Gli orrori della Siberia/Capitolo XIV – L'inferno della Siberia

Capitolo XIV – L’inferno della Siberia

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Capitolo XIV – L’inferno della Siberia
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Capitolo XIV – L’inferno della Siberia


Erano giunti sull’orifizio del pozzo, bocca immensa, circolare, che spariva nelle viscere della terra con degli strani bagliori, dai riflessi rossastri, proiettati da una lunga fila di fumose lampade collocate sui pianerottoli d’una interminabile scala.

Fra il denso polverìo, che sfuggiva ad ondate, oscurando talora completamente la luce delle lampade e la luce esterna, si udivano degli strani fragori. Erano colpi sordi che pareva provenissero da lontane gallerie, degli scricchiolii che parevano prodotti dall’urto di punte d’acciaio, un ronzio cupo come di macchine giranti, poi un vociare rauco, alternato a imprecazioni ed a qualche urlo acuto, urlo di dolore, strappato forse a qualche sciagurato da un colpo di staffile.

Pareva che laggiù, fra quella tetra oscurità e fra quel polverio, si agitasse una folla di dannati.

Il colonnello ed Iwan si erano arrestati sul primo gradino di quella interminabile scala, col cuore stretto da un’angoscia che non sapevano vincere, malgrado fossero preparati a tutto, e colla fronte bagnata d’un freddo sudore.

– Ma questo è un inferno, – aveva detto lo studente, retrocedendo.

– Sì, – aveva risposto Sergio, con voce tetra, – l’inferno dei forzati.

– Scendete, – disse il poliziotto.

– Un momento... – disse Iwan. – Bisogna bene prepararsi a scendere all’inferno.

– Se non ti sbrighi ti farò gettare giù, così farai più presto ed eviterai i preparativi.

– Che il diavolo, tuo patrono e amico, ti porti nel vero inferno.

– Scendiamo, – disse il colonnello, per troncare il diverbio.

E si misero a scendere fra pareti di rocce di colore sanguigno, che le lampade a gran pena rischiaravano, arrestandosi di tratto in tratto sui pianerottoli per dare il passo ai forzati che salivano portando la terra aurifera o lo stagno, essendo quella miniera pure ricca di questo metallo che sprigiona terribili esalazioni arsenicali.

Di passo in passo che scendevano, i fragori, dapprima confusi, si distinguevano più nettamente. Si udivano i trapani intaccare e forare, colle loro punte metalliche, le rocce; i picconi battere e ribattere le pietre entro le oscure gallerie; il cigolare dei piccoli carri scorrenti sulle rotaie e che dalle più lontane cave trasportavano i minerali fino alla base della scala; il sordo tuonare delle mine che si propagava con paurosi boati, di caverna in caverna, di corridoio in corridoio, destando tutti gli echi della miniera; le grida dei forzati, il fragore delle loro catene, le imprecazioni, i comandi e le minacce dei guardiani ed il sibilare delle fruste dei guardia-ciurma.

Scesi cinquecento metri, i due prigionieri, semi-storditi da quei fragori, semi-soffocati dal polverone e dalle emanazioni velenose dello stagno, giungevano in fondo alla miniera.

La luce del pozzo non giungeva più fino in fondo. Fra l’incerto chiarore di lampade fumose sospese alle vôlte o cacciate in certi vani delle pareti, i due prigionieri videro una fuga di gallerie basse, che si perdevano nelle viscere della terra; poi, confusamente, attraverso al polverone, dei trapani giganteschi che traforavano le rocce: con sordi scricchiolii, poi degli uomini semi-nudi, luridi, colle lunghe barbe incolte, i capelli arruffati, i lineamenti sparuti, angolosi, i petti magri che mostravano le ossa, aggirarsi fra il fumo delle lampade e la polvere, con un tintinnìo di catene, curvi sotto dei grandi panieri pieni di minerale e di terra, ed agli angoli delle gallerie videro pure, con un fremito, dei guardiani armati di fruste e dei cosacchi armati di fucili.

