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più Eufemia cacciatrice è inseguita da un satiro che Giustino uccide, nè Arianna in abito militare “dà una guanciata„ a Vitaliano che osa abbracciarla, nè la stessa imperatrice viene esposta al mostro marino da cui la salva l’eroe bifolco, nè compare in scena Andronico, fratello di Vitaliano, vestito “da donzella„, nè seguono balletti a rallegrare il pubblico. Nella selva bizzarra del Seicento il nostro autore sfronda quanti rami può, cercando d’introdurre nell’azione drammatica maggiore serietà e dignità, per avvicinarsi alla tragedia; nè si accontenta di rifondere qua e là il dramma e d’allungare le scene, come fece per la Griselda dello Zeno, ma vuol creare un’opera tutta nuova e tutta sua, come nel Rinaldo, e perciò sdegna di accogliere i versi del patrizio veneziano fra i versi suoi.

Pur troppo il Giustino goldoniano riuscì tuttavia una cosa goffa e meschina. In esso vediamo nel giro delle ventiquattro ore un bifolco per virtù militare, non senza aiuto di una provvida agnizione, salire sul trono d’Oriente, fatto compagno dell’imperatore Anastasio che poco prima lo voleva abbacinato e morto. Si ripete in parte la solita favola del Belisario e del Rinaldo: anche qui la virtù e l’innocenza sono credute colpevoli e vengono quasi travolte, benché alla fine trionfino; anche qui la figura d’un eroe generoso fa contrasto alla figura debole e sospettosa d’un imperatore; anche qui manca dappertutto la vita drammatica che commuova i personaggi, invano loquaci, e scenda fino al cuore degli spettatori. Pastori soldati capitani principesse passano come ombre noiose e ridicole, sul palcoscenico: inverosimiglianze puerilità stravaganze ci richiamano, con in sorriso, alla mente le tragedie popolari del padre Ringhieri. Assistiamo a duelli, a battaglie, a una lotta di Giustino con una tigre, allo sfilare dei soldati "al suono di militari strumenti”, come vent’anni dopo nelle tragicommedie dell’abate Chiari: la scena stessa ci presenta un serraglio di fiere "guardato da un’alta torre” e un mausoleo "magnifico” e il padiglione imperiale e una campagna "sparsa di arbori”. Ma più dell’imperatrice Arianna "in abito virile”, senza spada, che va "perdendo dalle ferite il sangue”, ci desta maraviglia ed orrore il fulmine che nella scena 7 del IV atto, di piena notte, mentre infuria il temporale, squarcia il mausoleo, lo fa precipitare, e ferisce e atterra i soldati.

La sera del 19 febbraio del 1745, nel teatro Malvezzi di Bologna, come raccontano le cronache, recitavasi il Giustino dalla compagnia comica di Filippo Collucci, romano. Sospetta il Ricci che fosse questo l’antico libretto per musica, del Beregani; e, in tal caso, si tratterebbe d’un rifacimento pel teatro di prosa, a mo’ di scenario: ma noi crediamo, com’è più naturale, che fosse proprio il Giustino di Carlo Goldoni. Da poco era finito lo spettacolo, quando le fiamme divamparono dal palcoscenico e in due ore incendiarono tutto il teatro, fra i più antichi e più gloriosi della città (Corrado Ricci, l. c., pp. 189 e sgg.). A torto fu accusato del delitto uno degli attori, Giuseppe Angeleri, noto ai lettori delle Memorie goldoniane (v. le note opere del Bartoli e del Rasi); chè si dovette poi attribuire la colpa al fulmine fatale (v. Ricci). Non sappiamo se del doloroso accidente rimordesse un pochino la coscienza al dottor veneziano.

L’audacia dell’autore nel Giustino era forse andata più oltre del fulmine stesso. Per quanto siamo avvezzi a udire nelle antiche tragedie dure