Giacomo Leopardi/XIII. 1820-21: Progetti
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XIII
1820-21
PROGETTI
Fu più facile a Leopardi comporre la canzone che pubblicarla per le stampe. S’indirizzò all’avvocato Brighenti in Bologna, amicissimo di casa, commettendogli la stampa di questa e di altre due canzoni inedite e delle due già pubblicate in Roma. Il primo intoppo fu del denaro, non riuscitogli di accumulare la somma intiera, e schivo di domandarla alla sua famiglia. Un altro intoppo gli venne dal padre, che pose il suo veto alla stampa delle due canzoni di Roma e di quella ancora inedita intitolata: Nello strazio di una giovane, già esaminata innanzi. Le due prime, come politiche, parvero al buon padre pericolose; l’altra gli parve materia di scandalo, trattandosi di un fatto vero e di fresca memoria in paese. Lasciò correre quella a Monsignor Mai, parendogli dal titolo innocentissima: si trattava di un Monsignore. Il figlio prima s’infuria: e che lo si tratti come un fanciullo, e che le canzoni sono sue e non di lui, e che vuol parere quello che è, ed essere quello che gli piace, e nessuno può costringerlo a fare altrimenti, «per lo stesso motivo, a un dipresso, per cui Catone era sicuro in Utica della sua libertà... È tempo di morire. È tempo di cedere alla fortuna ecc., ecc.». L’irritabilitá nervosa gli ingrandiva oggetti e impressioni. Ciascuna puntura era una tragedia. Poi, sbollito quel primo calore, viene l’ironia e il frizzo. «Se volessimo seguire i gran princìpi prudenziali e marchegiani di mio padre,... scriveremmo sempre sopra gli argomenti del secolo di Aronne... Il mio intelletto è stanco delle catene domestiche ed estranee.» E in sul primo dispetto non voleva più pubblicare nulla; poi, rabbonito, pubblicò la sola canzone Ad Angelo Mai, accompagnata da una dedica al conte Leonardo Trissino, rifatta poi nell’altra edizione del 1824. Ivi è notabile questo periodo:
Ricordatevi che si conviene agli sfortunati di vestire a lutto, e parimente alle nostre canzoni di rassomigliare ai versi funebri.
Vi si rivela il suo entusiasmo lacrimoso.
E il padre ne fece anche un’altra. Si lagnò col Brighenti di Pietro Giordani, che a suo parere aveva guasta la testa a Giacomo, insinuandogli opinioni pericolose. E Giacomo, saputa la cosa, nota:
Mio padre se voleva dei figli contenti in questo stato, dovea generarli d’altra natura, ed ora non dovrebbe imputare a persone venerabili e rinomate in tutta l’Italia quello ch’è necessità delle cose evidentissima a tutti, fuorché a lui solo.
Si comprende che questi screzii domestici dovevano rendere Giacomo più schivo di Recanati, e più impaziente a procacciarsi una posizione indipendente. Ma vane furono le pratiche iniziate e dal Giordani e dal Brighenti a questo effetto.
Tale è il succo della corrispondenza tra Leopardi e Brighenti nel 1820. Onde nasce che le opinioni politiche e religiose del giovane erano già pubbliche, divenuto così irrimediabile lo screzio fra padre e figlio, e che il figlio, inasprito il suo carattere dalla solitudine, dalla salute cagionevole e dalle catene domestiche, esagerava lo screzio e lo volgeva in tragedia, come avviene a tutti gli scontenti che si lascino governare dall’immaginazione. Il curioso è che molti critici pigliano i lamenti di un povero malato come vangelo e ne fanno argomento di processo contro il padre, mostrandosi presi da quella stessa malattia. Che il padre fosse in disaccordo col figlio nelle opinioni religiose e politiche, è chiaro. Che fosse un po’ pedante, un po’ esagerato nella sua prudenza, si può ammettere. Ma da questo alla tirannia, alla soverchieria, alla inimicizia ci corre, ed è un voler ragionare co’ nervi del figlio. La storia dee essere imparziale; e non perché il padre era un clericale, bisogna gridargli il «crucifige».
Per buona fortuna, se dispiaceri non mancavano al buon Leopardi, la sua salute migliorava, come si vede dalla lettera del 30 giugno a Giordani, dove parla della sua malattia, come di cosa già passata da parecchi mesi. Citerò alcuni brani, da’ quali si possa raccogliere lo stato della sua salute e le sue occupazioni.
La mia povera testa ha ripreso tanto di forza da poter essere applicata di tratto in tratto a qualche cosa, laddove finora, un anno e più, non ha potuto comportare la menoma attenzione a checchessia1.
Questi mesi ultimi ho potuto adoperare la mente di quando in quando, e scritto molte cose, ma tutte informi2.
