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che le scrivo, il miliardo e tanti milioni di creature che popolano il mondo giudicano la vita, le passioni, gl’interessi ed i simili in un miliardo e tanti milioni di modi diversi; fra un’ora il loro giudizio sarà mutato; come concludere, pertanto? Quale sentenza, in mezzo a questo vertiginoso caleidoscopio delle opinioni umane, sarà così larga, così profonda, così immutabile da meritare l’universale consenso?

Quest’ansia di volere ma di non potere esprimere l’ultima verità della vita è dolorosa; io direi anzi che è il massimo dolore se non mi fossi vietato di formulare sentenze. Ciascun dolore sembra massimo; e come dice un altro motto che ha il suo lato vero: al peggio non c’è fine. Affermò il Poeta che il dolore maggiore è ricordarsi del tempo felice nella miseria; e infatti il misero che rammenta la felicità perduta crede d’essere arrivato al sommo della pena; ma il dolore di quello sciagurato che non ha gioie neppure da rammentare non è anche maggiore? Il bene perduto e ricordato, mentre è un nuovo motivo di cruccio, non potrà essere anche argomento di qualche conforto? Ed ecco, mia cara amica, che se io non posso concludere, come ella vorrebbe, con qualche sentenza, posso e voglio concludere questa non breve serie di apologhi con un apologo nuovo. Poichè ella si è degnata di dirmi che non le dispiacciono quelle inchieste sentimentali e psicologiche esperienze delle quali le ho riferito più volte i risultati, eccone un’ultima!

C’erano una volta tre uomini, i quali erano giunti tutti e tre insieme a quell’età quando il cuore ed i sensi entrano nella calma foriera della morte. Costoro s’incontrarono un giorno e parlarono dell’amore. Le parole di tutti erano piene di tristezza. Un giovane che venne a trovarli volle sapere il perchè della tristezza loro.

— Tu vuoi sapere il perchè? — disse uno. — Odimi, adunque!... Io fui giovane come te. La mia fronte nuda fu già cinta di chiome! Le mie guance rugose furono fresche e colorite! La mia persona incurvata