Gli invisibili/I due casi dell'Abate Vaggioli
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Faremo adesso, sotto tutti gli aspetti, un viaggio agli antipodi.
Dalla vasta e dotta biblioteca di Stainton Moses e dei filosofi inglesi, vi porterò in mezzo a vergini foreste; dalla civiltà opulenta e nebbiosa della superba Londra andremo fra umili capanne, nascoste nei fianchi ubertosi di colline baciate dal sole e dall’oceano: dal nostro vecchio continente, percorrendo un diametro ideale, sbucheremo nelle terre incognite della Nuova Zelanda.
Ivi, esistono ancora i residui di un popolo ben meraviglioso: i maori.
In epoca antichissima, cacciate da invasioni e razzìe, molte famiglie indiane di Sumatra e di Giava salirono sopra le agili piroghe e si abbandonarono al vento e al destino, lungo l’immensità infinita dell’Oceano Pacifico.
I fuggiaschi, errando alla ventura, approdaron qua e là, alle isole della Sonda, della Nuova Guinea, dell’Australia, delle Nuove Ebridi, e a quelle di Samoa, che conosciamo sotto il nome di arcipelago dei Navigatori.
Da costoro, partirono ancora, in cerca di nuovo asilo, le famiglie che popolarono la Nuova Zelanda, un vero agglomerato d’isole e d’isolette, scoperto, poco più d’un secolo addietro, dal celebre capitano Cook.
Ecco dunque come, senza nessun contatto col resto del mondo, un popolo antichissimo potè conservare i costumi, le tradizioni storiche, la religione, le leggi, la mentalità stessa di epoche quasi favolose, che ci fanno risalire a tempi anteriori ai libri dei Veda, che ci riportano alla religione patriarcale dell’India sacra, all’aurora incerta della costituzione della casta sacerdotale braminica.
Abbiamo cioè, non già degli aridi papiri, dissepolti dalle arene d’Egitto o dalle rocce plutoniche di Hercolano, ma volumi viventi e operanti in masse organizzate di tribù; vale a dire che, in pieno secolo ventesimo, l’antropologo può esaminare ampiamente costumi e leggi, riti e credenze, letteratura e arti anteriori a Mosè.
Sarebbe come se, in un’isoletta perduta in non so quale zona inesplorata del mare Egeo, a un tratto si ritrovasse una popolazione che avesse conservato scrupolosamente i costumi ellenici dell’epoca di Solone e di Licurgo.
L’abate benedettino Felice Vaggioli, nella sua qualità di missionario, nel 1878, andò nelle isole della Nuova Zelanda, e vi rimase otto anni, raccogliendo, con diligenza acuta, intorno a quei popoli, un copioso materiale, che poi lucidamente ordinò in un volume di settecento pagine, edito nel 1891 dalla tipografia vescovile di Parma: volume che mi giunse per caso fra le mani, poiché non ricordo che mai la dotta critica si sia degnata di far menzione di tanta opera, che pur contiene veri tesori per gli studiosi d’antropologia.
L’abate Vaggioli fece soprattutto un lavoro diligentissimo di reportage, nulla trascurando di quanto giovasse a dare un’idea esatta e completa del suolo e de’ suoi singolari abitatori che, oggi, la civiltà, mediante la guerra e l’alcoolismo, nello spietato spirito di prepotenza mercantile, ha quasi totalmente distrutti.
Anche per tal ragione, il volume dell’abate Vaggioli è una fortuna, e lo scienziato che ne farà l’esame, sotto l’aspetto etnico e storico, non perderà il suo tempo.
Orbene, in tal volume ho trovati due casi veramente strani e significanti di medianità.
Pensino i lettori che tali casi sono riferiti da un abate, il quale non ha nessuna idea degli esperimenti medianici, così che, secondo il suo carattere sacerdotale, naturalmente inclina a interpretarli con la stregoneria e l’intervento diabolico.
Dell’ignoranza del buon abate non mi sorprendo, né mi lagno: anzi, dico, è provvidenziale, perché garantisce il genuino candore del suo racconto. Egli, graziaddio, non è uno scettico professor di psicologia automatica, che voglia negare: egli non è uno spiritista, che voglia provare: dobbiamo quindi accertare in piena buona fede il suo racconto sincero, ché certo non era destinato a far parte di questi studi critici.
Ciò premesso, ricopio, dalle pagine dell’abate Vaggioli, la relazione dell’inglese Pakeha:
- Un altro fatto, del quale fui testimone oculare, avvenne in questo modo:
Un europeo, capitano di grossa nave, era fuggito con una giovane maora. I parenti di lei andarono dal sacerdote o tounga, presso del quale mi trovavo in quella circostanza, e gli chiesero la sua valevole assistenza, per riavere la fanciulla. Il capitano aveva salpato, dirigendosi verso un lontano paese. I parenti volevano che il Dio del maliardo riconducesse in porto il bastimento per poter riavere la fanciulla rapita. Lo stregone si arrese alle loro domande.
La notte, tutti si radunarono nella capanna ove colui usava fare le divinazioni. Tutti erano in aspettazione: io pure era presente. Verso la mezzanotte, udii lo spirito salutare i presenti ed essi salutarlo altresì come loro parente, e poi gli chiesero, con gravità, che volesse respingere indietro il bastimento che aveva rubato la sua cugina.
Dopo breve tempo, venne la risposta, in tono sibilante e cavernoso, dalla bocca dello stregone:
- Io farò andare in pezzi il naso della nave nel gran mare.
