Gli amori/Nessun maggior dolore
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«NESSUN MAGGIOR DOLORE...»
Cara amica mia,
Oggi ho chiuso il mio grosso baule; domani, all’ultim’ora, farò le valige; indi: partenza! Riprendo il mio vagabondaggio primaverile ed estivo; non so ancora bene quale itinerario seguirò; ma è certo che, all’andata o al ritorno, passerò da lei.
Quantunque io stia per rivederla, un senso di malinconia mi occupa nell’atto di scriverle questa che è, per l’anno corrente, l’ultima mia lettera. Tutte le fini sono malinconiche, comprese quelle delle cose tristi. E quando penso che, nonostante le discordie e le liti, noi abbiamo ragionato intimamente, durante circa sei mesi, di ciò che tanto importa al cuore degli uomini; e che i nostri ragionamenti, senza farci mutare opinione, ci hanno fatto molto pensare e molto ricordare; e che pure pungendoci, noi abbiamo riso e ci siamo commossi ad un tempo, mi duole che la nostra corrispondenza abbia ora a mancare. Chi sa quando la riprenderemo e se la riprenderemo? Chi sa che cosa sarà accaduto di noi, chi sa in qual altro modo penseremo di qui ad altri sei mesi?
Il segno dell’interrogazione è il gran simbolo del pensiero umano. L’ignoranza e il dubbio sono lo stato abituale della nostra mente. Forse e ma sono due grandi parole. Ella non si stupirà molto, è vero, se col tempo, che fa mutare le idee dei saggi, io stesso muterò di sentimento, che sono appena un dilettante?
Le asserzioni troppo rigide, le asseveranze troppo esclusive mi pare che siano fatte apposta per provocare le smentite e le contraddizioni. E che cosa penserà ella quando le avrò detto che ho messo tanto zelo nel sostenere contro di lei certi concetti, appunto perchè ella li ribattesse più vivacemente? Dirà forse: «L’avevo capito!...» Tutte le sentenze umane si possono rivoltare, come un abito scolorito dalla diritta, e fare ancora una discreta figura dalla rovescia. È proprio per questa ragione che all’ultimo suo comandamento di concludere, io sono dolentissimo di non poter obbedire. Se pur ella vuole che in un modo qualunque io le risponda, le presenterò un mazzo di conclusioni tra le quali ella non avrà da far altro che scegliere la più gradita. E le dirò pertanto che l’amore sarebbe la più grande illusione se non fosse anche la massima verità; l’origine d’ogni male e la fonte del solo bene; la passione più forte e salda ma anche più debole e peritura. E le dirò che questo amore importerà più dell’amor proprio, ma che l’amor proprio importa sopra ogni cosa. E soggiungerò che i sentimenti dell’anima vincono gl’istinti corporali quando questi non vincono quelli. E finalmente le concederò che le donne amano meglio degli uomini, avvertendo tuttavia che gli uomini amano meglio delle donne...
E non creda che, per lasciarle la bocca dolce, io le dica queste cose scherzose. Tutte le opinioni sono legittime, e il continuo capovolgersi di quelle che un po’ troppo arbitrariamente noi chiamiamo verità non è tanto argomento di riso quanto di dolore. Nel momento che le scrivo, il miliardo e tanti milioni di creature che popolano il mondo giudicano la vita, le passioni, gl’interessi ed i simili in un miliardo e tanti milioni di modi diversi; fra un’ora il loro giudizio sarà mutato; come concludere, pertanto? Quale sentenza, in mezzo a questo vertiginoso caleidoscopio delle opinioni umane, sarà così larga, così profonda, così immutabile da meritare l’universale consenso?
