Gli orrori della Siberia/Capitolo II – L'«ispravnik»
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Capitolo II – L’«ispravnik»
Il piroscafo era giunto dinanzi ai cantieri e manovrava in modo da accostarsi alla banchina che si protendeva sul fiume, formando una specie di ponte.
Alcuni cosacchi di fanteria, avvolti nei loro grossi pastrani grigi e il villoso colbak calato sugli occhi, per difendersi gli orecchi dal freddo acutissimo che veniva dalle steppe, ormai coperte d’un fitto strato di neve gelata, attendevano il battello, facendo risuonare sul ponte i calci dei loro fucili. Informati senza dubbio del prossimo arrivo di quei due nuovi prigionieri, si erano colà radunati per prestare, all’occorrenza, mano forte ai loro compagni.
– Andiamo, – disse l’ufficiale cosacco, rivolgendosi verso il colonnello ed il suo compagno. – L’ispravnik (capo di polizia) vi attende e non è prudente per voi farlo andare in collera.
– Siamo con voi, – rispose il gigante, con voce tranquilla.
Il piroscafo si era accostato al ponte e l’equipaggio si era affrettato a legarlo ai grossi pali piantati all’estremità.
I cosacchi, ad un ordine del loro capo, circondarono i due prigionieri e li trassero a terra, spingendoli innanzi colla brutalità ormai proverbiale di quei selvaggi abitatori delle steppe del Don.
Essendo l’ora molto mattutina, le vie della città erano ancora deserte o quasi, quindi mancavano i soliti curiosi; solamente qualche tartaro, infagottato nella sua lunga zimarra, col capo coperto da un ampio berrettone di pelle d’orso o di lupo, si vedeva apparire in fondo alle vie, fra la nebbia che calava fitta fitta e fredda sulla città.
Il drappello, ingrossato dai cosacchi che attendevano l’arrivo dei prigionieri, attraversò con passo cadenzato la città bassa, coi fucili in mano per esser pronti a qualunque evento, anche a scaricarli sul colonnello e sul suo compagno, al primo tentativo di fuga o di ribellione, e salirono nel kremlino che, come si disse, oltre la cattedrale, racchiude nella sua cinta il palazzo del governatore, le caserme e le prigioni.
Oltrepassata la cinta difesa da torri dipinte di bianco e con un grande numero di feritoie, e percorsa la grande strada fiancheggiata da giardini e da casette di legno, abitate dagli impiegati dell’amministrazione, in pochi minuti giunsero dinanzi all’abitazione del capo di polizia, che è situata accanto al palazzo del governatore.
Scambiata la parola d’ordine colle due sentinelle che vegliavano dinanzi alla porta, condussero i prigionieri in una celletta di quattro metri quadrati, con una finestra difesa da una duplice e grossa inferriata, che permetteva alla luce di entrare a mala pena, e che per unica mobilia non aveva che un pancone inclinato, il letto dei forzati.
La pesante porta ferrata si chiuse tosto dietro di loro, mentre al di fuori echeggiava sul pavimento il calcio del fucile della sentinella.
– È questa la nostra stanza? – chiese Iwan, girando intorno uno sguardo compassionevole. – Né vetri per difenderci dal freddo, né coperte!... È molto economica l’amministrazione siberiana, colonnello.
– È già molto che fornisca un tetto ai prigionieri. Più tardi, non so se ne avremo sempre uno nelle tappe della Wladimirka.
– Pare che abbiano molta fretta di disfarsi degli esiliati, se lasciano loro prendere delle polmoniti.
– Che importa a loro che vivano o muoiano? Un individuo di meno da sorvegliare.
– Mi nasce un dubbio, colonnello.
– E quale?
– Che le torture degli esiliati siano ben più tremende di quanto si crede in Russia ed altrove.
– Lo saprete più tardi, e vi udrò ben sovente ad invocare la morte come una liberazione.
– Mi fate paura, colonnello. Ma lo czar può permettere tante infamie?
– Chi vi dice che egli lo sappia? La voce dei disgraziati che si martirizzano in fondo alle miniere della Siberia, non oltrepassa le mura del kremlino di Mosca, né quelle del palazzo imperiale di Pietroburgo. Ah!... voi credete...
– Zitto, colonnello.
– Che cosa succede?
– Sì avvicina qualcuno.
– L’ispravnik ci attende, – mormorò il colonnello, emettendo un profondo sospiro. – Resisteremo alle arti diaboliche di quell’uomo?
Degli uomini si erano arrestati dinanzi alla porta, dei cosacchi senza dubbio, poiché si udirono cadere pesantemente, con un lugubre fracasso, i calci dei fucili.
