Gli orrori della Siberia/Capitolo III – Il supplizio dell'aringa

Capitolo III – Il supplizio dell’aringa

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Capitolo III – Il supplizio dell’aringa
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Capitolo III – Il supplizio dell’aringa


A quell’insolente apostrofe, Iwan, toccato sul vivo, aveva rialzato fieramente il capo gettando sul capo della polizia un cupo sguardo. La sua paura pareva che fosse prontamente svanita, per dar luogo ad una sorda collera.

– Credo che m’abbiate chiamato cane, – diss’egli, coi denti stretti, facendo un passo innanzi.

– Che t’importa?... Che cosa sei tu?

– Un uomo, signore.

– Che vale ora meno d’un cane, – disse l’ispravnik, con profondo disprezzo.

– Si conosce in voi il poliziotto russo.

– Taci, canaglia!... Rispondi alla mia domanda, se ti preme la pelle. Conosci quell’uomo?...

– No.

– Tu menti!...

– Vi dico che non lo conosco.

– Ah?... È così?... La vedremo. Il tuo nome?

– Iwan Sandorf.

– La tua condizione?

– Studente all’Università di Odessa.

– Hai famiglia?

– Nessuno.

– Come vivevi?

– Colle mie rendite.

– Sei ricco adunque.

– Lo ero. Il governo m’ha confiscato ogni cosa.

– Hai parenti?

– Sì.

– Ricchi?

– Ricchissimi.

– Sei accusato?...

– Lo sapete meglio di me. Mi hanno detto che sono un nichilista.

– E lo sei.

– V’ingannate anche voi.

– Hanno trovato delle carte compromettenti nella tua casa.

– Appartenevano ad un mio compagno.

– Dov’è questo tuo compagno?

– Si è salvato all’estero, una settimana prima del mio arresto.

– Sei mai stato a Riga?

– Sì, più volte.

– Ed hai conosciuto il colonnello Sergio Wassiloff.

– Non l’ho veduto che sul ponte del piroscafo che ci condusse qui.

– Tu menti: devi averlo conosciuto prima.

– Come vi piace, giacché non mi credete.

– E ti dico che entrambi facevate parte dello stesso circolo nichilista.

– Se io studiavo ad Odessa! Non so se lo sappiate, ma vi dirò allora che la mia città natale è sul mar Nero, e Riga, sul Baltico.

– Canaglia!... Ti permetti di scherzare?...

– La vostra supposizione è così ridicola!...

– Basta, forzato. Ah! Voi non volete parlare?... Presto rideremo!... Riconducete questi uomini nella prigione e servite loro la colazione ardente. M’avete compreso?... Andate!...

I cosacchi, colla loro solita brutalità, spinsero fuori i due prigionieri e li condussero non nella loro stanzaccia, bensì in una specie di bugigattolo, con una sola finestra difesa da solide inferriate, chiusa da vetri, situata in alto, fuori di portata dalle mani dei due prigionieri. I soli arredi erano una tinozza vuota, ed un piccolo tavolaccio sprovvisto di coperte e di materasso.

Cosa strana!... Quella tana non era fredda come l’altra stanzaccia, anzi vi si godeva una temperatura molto calda, quantunque non ardesse alcuna stufa.

– Che lusso! – esclamò Iwan, che pareva avesse riacquistato il suo solito buon umore. – Che l’ispravnik si sia commosso, per riscaldarci la prigione? A dire il vero però, questo caldo eccessivo mi è sospetto. Che cosa ne dite, colonnello Wassiloff?

Il gigante non rispose. Si era lasciato cadere sul tavolaccio colla testa stretta fra le mani e pareva immerso in cupi pensieri.

Scorgendolo in quella posa, una viva emozione si dipinse sul viso del giovane studente. S’avvicinò al compagno e posandogli una mano sulla spalla, gli disse con dolcezza:

– Coraggio, colonnello: speriamo in giorni migliori.

Sergio rialzò il capo e strinse silenziosamente la mano dello studente.

– Non lasciamoci abbattere, specialmente ora – continuò Iwan. – Mostriamo a quel cane d’ispravnik che non siamo uomini da cedere dinanzi alle sue minacce, né dinanzi all’avverso destino.

– Del coraggio ne ho, Iwan, – disse il colonnello, alzandosi. – Ah!... se non avessi una sorella che adoro...

– La rivedrete un giorno.

Un amaro sorriso increspò le labbra di Wassiloff.

– Voi non conoscete le miniere siberiane, Iwan.

– Pure altri sono fuggiti.

– Silenzio, Iwan. Queste muraglie hanno orecchi.

– Che ci spiino?

– Ci sorvegliano. Nessuna parola compromettente, o altri compagni ci seguiranno in Siberia.

– Infame polizia!... – mormorò lo studente.

Poi, alzando il capo e guardando le pareti, come se cercasse qualche cosa, continuò:

– Ma non vi pare che faccia molto caldo qui, colonnello?