Quest’ansia di volere ma di non potere esprimere l’ultima verità della vita è dolorosa; io direi anzi che è il massimo dolore se non mi fossi vietato di formulare sentenze. Ciascun dolore sembra massimo; e come dice un altro motto che ha il suo lato vero: al peggio non c’è fine. Affermò il Poeta che il dolore maggiore è ricordarsi del tempo felice nella miseria; e infatti il misero che rammenta la felicità perduta crede d’essere arrivato al sommo della pena; ma il dolore di quello sciagurato che non ha gioie neppure da rammentare non è anche maggiore? Il bene perduto e ricordato, mentre è un nuovo motivo di cruccio, non potrà essere anche argomento di qualche conforto? Ed ecco, mia cara amica, che se io non posso concludere, come ella vorrebbe, con qualche sentenza, posso e voglio concludere questa non breve serie di apologhi con un apologo nuovo. Poichè ella si è degnata di dirmi che non le dispiacciono quelle inchieste sentimentali e psicologiche esperienze delle quali le ho riferito più volte i risultati, eccone un’ultima!
C’erano una volta tre uomini, i quali erano giunti tutti e tre insieme a quell’età quando il cuore ed i sensi entrano nella calma foriera della morte. Costoro s’incontrarono un giorno e parlarono dell’amore. Le parole di tutti erano piene di tristezza. Un giovane che venne a trovarli volle sapere il perchè della tristezza loro.
— Tu vuoi sapere il perchè? — disse uno. — Odimi, adunque!... Io fui giovane come te. La mia fronte nuda fu già cinta di chiome! Le mie guance rugose furono fresche e colorite! La mia persona incurvata e tremante già fu salda e diritta. Queste cose sembrano impossibili, è vero? Quando noi vediamo un bambino ci sembra che egli non debba crescere; non pensiamo che diventerà uomo. Così quando tu vedi un vecchio come me non ti pare possibile che sia stato adolescente. Ebbene: tu forse hai ragione! Io fui giovine d’anni, ma di ciò che forma l’orgoglio della giovinezza nulla conobbi. Vedi: se io parlo con tanta tristezza dell’amore, ciò è perchè, forse esempio unico al mondo, o se non unico certamente rarissimo, io non conobbi l’amore. Intendi: io non fui amato. Dentro all’anima mia c’era la lava di un vulcano; e non potei dire a nessuna donna una sola parola appassionata. Quando udivo parlare delle passioni degli altri, ne ridevo: tanto esse mi parevano scialbe e meschine paragonatamente alle fiamme che mi struggevano. Quando profanavo i miei sogni e le mie speranze comprando il piacere, piangevo di dolore. Nessuna donna avrebbe compreso di che tesori di sentimento ero ricco? Ed aspettai, ed aspettai, ed aspettai: invano! Mi mancò l’ardimento? Qualcosa, nella mia faccia, negli occhi miei, dispiaceva e respingeva? Non ti so dire. Nessuna mi amò. E io vidi il tempo trascorrere, e come gli anni passavano la mia speranza diveniva più tormentosa perchè tanto più difficile ne era l’ottenimento. E fino all’ultimo, fin dopo che i miei capelli imbiancarono e caddero, io sperai ancora, disperatamente; quando un giorno dovetti acquetarmi nella rinunzia. Comprendi dunque bene; aver saputo dagli altri, aver letto nei libri, aver visto e sentito che l’amore è la massima gioia, ciò che più piace, ciò che più importa, e aver sperato d’amare come in sogno, e aver perduta questa gioia prima d’assaporarla: non ti pare che io abbia ragione d’essere triste?
Quando egli tacque disse l’altro vecchio:
— Io l’assaporai! Io conobbi l’amore, un amore molto più bello, più grande, più forte, di quello che i sogni rappresentarono a costui. Io fui fortunato come nessuno al mondo mai; perchè ottenni l’amore d’una creatura così rara, che se l’avessi formata con le mie proprie mani, se le avessi spirato la mia propria vita, non avrei potuto farla migliore. Ma questo amore, che io credetti eterno, finì; perchè niente sotto il sole è eterno. E quando questo amore finì, io passai la mia vita a cercarne un altro eguale, perchè senza un simile bene non potevo più vivere — e non potei più ritrovarlo. Come una piaga, allora, il ricordo del perduto bene sanguinò nel mio cuore, inguaribilmente. Io avrei dato senza esitare tutta la mia vita perchè solo un istante di quella felicità tornasse: impossibile! Io non vivevo più del presente ma del passato, e ogni giorno il passato era più lontano; tendevo ad esso disperatamente le braccia e non potevo afferrarlo. Comprendi bene dunque, o giovane, il motivo della mia tristezza? Avessi come costui sconosciuto la felicità! Non la piangerei come la piango. Chi è nato mendicando si rassegna alla sua povertà; ma chi fu già ricco come potrà tollerare di vivere nell’indigenza?
