Giacomo Leopardi/Appendice/I. Lezione introduttiva al corso leopardiano
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I
LEZIONE INTRODUTTIVA AL CORSO LEOPARDIANO
Negli scorsi anni ho abbozzato l’immagine di due scole rivali e molto simili ad un tempo, in cui si divise l’Italia, rivoli di scole europee, ma con fisonomia propria, determinata specialmente dalla comune aspirazione all’unità nazionale: la scola liberale, capo Manzoni, e la scola democratica, capo Mazzini.
Ho indicato i caratteri loro di simiglianza e di differenza, e tra gli altri questo importantissimo, che non furono più semplicemente letterarie, come era un tempo, ma vi si mescolarono fini politici, morali, religiosi. Sicché, mentre le scole letterarie non hanno azione che su d’un circolo ristretto di uomini colti, di letterati, queste due meritarono aver azione su tutta la società italiana. Sopra quei fini e sopra quelle intenzioni sparse il suo umore il Guerrazzi, il suo comico il Giusti, la sua tristezza ed il suo disdegno Giacomo Leopardi: i tre fuori posto, i tre eccentrici, de’ quali ciascuno può, più o meno, essere avvicinato a qualcuna di esse scole, per esempio Guerrazzi alla democratica, Giusti alla moderata-liberale, ma che, nel fatto, hanno una personalità così propria che fanno parte da sé.
Volevo seguitando un certo ordine, cominciare dal più piccolo de’ tre, o, usando parole più riverenti, dal meno grande de’ tre, dal Guerrazzi; poi sarei venuto al Giusti, e poi avrei chiuso il mio lavoro col massimo, che ha valicato le Alpi, che non è più italiano, è divenuto europeo, con Giacomo Leopardi. Ma, come il presente è di oro e l’avvenire di rame, e del presente posso disporre ora e dell’avvenire non saprei, mi appiglio all’ultimo, e consacro questi studi a lui che, col Manzoni, è ritenuto ciò che di più alto ha avuto l’Italia nel nostro secolo.
Per fare una critica del Leopardi bisogna uscire dal sistema ordinario e cercare, innanzi a tutto, e porre avanti ad essa una base di fatto. La critica, che opera colla sola intelligenza e non tien conto di questa base, è una critica «a priori»; e in gran parte tal’è la critica fatta sinora intorno a Leopardi.
Cos’è questa critica? Pigliate una poesia e non dite chi è l’autore, e non il tempo in cui apparve: la poesia si presenta da sé. Senza pure sapere se sia di Leopardi, se sia del secolo XVIII o del XIX, voi potete applicarvi certi criterii artistici, che vi sono suggeriti dall’intelligenza. Quelli che credono in Aristotele ed in Orazio, la giudicano con Aristotele e con Orazio; quelli che hanno imparato l’estetica di Hegel, applicano l’estetica di Hegel. Questa chiamo critica «a priori»: il lavoro considerato indipendente dallo spazio e dal tempo.
Io, per esempio, ho scritto un saggio sulla canzone di Giacomo Leopardi Alla sua donna, e quel saggio, quantunque pubblicato durante la mia emigrazione, non era che una reminiscenza di lezioni fatte nella mia scola antica, prima del 1848. In quella scola s’era dato bando alla rettorica, s’era divenuti familiari con le critiche e con le estetiche allora in voga, col Villemain, col Cousin, con lo Hegel stesso, perché insegnai lo Hegel due anni. È naturale che il maestro non abbia che applicato a quella canzone tutti quei criterii estetici.
Siffatta critica può anche stare, ed essere vera se, sopra a tutto, il lavoro dell’intelligenza è accompagnato da squisitezza di gusto e di sentimento. Se siete un uomo di gusto e anche di giusti criterii d’arte, potete farla, la critica «a priori»; ma è sempre critica insufficiente, che non tien conto di certi elementi vivi anche dell’arte e che danno la fisonomia al lavoro. Quando con l’intelligenza si applicano de’ caratteri poetici ad un lavoro, essi li abbiamo nelle loro generalità, come li dà la scienza, ma non li vediamo emergere dal cervello dell’autore, dal suo stato psicologico, dalle condizioni del suo tempo, che pur danno a quei caratteri vita e realtà.