Tale risposta fu ripetuta più volte, e poi lo spirito si partì, né volle più essere chiamato.
Circa dieci giorni dopo, il bastimento rientrava nel porto. A trecentocinquanta chilometri da terra, la nave aveva incontrato una burrasca terribile, che le ruppe lo sperone di prua, per dove incominciò a far acqua. Lo sperone, in lingua maori, dicesi, ihu, ossia naso della nave. Il bastimento, in pericolo di perdersi, fu forzato a dirigersi verso il porto più vicino, ch’era appunto quello dal quale era salpato.
Non ci metto di mio né sal né olio: ma i lettori non hanno che da leggere un medium, dove fu scritto lo stregone, per ridurre il fenomeno alla sua verace natura. E passiamo al secondo caso, il quale riunisce tutti i caratteri d’una vera e propria seduta medianica.
Ricopio ancora dal libro dell’abate:
- Un giovane capo molto popolare era stato ucciso in guerra. A richiesta degli amici di lui, lo stregone promise di evocarne lo spirito, onde potessero parlargli. Essendo stato il giovane defunto mio grande amico, i parenti m’invitarono. Il morto era il primo indigeno che avesse imparato a leggere e scrivere, e teneva anche un registro in cui aveva notato le cose più importanti accadute nella tribù. Or questo libro s’era perduto: e benché si cercasse per ogni dove, fu impossibile ritrovarlo.
Eravamo presenti circa trenta persone. Si fece del fuoco nella capanna. Lo stregone si ritirò in un canto. Tutto era silenzio ad eccezione delle parenti del capo defunto, le quali singhiozzavano.
In tale stato, si passò molto tempo.
La porta era chiusa, il fuoco era quasi spento ed eravamo tutti seduti.
D’un tratto, si ode una voce:
- Saluto! saluto voi tutti! saluto, saluto voi, mia tribù! famiglia, vi saluto! amico, mio amico europeo, io ti saluto!
L’impostura riusciva. Le donne piangevano. Finalmente, il fratello del morto parlò:
- Come stai? sei tu bene, in quella nuova contrada?
La risposta non si fece aspettare:
- Io sto bene: la mia dimora è una buona dimora.
La voce che parlava non era quella dello stregone, ma una strana e malinconica voce, simile al rumore che farebbe il vento, entro un vaso bucato.
In questo punto, mi venne il pensiero che io avrei potuto smascherare l’impostura del maliardo, senza far mostra di mia incredulità e dissi:
- Noi non possiamo trovare il vostro libro: ove l’avete voi nascosto?
La risposta venne subito:
- Lo nascosi fra il tahuhu (travicello del comignolo) della mia capanna e la stoppia, appunto sotto il tetto, appena varcata la porta.
Qui, il fratello del morto uscì: e tutto fu silenzio fino al suo ritorno.
In cinque minuti, egli ritornò col libro nelle mani. Io ero vinto, ma feci un altro sforzo e chiesi: - Che cosa avete scritto in quel libro?
- Molte cose; quali volete?
- Alcune.
- Voi cercate alcune informazioni? che cosa volete sapere? ve lo dirò!
Indi, lo spirito improvvisamente:
- Addio, tribù! addio, mia famiglia! io vado... Qui un grido generale d'addio uscì dalla bocca di tutti quelli ch’erano nella capanna.
- Addio! - gridò lo spirito dal fondo.
- Addio! - disse di nuovo dall’alto, nell’aria.
- Addio! - ancor una volta si sentì venire dalle tenebre lontane.
Ora, brevissimi commenti.
Nel primo caso, come fa talora John per bocca dell’Eusapia, lo spirito parlò con gli organi del medium: ma il secondo caso corrisponde esattamente ai fenomeni osservati dal gruppo di Stainton Moses e dal gruppo nostro. L’invisibile parla cioè con la voce sua, che nella Nuova Zelanda è sentita da trenta persone: a Londra da otto o nove: a Genova da sette: parla con voce velata, pur conservando il suo timbro speciale: una voce che appunto, con qualche analogia, nel volume dell’abate, vien paragonata a soffio di vento attraverso un vaso bucato.
Vi par possibile che tanto prodigiosa somiglianza di fenomeni, dalle sponde del Tamigi, alle spiagge del Tirreno, alle immensità dell’Oceano Pacifico, debba razionalmente condurre a sensazioni allucinatorie?
E per giunta: tra quei poveri maori creduloni, c’era l’incredulo: c’era anche là, agli antipodi, un buon e autentico Scipione Tacchetti.
Per quanto udisse al par degli altri la voce dello spirito, che pensa l’ottimo Scipione Tacchetti? - Mo’ piglio io lo stregone in caso flagrante d’impostura!
E che fa? Chiede maliziosamente allo spirito:
- Dove hai nascosto il tuo libro?
E mi figuro i pensieri del furbo Tacchetti, mentre il fratello del morto, povero minchione, correva alla sua capanna.
- Va, imbecille, idiota! fruga bene nel tahuhu... butta sossopra le stoppie e magari il tetto del tuo tugurio... cerca, cerca, imbecille allucinato: troverai un par di cavoli!
L’imbecille idiota torna trionfalmente col libro in mano, e allora Scipione, con tanto di naso, rimugina:
- Eh! non me la dànno da bere... qui sotto, c’è il ditaccio del demonio!