Di quando in quando, qualche frusta s’alzava, fischiava in aria e cadeva, con sordo rumore, sul dorso di qualche disgraziato e fra tutti quei fragori echeggiava un lungo urlo di dolore accompagnato da una imprecazione.

Il colonnello e lo studente si erano arrestati, in preda a una nausea, ad un profondo disgusto e ad un vero terrore, chiedendosi se erano svegli o se sognavano. Una voce ruvida li scosse.

– Al lavoro!... – aveva gridato un guardia-ciurma, avvicinandosi a loro colla frusta in aria.

– Chi? – chiese Iwan, rabbrividendo.

– Voi, nuovi arrivati. Prendete quei picconi e seguitemi, o vi farò danzare a suon di frusta.

A quella frase brutale, accompagnata dal sibilo acuto della frusta, il colonnello e lo studente si guardarono in viso l’un l’altro e, le loro mani si strinsero, per non prendere a scapaccioni l’aguzzino.

Si frenarono; però il colonnello, rizzando l’imponente statura e fissando sul guardiano due occhi che mandavano cupi lampi, gli disse con voce pacata, ma tagliente come la lama d’un coltello:

– Bada che non sono né un ladro, né un assassino; sono il colonnello Sergio Wassiloff e la tua frusta non mi fa impallidire. M’intendi tu?

Il guardiano, sotto lo sguardo minaccioso di quel gigante, abbassò lo scudiscio e volse le spalle, ripetendo, ma su altro tono:

– Al lavoro; è l’ordine.

Il colonnello e lo studente presero i picconi e lo seguirono in fondo ad un corridoio, dove lavoravano alcuni forzati fra i quali alcuni galeotti, ladri, assassini o peggio.

La vôlta era tanto bassa, che il colonnello non poteva tenersi in piedi, pure non protestò ed unitamente allo studente si mise al lavoro, intaccando le rocce, attraverso alle quali si nascondevano i filoni del metallo aurifero. Il guardiano si era collocato in mezzo alla galleria, colla frusta fra le gambe, senza perderli d’occhio.

– E questa dovrebbe essere la nostra vita, – disse lo studente in inglese, che il colonnello pure conosceva e che certo nessun altro poteva comprendere laggiù. – Non durerà sei mesi, ve lo assicuro.

– Vi credo, – rispose Sergio, che spaccava le rupi con vigore sovrumano, come se da lunga pezza fosse abituato al lavoro del piccone. – Pure si può abituarsi.

– Si brucia dal caldo, quaggiù. Dobbiamo essere ad una grande profondità.

– A cinquecentosettanta metri, mi hanno detto.

– Questa miniera deve essere una delle più profonde.

– Ve ne sono ben di maggiori, Iwan, specialmente quelle di carbon fossile. In Inghilterra ve n’è una, quella di Roschidge che tocca i 2419 piedi.

– Deve fare caldo in quella, se la temperatura aumenta di tre gradi ogni cento metri di profondità.

– I minatori lavorano quasi nudi, poiché il calore raggiunge i novantaquattro gradi Fahreinheit ossia trentadue gradi e mezzo Réaumur. Un’altra però, che si lavora pure in Inghilterra, nella Cornovaglia, è più calda in causa d’una sorgente d’acqua bollente ed il calore raggiunge i quaranta gradi Réaumur.

– E come possono resistere i minatori?

– Lavorano tre sole ore ogni dodici, cambiandosi di quindici in quindici minuti.

– Ditemi, colonnello, è ricca questa miniera?

– Così si dice.

– Finora l’oro non si trovava che nei terreni d’alluvione; ora si trova anche in mezzo alle rocce, ad una grande profondità?

– Sì, Iwan, si trova anche nelle rocce di sedimento stratificato con frammenti di quarzo, come in questa miniera.

