avanzi o farò tuonare i cannoni e vi farò sterminare tutti.

– Ehi, vecchio gufo, è inutile che ti sfiati, – disse il capo dei nomadi. – Dei tuoi cannoni ce ne ridiamo.

– Cosa volete da me?

– Che tu ti arrenda.

– Un mandarino non si arrende.

– Allora noi verremo a prenderti. Soldati!... Fuoco su quei predoni! – urlò il comandante.

Il suo ordine non ottenne risposta, pel semplice motivo che i suoi prodi soldati, approfittando del momento in cui egli parlamentava, se l’erano svignata.

Vedendosi solo, il disgraziato capì di esser perduto.

– Vili! – gridò. – Vi farò tagliare gli orecchi!...

– Sta zitto, vecchio gufo!... – tuonò il capo dei khalkhas. – Scendi!...

– Preferisco dar fuoco alle polveri e seppellirmi fra le rovine della torre.

– La polvere ce l’hai venduta fino dall’anno scorso. Lascia le inutili chiacchiere e vieni a vedere le persone che qui abbiamo condotte.

– Chi sono?...

– Gli uomini che tu hai tradito, miserabile!...

Il mandarino cacciò fuori un urlo di terrore.

– Infami!... – urlò.

Alcuni khalkhas, approfittando della breccia aperta dall’esplosione, erano già entrati, senza occuparsi dei soldati che dovevano essersi nascosti in qualche sotterraneo, salirono rapidamente sulla terrazza e acciuffarono il traditore, trascinandolo giù dai gradini.

Quando giunse sulla spianata, il disgraziato era più morto che vivo.

Vedendo dinanzi a sé gli uomini bianchi che aveva traditi, cadde sulle ginocchia gridando:

– Grazia!... Grazia!...

Il colonnello stava per aprire le labbra per chiederla ai nomadi, ma il capo khalkhas, con un gesto, gli impose silenzio.

– Vecchio gufo, – disse, – tu hai tradito l’ospitalità quindi morrai.

– Grazia!... – ripeté il miserabile.

– Eccola, – rispose il capo.

Rapido come il lampo aveva estratta la scimitarra, levandola in alto. La larga lama descrisse un molinello poi si abbassò.

La testa del traditore, staccata di colpo da quel tremendo fendente, rotolò al suolo, mentre un getto di sangue spumoso sfuggiva, a rapide pulsazioni, dal tronco decapitato.

– Che il cranio di questo infame venga gettato ai lupi della steppa, – disse il capo. – Così morranno tutti coloro che tradiranno le sacre leggi dell’ospitalità.

Poi volgendosi verso i suoi amici bianchi, aggiunse:

– Voi siete vendicati e liberi. I figli del deserto hanno compiuto il loro dovere!...

In dieci minuti i fuggiaschi giunsero nella steppa, senza aver fatto nessun altro incontro e alle prime luci dell’alba si trovavano sani e salvi al di là della frontiera cinese, al sicuro dagli attacchi della polizia siberiana.