Gli orrori della Siberia/Capitolo XIII – La miniera d'Algasithal
Questo testo è completo. |
◄ | Capitolo XII – Attraverso la Siberia | Capitolo XIV – L’inferno della Siberia | ► |
Capitolo XIII – La miniera d’Algasithal
Trent’anni or sono Irkutsk non era che una borgata e cinquanta anni fa un semplice gruppo di capanne di tronchi d’albero, abitate da pochi buriati.
Oggi, mercè le cure e l’attività del governo russo, è diventata la più bella e la più grande città della Siberia intera.
Situata a cinquantamiladuecento verste da Mosca, sorge alla confluenza dell’Irkut e dell’Angara, a circa ottanta verste dal lago Baikal, su di un argine assai alto, eretto sulla sponda destra del fiume.
La città oggi è mezza bizantina, un po’ europea e mezza cinese. Ha vie spaziose fornite di marciapiedi, canali ampii, giardini spaziosi, viali bellissimi di betulle enormi, case di mattoni a più piani, case di legno, magazzini che servono di deposito alle mercanzie provenienti dalla Cina e dall’Europa, due ponti giranti che si aprono su palafitte, pel passaggio delle barche, caffè, alberghi che di poco la cedono a quelli di Mosca e di Pietroburgo; un ginnasio ove s’insegnano, fra altre lingue, il cinese ed il giapponese, una scuola militare e marittima, un teatro, fabbriche, distillerie, caserme, un grandioso palazzo di pietra pel governatore e l’immancabile carcere pei forzati e per gli esiliati.
La sua popolazione, che ascende ora a cinquantamila anime, è un miscuglio di russi, di siberiani, di buriati, di tongusi, di mongoli ed esiliati, non essendovene, di questi, mai meno di cinquecento.
È una città destinata ad un grande avvenire per la sua felice posizione e per la sua vicinanza alla frontiera cinese ed il governo moscovita, che lo sa, nulla trascura per ingrandirla, per abbellirla e per attirare le popolazioni delle vicine province.
La catena vivente, superate le alture, discese attraverso la vallata dell’Angara, a passo lento, guardando con occhi tristi la capitale siberiana.
Era di là che doveva incominciare la tremenda vita delle miniere: terminavano una marcia eterna, ma venivano sepolti vivi entro i pozzi, in piena balìa di chissà quali spietati aguzzini. Non avrebbero, no, trovato un secondo capitano Baunje per reprimere la ferocia dei guardiani, e chissà quanti di loro non dovevano tardare a fare conoscenza coll’infame knut e forse morire sotto quei tremendi colpi.
– Ci siamo, – disse Iwan, volgendosi verso il colonnello. – Fra ventiquattro o quarantotto ore cominceremo a mettere in moto i muscoli.
– Al pari degli schiavi, – aggiunse il colonnello con un triste sorriso.
– E ci saranno tutti compagni questi miseri?
– No, Iwan. Ci sono i fortunati.
– Che cosa volete dire?
– Che non tutti sono condannati al duro lavoro delle miniere. I galeotti e gli internati a vita ai lavori forzati andranno a lavorare nelle miniere di Verchne-Udinsk, o di Vercholensk o della valle di Algasithal, ma gli altri, condannati semplicemente all’esilio, rimarranno a Irkutsk.
– Liberi?
– Liberi, ma sottoposti alla sorveglianza della polizia che impedirà loro di fuggire.
– E come vivranno?
– Lavorando, poiché il governo non s’incarica del loro nutrimento. I professori troveranno qualche posto nel ginnasio o daranno lezioni, altri faranno i fabbri, i falegnami, i merciaiuoli, i cacciatori, ecc.
– E noi invece adopreremo il piccone.
– E la carriola.
– Ci crescerà l’appetito.
– Che non soddisferemo mai, poiché là non ci sarà più il capitano Baunje e troveremo la razione assai scarsa.
– Per rendere in cambio oro.
– Sì, Iwan.