E quando anche costui tacque, disse il vecchio che non aveva ancora parlato:
— Tutt’altra è la ragione della mia tristezza. Io non posso dire d’avere conosciuto l’amore nella sola speranza, come costui che primo parlò. Io non amai neppure una sola volta e non mi ridussi a vivere di memorie come quest’altro. Io amai, riamai, più e più volte, continuamente. Finito un amore un altro ne cominciava; e prima ancora che il nuovo fosse morto della morte naturale, io stesso lo soffocavo per assaporarne ancora un altro. Fu soverchio ardimento? Qualcosa nella mia faccia, negli sguardi miei attirava e seduceva? Non so; ma quasi tutte le donne che richiesi d’amore mi si concessero. E più amavo, più ero ansioso d’amare; e quando la stanchezza doveva fiaccare i miei nervi, una specie di furore li esasperava, e nulla potè mai arrestarmi: nè le lacrime delle supplicanti, nè le minacce delle furibonde, nè il pericolo che io stesso correvo: il pericolo che la mia fibra e la mia stessa ragione non resistessero allo spa ventevole abuso. Finchè un giorno questo effetto immancabile si produsse; e il male e la pazzia m’agguantarono stretto. Guarii, come vedi; ma per miracolo, e forse perchè potessi dire a te, a costoro ed a tutti gli uomini una verità spesso intuita, ma troppo disconosciuta. Sai tu il perchè dell’avidità, dell’ingordigia mia, dell’ansia implacabile che mi faceva moltiplicare tumultuariamente le prove? Ascolta, o giovane, e impara. Mi fu troppe volte ripetuto che l’amore è l’unica cosa degna d’essere desiderata, la sola sorgente del massimo piacere; la più grande e la più divina delizia. E quando io conobbi l’amore, ne godetti, sì, molto; ma paragonando il godimento ottenuto con quello che avevo imaginato e che m’avevano promesso, trovai che la realtà non raggiungeva l’imaginazione; e, senza paragonare l’aspettazione all’ottenimento, trovai che queste gioie dell’amore, quantunque grandissime, non erano sempre e tutte pure, e che talvolta il piacere costava troppo ed era troppo vicino al disgusto. E allora volli riprovare, perchè io dicevo tra me: «È impossibile che m’abbiano ingannato! Se tutti m’han detto a una voce che l’amore è la somma gioia e il piacere sovrano, e se io non ho potuto confermare questo giudizio, vuol dire che sono stato disgraziato, che sono capitato male; bisognerà pertanto rivolgersi altrove». E ricominciai ad amare, e poi ricominciai un’altra volta, e poi un’altra volta ancora, sempre più scontento e sempre più ansioso; perchè la distanza fra la promessa e l’ottenimento invece di scemare cresceva. Ma accadeva ancora un’altra cosa, più triste, inesplicabile e quasi diabolica: che, quando io uccidevo uno di questi amori dei quali ero troppo scontento e nauseato per cercare in un altro il paradiso aspettato, allora l’amor nuovo e attuale che doveva darmi il paradiso mi repugnava, e il vecchio, il morto, l’amore che io stesso avevo ucciso, risplendeva nella mia memoria, purificato, nobilitato, così allettante come la speranza d’amare. E questo fu ed è il maggior dolore: d’aver tanto amato senza apprezzar mai giustamente l’amore. Perchè, o giovane, l’ l'imaginazione distende nei cieli dell’anima questi miraggi, e quando tu ti guardi intorno vedi tutto povero e arido come in un deserto; ma se spingi dinanzi a te lo sguardo o se ti volgi indietro, nell’avvenire o nel passato, come costoro, tu vedi solamente spettacoli degni. Diffida dunque delle speranze troppo grandi, guardati dalle memorie troppo abbellite; e, nell’amore come in tutta la vita, non esagerare.
Fine