Giustino/Nota storica
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NOTA STORICA
Non conosciamo la data precisa del Giustino. Di questa tragicommedia non fa nessuna menzione l’autore nella lettera a stampa del Nerone 1748: v. Malamani, Curiosità Goldoniane, Venezia, 1887, p. 210), nelle memorie italiane premesse ai vari tomi dell’edizione Pasquali e nelle memorie edite in Francia, e nemmeno nel catalogo delle proprie opere aggiunto in fine a oneste ultime: bensì la ricorda, insieme col Belisario, con l’Enrico, con la Rosmonda, tra il Don Giovanni e il Rinaldo, nella prefazione del primo tomo dell’edizione Bettinelli (1750). L’attore poi Antonio Vitalba, che fece parte fino al 1738 della compagnia Imner, del teatro di San Samuele, si vanta in una lettera del 1757 di aver interpretato per primo il Belisario, il Giustino, l'Enrico ecc. di Carlo Goldoni (v. articolo del compianto Aldo Ravà, in Marzocco, XVIII, n. 29, 20 luglio 1913). Dobbiamo dunque assegnarlo a quel periodo di prove che precedette la serie immortale delle commedie goldoniane.
Del resto non si tratta di un’opera del tutto originale, chè il Goldoni trasse l’ispirazione delle scene principali, sia, pure con grandissima libertà, da un vecchio e fortunato melodramma, non sappiamo se per preghiera dei comici o per suo capriccio. Il Giustino di Niccolò Beregani, gentiluomo veneziano 1627-1713: consulta Mazzucchelli, Scrittori d’Italia; Nuovo Dizionario Istorico di Bassano. 1796; Cicogna, Inscrizioni Veneziane, V, pp. 473-4; A. Medinm, La storia della Rep. di Venezia nella poesia, Milano, 1904; v. Indice), avo di quel Nicola Beregan a cui dedicò il Goldoni nel 1751 la Buona moglie (vol. II della presente ed.), fu rappresentato a Venezia fin dal nel teatro di San Luca o San Salvatore, con musica di Giovanni Legemzi e poi a Genova (teatro Falcone, 1689), a Brescia (1691), a Bologna (teatro Malvezzi, 1691 e 92), a Roma (Tor di Nona. 1695: Ademollo, I teatri di Roma nel sec. XVII, Roma, 1888, p. 191), a Verona (1696), a Modena (teatro Fontanelli, 1697) e di nuovo a Bologna con musica di Tommaso Albinoni (1711: v. Ricci, Teatri di Bologna ecc., Bol. 1888, pp. 408-9): e venne più volte ristampato in varie città (v. Allacci, Drammaturgia, ed. di Venezia, 1755). Il soggetto è tolto dagli Aneddoti o Storie segrete di Procopio, sì che nulla ha da fare col Giustino che il giovinetto Metastasio derivò dall’Italia liberata del Trissino.
Il Goldoni conservò quasi tutti i personaggi del melodramma di Niccolò Beregani, ma rimaneggiò con piena libertà l’azione, trasformando i tre atti in cinque, sopprimendo le scene comiche di Brillo, servo di Giustino, e di Erinda, nutrice d’Eufemia, abolendo ogni elemento maraviglioso, come per esempio il carro della Fortuna che scende su Giustino addormentato nel suo campo, e la statua del padre di Vitaliano la quale parla dal sepolcro. Non più Eufemia cacciatrice è inseguita da un satiro che Giustino uccide, nè Arianna in abito militare “dà una guanciata„ a Vitaliano che osa abbracciarla, nè la stessa imperatrice viene esposta al mostro marino da cui la salva l’eroe bifolco, nè compare in scena Andronico, fratello di Vitaliano, vestito “da donzella„, nè seguono balletti a rallegrare il pubblico. Nella selva bizzarra del Seicento il nostro autore sfronda quanti rami può, cercando d’introdurre nell’azione drammatica maggiore serietà e dignità, per avvicinarsi alla tragedia; nè si accontenta di rifondere qua e là il dramma e d’allungare le scene, come fece per la Griselda dello Zeno, ma vuol creare un’opera tutta nuova e tutta sua, come nel Rinaldo, e perciò sdegna di accogliere i versi del patrizio veneziano fra i versi suoi.