– Vi sono almeno trenta gradi di calore, mentre al di fuori ve ne saranno forse quindici sotto lo zero, – rispose Sergio.

– Per dove entra questo calore?

– Forse da qualche fessura aperta presso la vôlta.

– Mi nasce un sospetto, colonnello.

– E quale?

– Che questo calore eccessivo sia il principio di qualche nuovo sistema di tortura.

– Tutto è possibile, quando si è nelle mani della polizia siberiana.

– Noi sfonderemo i vetri.

– Ed i guardiani vi metteranno la catena.

– Credete che io mi lascerò cucinare vivo?

– Non oseranno spingere le cose tanto innanzi, Iwan. Sanno che ho dei parenti che occupano a Mosca ed a Pietroburgo delle alte cariche, e che potrebbero un giorno far giungere la loro voce fino agli orecchi dello czar.

– Pure il caldo continua a crescere, ed io non posso quasi più tollerarlo.

Infatti la temperatura di quello stretto stanzino diventava insopportabile.

Pareva che attraverso alle pareti passassero delle fiamme invisibili e che il pavimento di mattoni servisse di vôlta a qualche stufa monumentale. Pure non appariva alcuna apertura lungo le pareti; almeno così sembrava agli occhi dei due prigionieri.

Ben presto una sete ardente cominciò a prenderli, ma come si disse, la tinozza che si trovava nella cella era perfettamente vuota. Era stata una dimenticanza del carceriere od era stata vuotata appositamente, per impedire ai due disgraziati di spegnere la sete?

Lo studente, meno paziente del colonnello, non potendo più resistere; afferrò la tinozza e la scagliò contro la porta urlando:

– Dateci da bere, canaglie!...

Un istante dopo la porta s’apriva, ed un uomo, un carceriere, comparve.

Era un uomo di alta statura, come lo sono in generale quelli di razza slava, con larghe spalle, con uno sguardo duro, quantunque fosse azzurro, ed una lunga barba bruna tagliata alla cosacca.

– Che cosa volete? – chiese ruvidamente.

– Da bere, – rispose Iwan. – Voi non avete messo un sorso d’acqua nella tinozza, amico.

– Amico!... – esclamò quell’uomo, guardandolo insolentemente. – Non lo sono mai stato, né alcun prigioniero ha mai osato darmi tale titolo.

– Volete che vi chiami Signoria?...

– Alta signoria, se ti piace. Tale è il titolo che i prigionieri dànno a noi1.

– Corbezzoli!... – esclamò lo studente, scoppiando in un’omerica risata. – Alta signoria!... Grande, eminentissima carica quella d’un aguzzino!... Non vi pare buffa, colonnello?

– Silenzio! – tuonò il carceriere. – Impera lo knut qui!...

– Credi di essere l’ispravnik tu? – disse Iwan.

– Alta signoria!...

– Che il diavolo t’appicchi. Portaci dell’acqua che qui si brucia e spegni la stufa che non abbiamo più freddo. Concediamo all’amministrazione siberiana questa economia.

– L’acqua!... la stufa!... – esclamò il carceriere con un sorriso ironico. – Ve la porterò l’acqua assieme al pranzo.

Uscì, chiudendo accuratamente la porta dietro di sé, quantunque i due prigionieri avessero potuto scorgere al di fuori, un cosacco in sentinella, e poco dopo rientrava portando con sé un barilotto pieno d’aringhe salate, due pani neri e disseccati secondo l’uso siberiano, chiamati soukhari, del peso di un chilogrammo ciascuno, ed una piccola tinozza d’acqua della capacità di forse due litri.

– È questo il nostro pasto? – chiese Iwan. – È abbondante di aringhe l’amministrazione.

– E potrete usarne a vostro piacimento, – disse il carceriere, con un sorriso beffardo. – Economizzate l’acqua però.

– Perché?... Forse che è scarsa a Tobolsk?... Ci accontenteremo di quella dell’Irtish.

– Se troverete qualcuno che andrà a prendervela.

– Che cosa vuoi dire?

– Lo sa la mia alta signoria.

Ciò detto il carceriere girò sui talloni e se ne andò, chiudendo fragorosamente la porta.

– Che sua alta signoria vada a casa del diavolo! – gli gridò dietro Iwan.

Poi, volgendosi verso il colonnello che non si era mosso, durante quel dialogo, gli chiese:

– Avete mai veduto dei cialtroni simili?

– Siamo forzati, Iwan, – rispose Sergio, – e come tali ci credono obbligati a curvare dinanzi a loro il dorso, come fanno i ladri e gli assassini relegati in questo dannato paese. Sono abituati a farsi chiamare alte signorie.

– Non sarò io che darò a questi aguzzini tale titolo, colonnello. Ma... se stritolassimo un crostino?... Ieri sera quei gaglioffi del battello si sono dimenticati di darci da cena e mi sento un appetito da lupo.