– Che ladri!... Ma prenderemo il volo, spero. Che il pellegrino sia già tornato in patria?
– Lo spero se...
– Se?... – chiese lo studente con ansietà.
– Non è morto.
– Anche questa avversità?...
– Chi può dirlo? I lupi possono averlo mangiato, qualche orso può averlo sbranato, i tartari ucciso e saccheggiato.
– Mi fate venire i brividi, colonnello. E supponendo che sia sano e salvo, quanto impiegheranno per giungere qui gli uomini che invierà vostra sorella?
– Non meno di tre mesi, se non verranno arrestati.
– Dio mio, che pessimista!
– Che volete? Non voglio crearmi illusioni, né darne a voi.
– Ma ci rimarrà il capitano. Non vi ha promesso...
– Sì, su quello possiamo contare, purché ottenga di rimanere a Irkutsk.
– Ancora una speranza perduta?
– Perduta no, forse solo rimandata. L’altra notte, alla mezza tappa, mi ha detto che vi è in marcia un’altra colonna di quattrocento esiliati che deve fermarsi a Jenisseisk e che temeva di essere mandato colà. Al suo ritorno potremo però contare su di lui.
– Speriamo, – concluse Iwan.
Entravano allora nella capitale siberiana dalla porta Bolkaia, fra una fitta siepe di curiosi attirati colà dallo strepito delle catene e dal fracasso dei cavalli e delle carrette. Nessuno però si permetteva di deridere o di maltrattare quei disgraziati: avevano imparato, dai contadini siberiani, se non a compiangerli, almeno a rispettarli.
La colonna attraversò la lunga via della Bolkaia che mette capo all’Angara, e fu rinchiusa nella vasta prigione, dove quei miseri, per la prima volta dopo tanti mesi, poterono finalmente coricarsi senza contendersi il posto.
Fatto l’appello, si constatò che la colonna, dal suo concentramento a Tiumen, aveva perduto centotrenta uomini fra galeotti e politici, ottanta donne e centosettanta fanciulli, uccisi dai disagi, dal freddo, dalle malattie e dalla disperazione. Sessanta avevano posto fine alla loro dura ed angosciosa esistenza, spaccandosi il cranio contro le pareti delle carceri.
Nessuno si occupò dei morti: i loro nomi vennero cancellati ed i vivi, condannati ai lavori forzati a vita, vennero divisi per drappelli con destinazione alle miniere di Verchne-Udinsk, di Algasithal e di Vercholensk.
Il giorno seguente, prima dell’alba, il capitano Baunje, col pretesto di passare in rivista i suoi prigionieri, s’introduceva nella cella occupata dal colonnello e da Iwan. Aveva avuto la precauzione di farli collocare soli, per poter loro parlare senza avere intorno delle spie.
– Vengo a darvi l’addio, – diss’egli, con voce triste, tendendo le mani a Sergio e allo studente.
– Ripartite? – chiesero i prigionieri, impallidendo.
– Sì, amici, ritorno fra le nevose steppe. Mi è stato impossibile ottenere di fermarmi alcuni mesi qui e mi rimandano a Jenisseisk. Ho avuto il torto di condurre qui la colonna in troppo buono stato, in paragone a quelle che conducono gli altri, che lasciano mezzi prigionieri disseminati sulla Wladimirka, preda ai lupi.
– È una prova di grande stima, capitano, e voi reprimerete altri abusi e risparmierete delle centinaia di esistenze, – disse il colonnello.
– Lo spero, ma voi? Se fossi rimasto qui vi sarei stato molto utile, avrei cercato di rendervi meno duro il lavoro delle miniere e vi avrei difeso contro le infamie e le atrocità dei guardiani.
– Siamo pronti a sopportare tutte le torture e poi... non tornerete voi?
