Giacomo Leopardi/XXXVIII. I nuovi idillii
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XXXVIII
I NUOVI IDILLII
Comparvero per la prima volta nell’edizione in Firenze del Piatti, 1831, La quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio. Nell’edizione posteriore di Napoli comparve il Passero solitario, collocato, con un ordine stabilito dall’autore, primo fra gli antichi idillii. Il concetto e la fattura di questi idillii antichi e nuovi sono così simili, che sembrano scritti di un getto e nello stesso giorno. Il Passero solitario, anche per le circostanze di fatto, sembra concepito e abbozzato in Recanati, insieme con l’Infinito e con gli altri idillii che uscirono nella edizione di Bologna. E se comparve solo nell’edizione di Napoli, si può credere che il poeta l’abbia lasciato incompiuto nei suoi cartoni, e che più tardi vi sia ritornato sopra. Se è vero che la musa ispiratrice di quei primi idillii sia la contemplazione solitaria, nessuno meglio del Passero solitario era atto a far da prologo. Il poeta contemplava e fantasticava solo, a quel modo che canta solo il passero. Nel dì di festa egli esce alla campagna e contempla il tramonto del sole, come il passero nella gioia della primavera sta in disparte pensoso e canta.
L’intonazione di questa poesia è una malinconia attiva, che mette in moto soave l’immaginazione, porgendo innanzi alla mente nelle forme più graziose ed eleganti l’esultanza primaverile della natura e la festa romorosa del villaggio. Sembra che l’immaginazione con crudele trastullo si diletti a scegliere i più vaghi colori per rappresentare quella vita allegra di natura e d’uomo, dalla quale si tengono alieni il passero ed il poeta. Questa inclinazione alla solitudine nella festa universale è rappresentata non come uno stato eccezionale e morboso, ma come uno stato di natura, non si sa come o perché, come un «costume». Perciò questa rappresentazione è accompagnata con un sentimento pacato, pieno di ingenuità e non privo di grazia. Tutta questa materia è ordita e disciplinata dalla riflessione, che segue in tutto il cammino quel paragone tra l’uomo e l’uccello, e aguzzando scopre all’ultimo la differenza tra il «costume» dell’uccello, frutto di natura, e la «voglia» dell’uomo, seguita da pentimento. Non è impossibile che questa differenza un po’ raffinata sia una coda appiccicata dal poeta più tardi, e che la poesia in origine fosse solo una rassomiglianza tra il poeta e il passero, presso a poco come nel famoso sonetto petrarchesco del rosignuolo.
La stessa intonazione è negli altri due idillii. Nel Passero il poeta gitta uno sguardo malinconico e pentito sulla sua giovinezza trascorsa in solitaria contemplazione, e per maggior crucio l’immaginazione gli rappresenta la gioia e la festa di quella età. Nel Sabato del villaggio è lo stesso concetto guardato con maggiore serenità e da un punto di vista affatto impersonale. Il poeta non rappresenta direttamente la giovinezza, la quale vien fuori come un termine di paragone. La materia è il sabato, che precorre al giorno festivo, e dove è già presentita, desiderata e pregustata la festa. La giovinezza è il sabato della vita umana.
La descrizione di questo sabato è una delle più leggiadre e care fantasie della musa italiana. È un quadretto di genere, a guisa fiamminga, dove tutto è realtà e tutto è ideale. Non so come a nessun pittore sia venuto in mente di rappresentare questa scena: una piazzuola dove i fanciulli gridano, saltano; la donzelletta che arriva col suo fascio sulle spalle e col mazzolino di rose in mano; la vecchierella che fila e ricorda la sua gioventù e il zappatore che giunge fischiando. Anche gli effetti di ombra e di luce, con quella luna recente, che biancheggia le case, sono ben colti. Il tutto è rappresentato con ingenua semplicità, piena di grazia, conforme alla natura di quella buona gente, inconscia e irriflessiva, tutta superficie e espansione. La coscienza ci è ed è fuori della scena; è nel poeta. A lui s’affaccia il suo sabato, la giovinezza con le sue brevi gioie. Poi quel suo volgersi al fanciullo, con aria non di pedagogo, ma di uomo mosso dall’affetto ed esperto della vita, quel: «fanciullo mio»; quello: «altro dirti non vo’», quasi non voglia turbare la innocenza di quella gioia, è cosa amabile in tanta serietà del pensiero. Questo è un quadretto dei più finiti, dove la forma ha l’ingenuità delle cose, con freschezza di disegno e di colorito.
Nella Quiete dopo la tempesta la scena è un paesello con gente rustica, aperta alle impressioni, con lontani orizzonti verso i campi e le valli. I particolari sono di una realtà comunissima, ma raggruppati e rappresentati in modo, che sembra per la prima volta ti balzino innanzi. Nelle cose penetrano i sentimenti, come è la gallina che ripete il suo verso, il ritorno del sole, il carro che stride e simili; prorompe una gioia tumultuosa, quasi la tempesta della gioia che succede a quella del cielo.