Io sto competentemente bene del corpo. L’animo, dopo lunghissima e ferocissima resistenza, finalmente è soggiogato e obbediente alla fortuna. Non vorrei vivere; ma dovendo vivere, che giova ricalcitrare alla necessità? Costei non si può vincere se non colla morte3.
Il riso intorno agli uomini ed alle mie stesse miserie, al quale io mi vengo accostumando, quantunque non derivi dalla speranza, non viene però dal dolore, ma piuttosto dalla noncuranza, ch’è l’ultimo rifugio degl’infelici soggiogati dalla necessità... La mia salute non è buona, ma competente, e tale che in quanto a lei non dovrei disperare di vivere a qualch’effetto. Vo lentamente leggendo, studiando e scrivacchiando. Tutto il resto del tempo lo spendo in pensare e ridere meco stesso»4.
I miei mali, benché non sieno dileguati, pur si vanno scemando5.Molte cose scrisse allora, ma tutte «informi», materia per opere, anzi che opere. Rimasero progetti. Tra gli altri era questo: una scrittura delle lingue, e specialmente «delle cinque che compongono la famiglia delle nostre lingue meridionali, greca, latina, italiana, francese e spagnuola». E questo rimase in mente, come il trattato sulla Condizione presente delle lettere italiane, del quale il Cugnoni ha pubblicato lo schizzo. Sono indicazioni generalissime, pur sufficienti a mostrare con quanta larghezza aveva concepito l’argomento. Lamenta la poca popolarità e la superficialità degli scrittori, onde nasce il difetto di buoni libri «educativi e scientifici»; l’imitazione del classico e dell’antico, buona in sé, ma dannosa «senza l’unione della filosofia colla letteratura, senza l’applicazione della maniera buona di scrivere a’ soggetti importanti, nazionali e del tempo, senza l’armonia delle belle cose e delle belle parole». Riconosce il polimento ricevuto oggi dalla poesia, lo sgombramento delle riempiture, de’ tanti ornati vani; ma nota a un tempo il decadimento della poesia veramente e totalmente originale e ardita. Osserva «la totale mancanza di vera prosa bella italiana, inaffettata, fluida, armoniosa, propria, ricca, efficace, da cavarsi da’ trecentisti, dagli altri scrittori italiani, da’ greci quanto a moltissime forme, da’ latini quanto a moltissime così forme come parole, che si possono ancora derivare nella nostra lingua, e adattarvele mollissimamente, arricchendola, oltremodo». Vuole che lo scrittore si adatti al gusto corrente, scrivendo libri nazionali e da contemporanei, come facevano gli antichi. Indica i campi quasi ancora intatti nella nostra letteratura, l’eloquenza italiana da crearsi, la lirica, la commedia da rifabbricarsi. Oggi queste sono opinioni ammesse; ma chi si conduce a que’ tempi, e ricorda il vacuo purismo e il vaporoso romanticismo, con tante lotte e dispute letterarie sulle quistioni più elementari, ammirerà lo sguardo chiaro e profondo di questo giovane, e la sua libertà e originalità di giudizio. Aveva costume di notare i suoi pensieri, e doveva già averne fatto una bella raccolta, perché spesso rimette a quelli i lettori, come dove parla della commedia italiana.
Di abbozzato ci erano pure certe sue «prosette satiriche», Il disegno apparisce da queste parole a Giordani (6 agosto):
Quasi innumerabili generi di scrittura mancano agli italiani, ma i principali sono il filosofico, il drammatico e il satirico. Molte e forse troppe cose ho disegnate nel primo e nell’ultimo; e di questo (trattato in prosa alla maniera di Luciano, e rivolto a soggetti molto più gravi che non sono le bazzecole grammaticali a cui lo adatta il Monti) disponeva di colorirne qualche saggio ben presto.
Scrivendo al Giordani, butta fuori tutte quelle sue idee sulla nostra letteratura, che allora andava accennando nei suoi schizzi e pensieri. Voleva scrivere «dialoghi satirici alla maniera di Luciano, ma tolti i personaggi e il ridicolo dai costumi presenti, o moderni», e applicati a soggetti importanti, e non a «bazzecole grammaticali», come aveva fatto il Monti. Questi dovevano essere «piccole commedie o scene di commedie», provandosi così di dare all’Italia un saggio «del suo vero linguaggio comico, e in qualche modo anche della satira».