– Il pasto è magro, Iwan.

– Ma abbondante. Che lusso!... Un barile intero... Questo sarà il paese delle aringhe.

– Purché quel barile non nasconda qualche tradimento!... Non avete udito ciò che ha detto il carceriere?

– Di economizzare l’acqua? Bah!... Quando l’avremo consumata, faremo un tale baccano da costringere queste canaglie a portarcene dell’altra. Diavolo! Non avranno intenzione di farci morire di sete. Se credete la tavola è pronta.

L’allegro studente, che aveva una fame da vero lupo, si accomodò accanto al barile e spezzato con un pugno il pane nero e secco prese una delle più grosse aringhe e si mise a divorarla con un appetito invidiabile. Il colonnello, quantunque nutrisse qualche timore, non sapendo capacitarsi tanta abbondanza da parte dell’amministrazione siberiana, che ordinariamente è così economica verso gli esiliati, da metterli sempre alle prese colla fame, non poté fare a meno d’imitare il compagno.

D’altronde quelle aringhe, se erano orribilmente salate, erano nondimeno appetitose e delle più belle. I due prigionieri, che erano a digiuno da diciotto ore, fecero una vera scorpacciata, ma consumarono in pochi minuti tutta la scarsa provvista d’acqua.

Quel calore eccessivo e quei pesci avevano prodotto in entrambi una tale sete, che avrebbero vuotato una tinozza della capacità tripla di quella recata dal burbero carceriere.

– Furfante di carceriere, – disse lo studente. – Abbondare di cibo ed economizzare l’acqua!... Bah!... Ne porterà dell’altra. Intanto possiamo approfittare, per schiacciare un sonnellino. Questo calore infernale invita a chiudere gli occhi.

– Dormiamo, Iwan, – disse il colonnello. – Forse più tardi ci mancherà il tempo per riposare.

Si sdraiarono sul nudo tavolaccio, accomodandosi meglio che poterono ed invitati dal profondo silenzio che regnava allora nel kremlino e dal caldo, chiusero gli occhi, addormentandosi profondamente. Il loro sonno dovette essere però di breve durata, poiché quando si svegliarono era ancora giorno, quantunque una semioscurità cominciasse ad accumularsi negli angoli della cella. Avrebbero forse continuato a russare fino all’indomani, ma la loro sete era diventata così insopportabile, da non poter più resistere.

– Brucio!... – esclamò Iwan, alzandosi a sedere. – Dannate aringhe!... E questo caldo che aumenta sempre!... Che si sia incendiato il kremlino?

– Si udrebbero delle grida, – rispose il colonnello.

– Che ci riscaldino appositamente?...

– Lo temo! – esclamò ad un tratto Sergio, battendosi la fronte. – Il pasto ardente!... Sarebbe un nuovo genere di supplizio a cui verremmo sottoposti?...

– Che cosa dite? – chiese lo studente, che provò un brivido malgrado quel calore soffocante.

– Non vi ricordate le parole dell’ispravnik? Somministrate loro il pasto ardente.

– Mille folgori!... Vediamo se quel furfante di carceriere ha portato dell’acqua.

Balzò giù dal tavolato, si precipitò verso la tinozza, e vide che era perfettamente asciutta. Il disgraziato emise una sorda esclamazione, ma poi raddrizzandosi, con un gesto energico, esclamò:

– Ah!... Vogliono assetarci? La vedremo, alta signoria, canaglia!...

Afferrò il barile delle aringhe e lo scagliò con impeto furioso contro la porta, fracassandolo e disperdendo i pesci sul pavimento.

– Aprite, – tuonò.

– Silenzio, – urlò dal di fuori una voce rauca. – Silenzio o faccio fuoco!...

– Che il diavolo t’impicchi, birbante! – rispose lo studente. – Apri o butto giù la porta.

– Silenzio, vi dico: è la consegna.

– Portaci dell’acqua, cosacco selvaggio!...

– Ti porterò lo knut e ti farò frustare a sangue.

– Si frustano i cani pari tuoi collo knut. Apri, per mille fulmini e portaci da bere.

Uno scroscio di risa echeggiò in quel momento al di fuori. Iwan impallidì: aveva riconosciuto quel riso.

– Sei tu, alta signoria? – urlò furioso. – Portaci da bere, furfante.

– L’ispravnik non lo vuole.

– L’ispravnik!... – esclamarono ad una voce Iwan ed il colonnello. – Tu menti!...

– Se avete sete, mangiate aringhe.

– Ci burli! – urlò lo studente.

– Non burlo: quando vi deciderete a confessare vi si darà da bere.

– Miserabili!... Ci ponete alla tortura?...

– No, vi si applica il supplizio dell’aringa. Parlerete, ve lo dico io: fra ventiquattro ore l’ispravnik saprà tutto.

Né Sergio, né Iwan risposero: rimasero entrambi come fulminati.


Note

  1. Storico.