La porta s’aprì, ed un ufficiale dei cosacchi si fece innanzi, chiamando: – Sergio Wassiloff.
Il colonnello impallidì leggermente, ma riprese subito la sua calma.
Strinse la mano al suo compagno di prigione e si fece innanzi, dicendo:
– Sono da voi. Ove mi conducete?
– Dall’ispravnik.
– Andiamo.
Diede un ultimo sguardo al compagno, che pareva in preda ad una viva inquietudine, come se volesse rassicurarlo, poi seguì l’ufficiale ed i quattro soldati che aveva assieme.
Percorso un lungo corridoio, fu fatto entrare in una grande stanza, in un angolo della quale ardeva una stufa monumentale che espandeva un dolce calore. Seduto dinanzi ad un tavolo coperto d’un tappeto verde, stava un uomo sulla cinquantina, di statura alta, di corporatura robusta, coperto da una grande pelliccia di ermellino. Aveva i lineamenti duri, il naso affilato, gli occhi azzurri, ma che avevano dei lampi simili a quelli che manda l’acciaio, e una lunga barba rossa.
Egli contemplò per alcuni istanti, con uno sguardo acuto, il colonnello, poi, con voce che aveva un non so che di metallico, gli chiese, sprofondandosi comodamente nella sua ampia poltrona:
– Il vostro nome?
– Lo sapete già; – disse il colonnello con voce ferma.
– Non importa: è dalla vostra bocca che dobbiamo udirlo.
– Sergio Wassiloff.
– Il vostro grado?
– Colonnello del reggimento Finlandia.
– Che fedele colonnello!...
– Signore!... Voi avete il diritto d’interrogarmi, ma non di offendermi, – disse Sergio, con tono acre.
– E chi credete di essere voi ora?... Non più un uomo, nemmeno un numero, un miserabile esiliato.
– Basta per Iddio!... Signor capo della polizia siberiana!...
– Ah!... ah!... fate il gradasso!... Vi vedremo più tardi, quando vi troverete in fondo alla miniera. Ah!... ah!... Lo knut vi domerà presto, mio bel colonnello.
– Ucciderò l’aguzzino.
– E gli altri uccideranno voi.
– Non temo la morte, io!... L’ho sfidata tante volte in Crimea e qui, sul mio petto, porto ancora le tracce del piombo e del ferro dei nemici della Russia.
– Basta!... La vostra età?
– Trentasei anni.
– Siete nato?
– A Varsavia.
– Ah!... siete polacco!... Non mi meraviglio più.
– Che cosa volete dire?
– Ciò non vi riguarda. Siete ammogliato?
– No.
– Non avete dei parenti?...
Il colonnello Sergio Wassiloff non rispose: una tremenda emozione, che gli alterava i lineamenti, pareva che avesse, tutto d’un tratto, spezzata l’anima di quel valoroso veterano.
– Mi avete udito? – chiese l’ispravnik, con voce stizzita.
– Vi ho compreso, – rispose Sergio, con un tremito della voce.
– Ebbene?...
– A mia volta vi rispondo che ciò non vi riguarda, signore. La mia sola persona deve rispondere ai magistrati dello czar.
– V’ingannate!... Noi dobbiamo sorvegliare i parenti dei forzati.
– Non ho parenti.
– Voi mentite: avevate una sorella.
– È scomparsa da sei mesi.
– Cioè l’avete fatta scomparire.
– Allora cercatevela.
– La troveremo, non dubitate.
– Ma vorreste voi coinvolgerla in questo infame processo?... Vorreste voi tradurla in Siberia?... Lei qui, fra i forzati. Oh!... mai!... mai!... Ella, che mai ha osato alzare un dito contro le leggi del nostro paese!...
– Vi dissi che la si sorveglierebbe e null’altro; nel vostro processo non figura. Ditemi dove si trova; dicendomelo, non farete che migliorare la vostra condizione.
A quelle parole un amaro sorriso contrasse le labbra del colonnello.
– Migliorare la mia condizione! – esclamò egli, con ironia dolorosa. – So cosa vale questa frase, signore, in bocca alle autorità siberiane, che vivono lontane dagli occhi di nostro padre lo czar.
– È un’ingiuria che mi volete scagliare in viso? – gridò l’ispravnik, impallidendo e poi arrossendo. – Badate!..
– Prendetela come la volete, poco mi cale. Ormai so qual è il mio destino e peggiore non potrà diventare.