Già da qualche tempo gli brulicava nel cervello un nuovo esemplare di prosa, come s’è visto. Ora le sue idee sono più determinate, e intorno alla materia e intorno alla forma. Innanzi tutto, al filologo succede il filosofo. Lascia stare i comenti promessi al Mai, e i suoi studi «non cadono oramai sulle parole, ma sulle cose». E continua così in una lettera a Giordani del 20 novembre 1820:
Né mi pento di aver prima studiato di proposito a parlare, e dopo a pensare, contro quello che gli altri fanno; tanto che se adesso ho qualche cosa da dire, sappia come va detta, e non la metto in serbo, aspettando ch’io abbia imparato a poterla significare. Oltre che la facoltà della parola aiuta incredibilmente la facoltà del pensiero, e le spiana e le accorcia la strada. Anzi mi sono avveduto per prova, che anche la notizia di più lingue conferisce mirabilmente alla facilità, chiarezza e precisione del concepire. La poesia l’ho quasi dimenticata, perch’io vedo, ma non sento più nulla.
Leopardi aveva ragione. Niente è più acconcio a sviluppare l’intelligenza che una buona educazione letteraria. Posta la base, si rivelano in lui nuovi bisogni intellettuali, e, maestro di sé, comincia i suoi studi filosofici, e, come scrive altrove, «quali sono oggidí, non quali erano al tempo delle idee innate». Ciò vuol dire che studiava i sensisti, ancora in voga, i quali non ammettevano le idee innate. Certo, la filosofia era allora in aperta rottura con i sensisti, e Locke e Condillac non erano più l’ultimo suo termine. Chiamava egli «oggidì» quello che in filosofia era già ieri. Ma cosa farci? In Italia, figurarsi poi in Recanati, la scienza giungeva di seconda mano, e a tutto suo comodo. Anche ai tempi miei, la logica dell’abate Troisi era il «non plus ultra», e dopo, Galluppi parve un miracolo. Quanto alla forma, già non gli pare più un esemplare la prosa di Giordani, il quale egli chiama la misura e la forma della sua vita, sì che «quanto vive e quanto pensa e quanto si adopera non è quasi ad altro fine che d’essere amato e pregiato da lui». Ma l’affetto e la riverenza non gli nasconde «l’oscurità e la fatica» di quella prosa, e vagheggia una lingua filosofica, senza la quale «l’Italia non avrà mai letteratura moderna sua propria, e non avendo letteratura moderna propria, non sarà mai più nazione». Vuole scrittori e non copisti, cioè filosofi inventivi e accomodati al tempo, i quali, oltre all’«esortare», diano notabile esempio di filosofia e di buona lingua.
Con questi propositi voleva scrivere delle lingue, e trattava anche materie filosofiche. È chiaro che quelle certe sue «prosette satiriche» erano abbozzate con questo fine, e ne uscirono poi i Dialoghi e le Operette morali. Era il tempo de’ puristi, che ti davano parole e non cose, e si stavano contenti allo «esortare», alla vacua facondia, e si addottoravano sulle sue poesie. Il giovane, oscillante nella sua prima giovinezza tra la licenza e la pedanteria, si allontana da’ romantici, ne’ quali trova soverchia licenza, e da’ puristi, ne’ quali trova pedanteria, e fin da Pietro Giordani, il suo caro; e cerca una forma di scrivere sua, che dia all’Italia una prosa filosofica, e l’avvicini alla letteratura moderna.
A questi tentativi e disegni era propizia non solo la sua salute migliorata, ma ancora uno stato più tranquillo dell’animo, disposto a ridere, anzi che ad affliggersi.
Essendo stanco di far guerra all’invincibile, tengo il riposo in luogo della felicità; mi sono coll’uso accomodato alla noia, nel che mi credeva incapace d’assuefazione, e ho quasi finito di patire. Della salute sto come Dio vuole: quando peggio, quando meglio; sempre inetto a lunghe applicazioni.
Così scriveva a Giordani il 26 ottobre del 1821. Sicché questo suo stato dura dallo scorcio del 1820 a tutto il 1821. — Mi avvezzo a ridere e ci riesco — , dice a Pietro Brighenti. Non è più attore, fa lo spettatore, che guarda e fischia. Da queste disposizioni escono i suoi abbozzi filosofici satirici. La poesia è dimenticata, perché «vede, e non sente più nulla».
Ma non tiriamo conseguenze frettolose e assolute. È uno stato non fisso, sì che diventi seconda natura. È un umore, anzi che uno stato. Tornerà il pianto, tornerà l’attore. Il vulcano non è spento. E anche ora, chi guarda bene, in mezzo a quel riso vedrà non so che convulso e sforzato, come di chi vuol ridere e non ci riesca: c’è troppo amaro condensato sotto a quel riso. È facile dire a Brighenti: — Ridiamo insieme — . Ma non gli esce dalla penna né un frizzo, né un epigramma, nessun tratto di spirito che riveli o allegrezza, o sincero acquetamento. Anzi la penna geme e freme.