Pur troppo il Giustino goldoniano riuscì tuttavia una cosa goffa e meschina. In esso vediamo nel giro delle ventiquattro ore un bifolco per virtù militare, non senza aiuto di una provvida agnizione, salire sul trono d’Oriente, fatto compagno dell’imperatore Anastasio che poco prima lo voleva abbacinato e morto. Si ripete in parte la solita favola del Belisario e del Rinaldo: anche qui la virtù e l’innocenza sono credute colpevoli e vengono quasi travolte, benché alla fine trionfino; anche qui la figura d’un eroe generoso fa contrasto alla figura debole e sospettosa d’un imperatore; anche qui manca dappertutto la vita drammatica che commuova i personaggi, invano loquaci, e scenda fino al cuore degli spettatori. Pastori soldati capitani principesse passano come ombre noiose e ridicole, sul palcoscenico: inverosimiglianze puerilità stravaganze ci richiamano, con in sorriso, alla mente le tragedie popolari del padre Ringhieri. Assistiamo a duelli, a battaglie, a una lotta di Giustino con una tigre, allo sfilare dei soldati "al suono di militari strumenti”, come vent’anni dopo nelle tragicommedie dell’abate Chiari: la scena stessa ci presenta un serraglio di fiere "guardato da un’alta torre” e un mausoleo "magnifico” e il padiglione imperiale e una campagna "sparsa di arbori”. Ma più dell’imperatrice Arianna "in abito virile”, senza spada, che va "perdendo dalle ferite il sangue”, ci desta maraviglia ed orrore il fulmine che nella scena 7 del IV atto, di piena notte, mentre infuria il temporale, squarcia il mausoleo, lo fa precipitare, e ferisce e atterra i soldati.
La sera del 19 febbraio del 1745, nel teatro Malvezzi di Bologna, come raccontano le cronache, recitavasi il Giustino dalla compagnia comica di Filippo Collucci, romano. Sospetta il Ricci che fosse questo l’antico libretto per musica, del Beregani; e, in tal caso, si tratterebbe d’un rifacimento pel teatro di prosa, a mo’ di scenario: ma noi crediamo, com’è più naturale, che fosse proprio il Giustino di Carlo Goldoni. Da poco era finito lo spettacolo, quando le fiamme divamparono dal palcoscenico e in due ore incendiarono tutto il teatro, fra i più antichi e più gloriosi della città (Corrado Ricci, l. c., pp. 189 e sgg.). A torto fu accusato del delitto uno degli attori, Giuseppe Angeleri, noto ai lettori delle Memorie goldoniane (v. le note opere del Bartoli e del Rasi); chè si dovette poi attribuire la colpa al fulmine fatale (v. Ricci). Non sappiamo se del doloroso accidente rimordesse un pochino la coscienza al dottor veneziano.
L’audacia dell’autore nel Giustino era forse andata più oltre del fulmine stesso. Per quanto siamo avvezzi a udire nelle antiche tragedie dure parole contro i prìncipi, non possiamo fare a meno di fermarci davanti ad affermazioni come queste: "Io non distinguo - Il vil pastor dal cittadin superbo" (a. I, sc. 7); "Un solo - Fu di tutti il principio; egual materia Forma le membra a un monarca, e forma - Quelle d’un vil pastor {a. I, sc. 1O. - Vedi anche a. V, sc. 7: "De’ suoi soggetti - Arbitro si credea. Misero!". ecc.) A Venezia si respirava anche nel Settecento, chi ne conosca la storia, aualche soffio d’aria repubblicana; e Goldoni diventò più prudente, è vero, nella sua combattuta esistenza, ma timido non fu mai.
Toccò al Giustino, ch’è uno fra gli sgorbi, diremo così, del teatro goldoniano, una fortuna che non arrìse pur troppo ai capolavori comici e a nessun’altra opera drammatica, sia pur mediocre, del Veneziano: cioè che sopravviveste fino a noi il copione scritto a mano dal gran commediografo. Trattasi di un quaderno di carte bianche, di formato comune, senza numerazione di pagine, con la coperta di cartone. Nella testata della prima carta scrìsse l’autore, in alto: Il Giustino || Tragicommedia del Dottor || Carlo Goldoni. Il margine inferiore porta questa indicazione di mano ignota e antica: "Mr. originale con annotazioni in parecchi versi di carattere pur dell’Autore Dott Carlo Goldoni da Vinegia, dappoi Avvocato, insigne Poeta comico morto a Parigi nel 1787 o 88” (sic).
Il prezioso autografo, forse quello stesso che servì nel 1793 allo Zatta per la stampa del Giustino, nel tomo XI, classe 3., della famosa edizione, sfuggito non si sa come alla dura sorte che fece perire tutti gli altri spediti da Parigi a Venezia dal Goldoni negli ultimi anni della sua vita, è ora posseduto dal professor Gino Rocchi di Bologna, uomo di molta dottrina e d’altrettanta modestia, già caro amico al Carducci, come tutti sanno, de’ più antichi e più devoti, ammiratore dell’arte onesta e serena del Goldoni, scrittore finissimo e purissimo: in casa del quale potei, per rara gentilezza, collazionare l'unico testo dell’edizione Zatta, dal quale derivarono le varie ristampe dell'Ottocento e una ristampa di Bologna dentro il secolo decimottavo (presso G. Lucchesini, s. a.). Non sappiamo chi fosse il correttore veneziano che si prese tanta libertà, o piuttosto licenza, nella stampa del Giustino; ma tale fu sempre il destino del Goldoni, che non potè sorvegliare la pubblicazione delle proprie opere e le affidò volentieri alle cure di qualche amico, più o meno istruito nelle lettere. Del resto bisogna confessare che il revisore dello Zatta corresse pure più di un errore manifesto, sfuggito al buon dottor veneziano. All'egregio professor Rocchi esprimo qui, come posso, con animo affezionato, tutta la mia sincera gratitudine.
G. O.