L’ispravnik parve sorpreso da quel tratto d’audacia; era forse la prima volta che un uomo osava sfidare lui, dinanzi a cui tutti tremavano. Cosa strana però: la sua collera, invece di aumentare, si spense.
– Avete del coraggio, – disse con voce lenta. – Peccato che la giustizia vi abbia colpito; l’esercito di nostro padre lo czar conterebbe un valoroso di più.
Stette zitto per alcuni istanti, poi s’alzò e si mise a passeggiare per la vasta stanza, con passi irrequieti, come se fosse tormentato da un pensiero profondo.
Ad un tratto s’arrestò dinanzi al colonnello, e fissando i suoi occhi acuti in quelli di lui, gli disse, ma quasi con noncuranza.
– Dunque voi siete nichilista?...
Il colonnello trasalì, poi rispose tosto con voce tranquilla:
– Chi ve lo dice?...
– Le carte trasmessemi dal capo di polizia di Riga.
– È vero, mi hanno arrestato e processato sotto quella accusa, però nessuna prova esiste contro di me.
– È stato trovato un manifesto nichilista nella vostra abitazione.
– Non lo nego, ma ciò cosa significa? Forse che io appartengo a quella società?
– Per un soldato dello czar è troppo.
– Io non ho mai detto di appartenere ai nichilisti.
Il capo della polizia crollò il capo come un uomo che non presta fede a quella affermazione e mormorò:
– V’hanno condannato ed in vita.
– Forse che la giustizia non commette talvolta degli errori?...
– La russa?...
– Oh! Più delle altre.
L’ispravnik alzò il capo e socchiuse gli occhi, guardando a lungo il colonnello.
– Ah! lo credete, – disse poi con ironia.
– Sì, signore, la paura del nichilismo l’ha sovente pur troppo accecata.
– Che cosa ne sapete voi? E poi, forse che non ha diritto di colpire, senza badare, tutti coloro che si crede facciano parte di quella setta di miserabili assassini?
– Assassini!... Voi mentite!... – esclamò il colonnello, mentre un’ondata di sangue gli montava in viso.
– To’!... Protestate?... Forse che non sono assassini?
– No; ve ne sono alcuni che sono assassini è vero, ma altri ve ne sono che lottano lealmente per un ideale, lottano per la libertà della Russia, lottano per sfasciare la secolare autocrazia che pesa sul popolo slavo come un collare di ferro.
– Uccidendo, se lo potessero, lo czar, è vero?
– No, signore. I figli della giovane Russia non assassinano. Odiano lo czar, non come uomo, ma come despota; odiano le ingiustizie e le infamie che la polizia russa commette in nome dello czar, e sarebbero ben felici di conservare il loro imperatore.
L’ispravnik, che fino allora era rimasto calmo, tutto d’un tratto mutò. I suoi occhi s’accesero, i suoi lineamenti si alterarono sotto un improvviso accesso di collera, fino allora mal frenata e la sua voce, poco prima tranquilla echeggiò furiosa:
– Miserabile!... – tuonò. – Ti sei tradito!... Sei un nichilista, un infame membro della setta sanguinaria. Fuori i nomi dei tuoi complici!... Fuori i nomi od io...
Sergio Wassiloff, dinanzi a quell’improvviso scoppio di collera, non aveva perduta la sua calma. Egli incrociò tranquillamente le braccia e gettando sull’onnipotente capo della polizia uno sguardo quasi di sfida, gli disse con voce ironica:
– Continuate...
– Saprò strapparveli.
– Provatevi!...
– Mi sfidate?...
– Sì, vi sfido, poiché io non ho complici da denunziare.
– Lo saprò presto. Olà!... introducete l’altro!...
I quattro cosacchi e l’ufficiale che si erano schierati dinanzi alla porta, pronti a scagliarsi sul colonnello, se questi avesse osato ribellarsi, uscirono, mentre l’ispravnik tornava a sprofondarsi nella sua poltrona, sferzandosi rabbiosamente gli stivali con un frustino che teneva in mano.
Pochi istanti dopo i cosacchi rientravano, spingendo brutalmente Iwan. Il giovanotto, che di solito non si spaventava di nulla, impressionato forse di ciò che gli aveva detto poco prima il colonnello o dall’idea di trovarsi dinanzi all’onnipossente capo della polizia, era pallidissimo ed i suoi occhi tradivano le inquietudini dell’anima.
– Tocca a me?... – chiese egli, con voce esitante, inchinandosi dinanzi all’ispravnik.
– Sì, cane d’un congiurato, – disse questi ruvidamente. – Guarda quest’uomo: lo conosci?...