Tutti noi combattiamo l’uno contro l’altro, e combatteremo fino all’ultimo fiato, senza tregua, senza patto, senza quartiere. Ciascuno è nemico di ciascuno... Del resto, o vinto, o vincitore, non bisogna stancarsi mai di combattere e lottare e insultare e calpestare chiunque vi ceda anche per un momento. Il mondo è fatto così, e non come ce lo dipingevano a noi poveri fanciulli. Io sto qui, deriso, sputacchiato, preso a calci da tutti, menando l’intera vita in una stanza, in maniera che, se vi penso, mi fa raccapricciare. E tuttavia mi avvezzo a ridere e ci riesco.
E non è vero. Non ci riesce. È un riso di mala grazia; la vuol dare ad intendere a sé e agli altri. Perché subito soggiunge:
E nessuno trionferà di me, finché non potrà spargermi per la campagna, e divertirsi a far volare la mia cenere in aria.
Non è un riso filosofico e artistico, è uno sforzo mal riuscito di riso, per non darla vinta, sì che nessuno trionfi di lui. In questo bellissimo brano di lettera, così concitato e così incisivo, uscitogli in un momento di umore feroce, si rivela al vivo la sua doppia tendenza, e a farsi spettatore di sé stesso ed esaminarsi e generalizzarsi, e a sentire acutamente i suoi dolori sotto l’apparenza mal dissimulata di filosofica noncuranza. Il cuore è ferito e manda sangue, e resiste all’intelletto, e il riso ci sta male su quella faccia scarna e pallida.
Chi studia un po’ la sua corrispondenza epistolare in questo spazio di tempo, vedrà come facilmente scoppii il suo sdegno alla minima occasione con una sincerità ingenua, sì che il vulcano rimane intero sotto a quel riposo e a quel riso.
La rivoluzione, sulla quale si fondavano tanti castelli, soggiacque al primo urto degli austriaci, malgrado i vanti, e il giovane scettico, colto egli pure da entusiasmo, a quello spettacolo di millanteria e di vergogna, uscì in una risata feroce, che voleva dire: — Ed io che ci aveva creduto! — E gli si volgeva in mente quella satira, che poi uscì sotto nome di Paralipomeni.
Allora pose da parte la teoria del martirio e dell’azione immediata, che s’intravvede nelle sue canzoni, massime nell’ultima al Mai, e presto fu d’accordo con Giordani, che la rigenerazione d’Italia non poteva essere effetto di moti subitanei, e richiedeva l’opera lenta del tempo, come si vede dalla loro corrispondenza in quell’anno. Ci fu scambio di progetti rimasti tali nell’uno e nell’altro, il cui scopo era di restaurare l’istruzione e l’educazione nazionale.
In ogni modo, scrive a Giordani, proveremo di combattere la negligenza degl’italiani con armi di tre maniere, che sono le più gagliarde: ragione, affetti e riso.
Ci sono parecchi disegni suoi con questo fine. Voleva fare un Elogio del general polacco Cosciusco, «sull’andare della vita di Agricola scritta da Tacito, eloquente e storica al tempo stesso, passionata per rispetto alla somiglianza, che hanno le sventure della Polonia con quelle d’Italia. Volendo celebrare un uomo illustre per vero ed efficace amor patrio, non l’ho trovato in questi tempi in Italia, e m’è convenuto ricorrere agli stranieri». Felicitando il generale e la Polonia «dei travagli sostenuti per difendere la loro indipendenza», rinfaccia all’Italia «che ancora non si possa dire una minima parte di questo a riguardo suo». Ricorda certi suoi «pensieri intorno al raffreddamento dell’amor patrio, a proporzione che coll’incivilimento cresce l’egoismo». Gli passa anche per la mente la Vita del general Paoli, difensore della Corsica, che «sarebbe un bel soggetto». Concepiva pure un «romanzo storico sul gusto della Ciropedia, contenente la storia di qualche nazione prima grande, poi depressa, poi ritornata in grande stato per mezzi, che si dovrebbono fingere simili a quelli, per li quali si può sperare o desiderare che l’Italia ricuperi il suo buon essere... Il romanzo dovrebb’essere pieno d’eloquenza, rivolta tutta a muovere gl’italiani, onde il libro fosse veramente nazionale e del tempo». Volgeva anche in mente di scrivere «Vite de’ più eccellenti capitani e cittadini italiani, a somiglianza di Cornelio Nepote e di Plutarco, destinate a ispirare l’amor patrio per mezzo dell’esempio de’ maggiori, aiutato dall’eloquenza dello storico, da una frequente applicazione ai tempi presenti, dalla filosofia, dalla possibile piacevolezza dei racconti, ecc.».