– Ma il lavoro deve essere duro per estrarre questo minerale.

– È vero, Iwan, e cominciano a saperlo le mie mani.

– Le mie sanguinano di già, colonnello. Se non fosse per la parola data, getterei il piccone sul capo di quel furfante di guardiano.

– Pazienza, Iwan. Verrà il giorno della libertà.

– È presto, – disse una voce presso di loro, pure in inglese. – Ve lo dico io, colonnello.

Iwan e Sergio, udendo quelle parole si eran voltati di colpo, sorpresi e spaventati. Un uomo dalle spalle larghe, con una lunga barba arruffata, che gli copriva quasi tutto il viso, e due occhi neri e vivaci, stava presso di loro occupato a radunare in un mastello i frammenti di roccia che aveva demolito.

– Chi siete voi? – gli chiese Sergio, con voce minacciosa. – Una spia forse?

– Un forzato come voi, – rispose l’altro, con voce tranquilla, senza interrompere il lavoro, per non attirare l’attenzione del guardiano.

– Ed ascoltavate i nostri discorsi?

– Involontariamente, colonnello.

– Colonnello!... Cosa ne sapete voi?

– Ho udito il vostro compagno darvi questo titolo, e ve lo do anch’io. Del resto, il vostro portamento è quello d’un soldato e non si può ingannarsi.

– E chi siete voi?

– Una volta ero l’ingegnere Alexis Storn, finlandese, ora non sono che l’841, – rispose il forzato, con profonda amarezza.

– Un nichilista forse?...

– L’avete detto.

– E voi dite, ingegnere?...

– Che dalla galleria abbandonata una qualche notte potremo passare e che potrete approfittare, se lo vorrete.

– E non pensate che io potrei essere una spia e che potrei tradirvi?

– Voi?... Un colonnello? Eh via, signore!... Volete scherzare?

– Grazie della vostra fiducia, ingegnere. Non sarà certamente il colonnello Wassiloff, né lo studente Iwan Sandorf che vi tradiranno.

– Anzi spero che approfitterete del passaggio da me scoperto. Pazienza qualche mese o due, poi ce ne andremo da questo inferno.

– Vi sono altri forzati che conoscono il vostro segreto?

– Sì, tre politici ed un galeotto.

– Non vi tradirà il galeotto?

– No, perché ha una moglie che adora e dei figli in Russia ed anela la libertà più di noi. È un disgraziato che una sera, in una rissa, ebbro di vodka, ha ucciso due uomini che l’avevano insultato.

– E dove sono questi compagni?

– Che numero portate voi, colonnello?

– L’844 ed il mio compagno l’845.

– Avete fortuna, colonnello. I nostri numeri precedono i vostri, quindi ci sarete compagni di cella; vi era posto ancora per tre e vi uniranno a noi.

– Per fuggire bisognerà che qualcuno spezzi le nostre catene.

– Ci penserò io a tagliarle. Ho potuto appropriarmi delle buone lime e le ho nascoste in un crepaccio profondo che io solo conosco. Al momento opportuno andrò a prenderle. Addio, devo portare il minerale al carrello.

L’ingegnere sollevò la pesante secchia, se la mise sulle spalle e s’allontanò con passo vacillante, scomparendo sotto le oscure gallerie.

– Ah! colonnello!... – esclamò Iwan. – Mi pare ora di respirare meglio di prima!... Un mese, due, passano presto per un uomo che deve riacquistare la libertà.

– Zitto, Iwan, al lavoro, – disse Sergio. – Il guardia-ciurma ci tiene d’occhio.

Sei ore dopo, affranti dal lungo e durissimo lavoro, affamati, sporchi di polvere e madidi di sudore, venivano condotti in una cella sotterranea, scavata nella roccia, chiusa da un solido cancello di ferro e provvista di un piccolo tavolato.

Era la loro camera da letto. L’ingegnere, i tre politici ed il galeotto vi erano di già e russavano sonoramente.