Questa bella descrizione è un po’ turbata dalla riflessione. Il poeta vuol sostenere l’antica sentenza che il piacere non è in sé niente di positivo e che non è altro se non la cessazione del dolore: uno dei concetti fondamentali del suo sistema. Fortunatamente, questo è un concetto sopraggiunto, che non penetra nella descrizione e non guasta quell’armonia e quella intonazione.
Cosí il Sabato e la Quiete rimangono due idillii deliziosi, usciti da una serena immaginazione appena increspata dalla abituale tristezza della riflessione. Questi chiari di cielo nel buio della esistenza, questi brevi idillii di una vita gioiosa nella tragedia universale, non mancano mai nella poesia leopardiana come mezzi di stile a contrasto o a rilievo. Ma in questi idillii la materia stessa della poesia ha una intonazione e un sentimento gioioso, che ce li rende cari e amabili, come rari intervalli felici nella amara esistenza.
Il poeta ha qui ritrovato il suo metro favorito: quella mescolanza di endecasillabi e settenarii, a rima libera, che gli concede ogni varietà di tinte e di effetti. La gravità dell’endecasillabo è temperata nella sveltezza del settenario, e la rima, ove cade, compie l’effetto musicale.
È assai probabile che il poeta abbia concepiti e anche abbozzati in prosa questi cari idillii così come il Passero solitario. Essi sono molto simili per concetto alla Sera del dì di festa. Nell’uno, non ci è la sera ma il sabato, il dì che precede alla festa; e nell’altro il concetto è a rovescio: è la tempesta prima e la quiete poi.
I tre idillii potrebbero dunque esser nati ad un parto; senonché due di essi non sarebbero stati compiuti e pubblicati se non molto più tardi. Ma, rimettendo mano, il poeta non ritrovò più i furori e le disperazioni di quella prima età quando esclamava:
Oh giorni orrendi |
Qui si vede una disposizione di animo pacato, atto a descrivere e gustare quelle brevi gioie.
Descrizione e riflessione stanno l’una fuori dell’altra, ciascuna al suo posto. La riflessione vien dopo, come la morale della favola, che non ha niente di amaro e di personale ed ha l’aria di una semplice guardatura filosofica.
Considerando bene questi nuovi idillii, che si riappiccano a una ispirazione antica e giovanile, ciò che in essi ci rivela uno spirito nuovo è quella virtù di concepire e rappresentare la gioia più che il dolore dell’esistenza, di modo che la stessa amarezza di una riflessione sopraggiunta rimane temperata ed addolcita.
Ma, dove apparisce nella maggior potenza lo spirito risorto del poeta, è nel Canto del pastore errante, questo idillio degli idillii, nato sotto il cielo di Firenze, e uscito fuori di un getto solo.
Il motto di Saffo:
Arcano è tutto, |
Spesso questo mistero delle cose gli si è affacciato in relazione con la sua persona, tirandogli accenti di sdegno e di dolore. Ma ora gli si affaccia in modo affatto impersonale e prende quasi la forma d’una meditazione sopra i primi della vita universale. Chi medita, non è un filosofo, ma è l’anima semplicetta d’un pastore, che sa nulla, e contempla innamorato la luna e le stelle, e fantastica sul fine e sull’uso della vita, incalzato da tanti «perché», a cui non trova risposta. La profondità del concetto è questo, che in ultimo il filosofo ne sa tanto quanto il pastore, e che quello che appare una ignoranza e una semplicità del pastore, è appunto la verità.
Il pastore, che interroga la luna e vuole da lei sapere il perché delle cose, ricorda le impressioni gagliarde che l’universo dové fare sull’anima semplice dei primi mortali, quando la vista della natura svegliava in loro la curiosità del sapere. La poesia pare un poema biblico, una pagina del Giobbe. Il pastore prende le cose così come gli appaiono, le guarda con anima poetica, si esprime per via di paragoni e di brevi riflessioni, e parla alla luna come alla sua confidente di tutte le sere, e che ne sa più di lui. Situazione originalissima, che illumina le vie tenebrose del mistero con la bonomia, la nativa semplicità, l’ingenua grazia del pastore. Anche il sentimento del mistero non ha strazio e non ha sdegno e non ha dolore; il pastore parla come rassegnato ad un ordine immutabile di cose contro il quale è vano cozzare, e dice le cose più terribili con semplicità tranquilla.
Uguale perfezione è nello stile. I concetti più profondi sono espressi con la chiarezza e la semplicità di quella prima forma di favellare tutta spontanea, che precede lo stile letterario. Chi legge, è costretto a fermarsi ad ogni tratto, lusingato da nuove bellezze; e ora la serietà delle cose gli annuvola la fronte, e ora la grazia e l’ingenuità dei sentimenti gli ride sulle labbra. Una delle mosse più graziose, di una carissima ingenuità, si sente in questi quattro versi:
Vergine luna, tale |
È notevole come in questa poesia sia esclusa ogni personalità, e come nella rappresentazione d’una situazione originale l’autore abbia raggiunto una obbiettività, che di rado gli è consentita dalla sua natura.