– Sì, spero fra due mesi di ricondurre qui la colonna e di mettere allora in esecuzione il mio piano che vi darà... la libertà, – disse con un soffio di voce. – Durante la mia assenza non commettete imprudenze, sopportate stoicamente i tormenti e le angosce, poiché qui non avete protettori. Ho parlato di voi, colonnello, al governatore, per cercare di migliorare la vostra condizione, ma non si è degnato nemmeno di rispondermi. Siete imputato di nichilismo ed i funzionari russi non perdonano a tale setta.
– Sapremo resistere, capitano, – disse lo studente.
– Come sempre, è vero, Iwan? – disse il colonnello, sorridendo. – Vi ribellate ad ogni istante.
– Mi frenerò, ve lo prometto, colonnello.
– Addio, amici, – disse il capitano, porgendo la destra. – Attendete fidenti il mio ritorno, poi mi dedicherò interamente a voi.
– Una parola ancora.
– Parlate, colonnello.
– Andremo alle miniere di Vercholensk?
– No, vi hanno destinati a quelle di Algasithal, per potervi meglio sorvegliare, e partirete fra mezz’ora. Ancora una volta, addio.
Strinse le loro destre ed uscì vivamente commosso.
Mezz’ora dopo, come egli aveva detto, Sergio e lo studente venivano fatti salire in una slitta in compagnia di due altri prigionieri, due galeotti, che sul volto portavano l’infame stigmate del carnefice e partivano per le miniere di Algasithal, scortati da quattro soldati del reggimento Amur e da un poliziotto.
Risalirono di galoppo la vallata dell’Angara, passando attraverso ad aspre colline coperte di folte selve di betulle, di pini e di larici, che si arrampicavano su per i dirupi, fino sulle più alte vette della grande giogaia dei Sajan, e tre ore dopo giungevano su di una specie d’altipiano, rinserrato fra immense rocce tagliate quasi a picco. Colà i prigionieri, non senza un fremito, videro parecchi drappelli di forzati, magri, sparuti, coi lineamenti alterati, le vesti a brandelli e luride, aggirarsi attorno ad un grande fabbricato di tronchi d’albero e parte in muratura, sormontato da due alti camini, dalle cui estremità si alzavano due lunghi pennacchi di fumo nero e denso.
Alcuni guardiani, dall’aspetto arcigno, sorvegliavano quei miserabili colla frusta in mano e la rivoltella alla cintura, bestemmiando e minacciando ad ogni istante.
– Ecco il nostro inferno, – disse il colonnello, con un sospiro.
– Potremo noi resistere? – chiese lo studente, gettando sugli aguzzini un cupo sguardo.
– È necessario, Iwan. Quegli uomini non si farebbero scrupolo veruno a uccidervi a colpi di knut.
La slitta si era arrestata dinanzi al fabbricato che aveva un triste aspetto.
I forzati entravano od uscivano da un ampio cortile, curvi sotto delle grandi ceste ripiene di una terra rossastra o grigiastra, che i guardiani esaminavano con scrupolosa attenzione.
– È terra aurifera, – disse il colonnello, prevenendo le domande d’Iwan.
– Assai ricca?
– Così si dice.
– E ci toccherà trasportarla anche noi?
– Se non ci mandano in fondo alla miniera a lavorar di piccone o ai trapani che traforano le rocce.
– Scendete! – comandò in quell’istante il poliziotto.
I quattro prigionieri obbedirono. Il poliziotto afferrò il colonnello e lo studente per la catena e li condusse in un vasto locale, circondato da alti scaffali che si piegavano sotto il peso di enormi libri.
– Nuovi forzati, eccellenza, – disse il poliziotto.
Un ispettore di polizia, che stava seduto accanto ad una stufa, leggendo beatamente una gazzetta russa, si alzò lentamente, guardò con particolare attenzione i due prigionieri, poi esaminò le carte che l’agente gli porgeva.
– Ah!... Nuovi nichilisti, – diss’egli. – Corbezzoli, un colonnello!... La setta invade adunque i più alti gradi? Fortunatamente c’è posto per tutti in Siberia.
Iwan, dimenticando le promesse fatte, stava per aprire la bocca per rispondere con qualche frase pepata alle parole del ruvido funzionario; ma Sergio, con uno sguardo imperioso, lo fece ammutolire.
– Spogliateli, – proseguì l’ispettore.
Il poliziotto tolse ai due prigionieri il caftano, la giacca, la camicia e la maglia, denudandoli fino alla cintola.
L’ispettore aprì un grosso libro, scrisse alcune righe, poi volgendosi verso i due prigionieri:
– Voi, Sergio Wassiloff, d’ora innanzi porterete il numero 844, e tu, studente nichilista, il numero 845. Bargoff, affiderete questi uomini al guardiano Sitineff; è un uomo che se ne intende di nichilismo e che sa come trattarli. M’avete compreso?
– Sì, eccellenza, – rispose il poliziotto.
– Lo avvertirete di tenere gli occhi bene aperti: gli affido due «pericolosi».
– Sì, eccellenza.
– Andate!...
– Una parola, signore, – disse Sergio.
– I prigionieri non hanno diritto di fare interrogazioni, – rispose ruvidamente l’ispettore.
– Signore!... Sono il colon...
– Voi non siete che il numero 844.
– Ah! è vero, – disse Sergio coi denti stretti, frenandosi con uno sforzo sovrumano. – Maledizione!...
– Silenzio! – tuonò l’ispettore.
– Ah! per Iddio!... – proruppe il colonnello con una voce così formidabile da far tremare i vetri.
– Silenzio, vi ripeto!...
– Volete che mi mozzi la lingua?... – chiese Sergio con ironia.
– Se non ve la terrete dentro i denti, vi farò calmare con un po’ di knut. Fa bene ai nichilisti.
– Badate che un giorno il colonnello Wassiloff potrebbe diventare libero e ricordarsi di voi.
– Tramate già una fuga!... – esclamò l’ispettore, ridendo ironicamente. – Vi sfido a tentarla. Basta, uscite!...
Il poliziotto gettò addosso ai due prigionieri i caftani, li afferrò per la catena e li trasse fuori.
– Canaglie! – borbottò lo studente, – Ancora una parola ed io strangolavo quel furfante.
– Silenzio, – disse il poliziotto.
– Mille folgori! – gridò Iwan. – Anche tu assumi l’aria d’un pezzo grosso!... La cosa diventa buffa!...
– Qui regna lo knut, giovanotto. Guardati, perché picchia sodo.
– Ed io rispondo a calci, e ti assicuro che picchiano quanto il tuo knut.
– Tacete, Iwan, – disse il colonnello. – Spenderete delle parole inutili. Dov’è la miniera?
– Laggiù, – rispose il poliziotto, indicando un agglomeramento di capanne ed il campanile d’una chiesetta.
– È profonda assai?
– Lo saprete fra poco, – aggiunse l’agente con un sorriso.
Attraversarono uno spazio scoperto, scavato, sventrato dai primi minatori per impadronirsi dei filoni superficiali e dei primi giacimenti di fango dorato o pay–din, come chiamano gli americani lo strato d’argilla e di ghiaia che contiene l’oro, e raggiunsero l’attruppamento di casupole. Colà alloggiavano i guardia ciurma, gli impiegati dell’amministrazione, i soldati, il pope, il medico, e si trovava l’ospedale.
Attraversato quel piccolo villaggio d’aspetto miserabile, si trovarono sull’orlo d’un immenso burrone, colle pareti tagliate quasi a picco ed in fondo al quale s’apriva una nera apertura, in forma d’un grande pozzo. Una polvere rossastra usciva da quell’apertura, avvolgendo una enorme ruota idraulica coperta di stalattiti di ghiaccio, immobilizzata dal gelo, e che si rizzava laggiù come un immane istrumento di supplizio.
Degli uomini, carichi di sacchi contenenti il minerale o la terra aurifera, uscivano senza posa dal pozzo e salivano i gradini tagliati nella roccia, sorvegliati da guardiani armati di fruste e di rivoltelle.
– La miniera, – disse il poliziotto. – Scendiamo!...