Se vogliamo spiegare una macchina a vapore, possiamo farlo senza sapere l’inventore né il tempo in cui fu inventata. È una produzione puramente meccanica, su cui non rimangono stampati i segni del cervello che l’ha inventata. Ma la poesia! La poesia è una produzione organica, è la figlia del mio cervello, e lì sono stampati i segni visibili paterni; e non è che quei segni, come soldati, si ordinino sotto un duce supremo, sotto quei caratteri; ma sono quei caratteri che vi s’incarnano, e di generalità diventano individui, e vi danno il lavoro animato, vi danno la vita.
Questo è tanto importante che una base di fatto si è voluta imporre anche all’arte. Una volta i poeti non avevano bisogno di studiare il fatto, creavano di fantasia: Alfieri faceva il Filippo senza studiare la Spagna, Voltaire il Maometto senza conoscere l’Arabia. Che sono Filippo e Maometto? Personaggi fantastici, dove c’è una parte di verità: c’è il poeta e il tempo in cui uscivano. Ma non è la verità di quei personaggi, che sono qualcosa di distinto dal poeta e dal suo tempo. Manzoni, primo in Italia, cercò dare all’arte anche una base di fatto, e, prima di concepire Carlo Magno, faceva studi profondi sui tempi di Carlo Magno, e, prima di concepire i Promessi sposi, faceva studi storici abbastanza importanti su quel tempo al quale il romanzo si riferisce.
Una base di fatto, per l’arte, è utile, non necessaria. È utile, perché l’autore, immergendosi in quei fatti, si spersonalizza, diviene obbiettivo, attinge la sua ispirazione nel mondo estraneo a sé. Ma non è necessaria. Che importa se Carlo Magno, come l’ha concepito Manzoni, non è il Carlo Magno del Medioevo? Che importa se l’Ermengarda non è proprio quella principessa del Medioevo, su cui studiò tanto? È arte, e a noi basta, e non domandiamo altro.
Ma se al poeta non è necessaria la base di fatto, pel critico è indispensabile, è condizione «sine qua non». Capisco che un critico possa creare un Leopardi di fantasia. Certo si può lodare il suo talento artistico, ma egli non adempie alla sua missione di critico. Poiché la critica non crea, ricrea; deve riprodurre; e, se la riproduzione è infedele, anche bellissima, lode a lui come artista, biasimo a lui come critico. La sua produzione è bella, ma non vera. È una costruzione arbitraria, come avviene spesso quando si lavora con la sola intelligenza.
L’intelligenza, quando lavora, è tirata da due istinti fatali, che trascinano i più eminenti; anzi sono i più grandi quelli che vi sono più sottoposti. Chi lavora con la intelligenza pensa, anzitutto, a trovare l’unità, va in cerca d’un concetto unico che gli spieghi tutto quel mondo poetico, fa come i metafisici che non possono spiegarsi l’universo se non cercano un primo, che sia presente in tutte le parti. E poi, una volta che credono averlo trovato, non sono più liberi, sottostanno all’altra legge fatale, poiché, essendo l’intelligenza solamente logica, trovato l’uno, non possono far altro che da quello derivare logicamente il resto; e all’ordine cronologico naturale sostituiscono l’ordine logico, il modo secondo cui quell’uno si va svolgendo nel loro pensiero. Questa è la critica «a priori»; unità di concetto che non tiene conto delle differenze, un ordine logico che non tiene conto della realtà.
Ad esempio, citerò lo stesso Giacomo Leopardi, che, quando aveva trentasei anni e non creava più, ma esaminava quel che aveva creato; quando quel mondo, che gli si era successivamente formato con le vicissitudini della realtà, lo ebbe innanzi tutto intiero e poté esaminarlo, la sua intelligenza non poté sottrarsi alle due leggi fatali. Come Tasso, fatta la Gerusalemme, credé trovarvi l’allegoria cui non aveva mai pensato, e spiegò quelle avventure con certi criterii morali; Leopardi, esaminando il suo mondo come un tutto già formato, credé di trovarvi un concetto unico, che gli spiegasse tutto, e che, chi consideri la sua vita, non sempre gli era stato innanzi. E poi, altra fatalità, lo spiegò con l’ordine logico; e lui che meglio di tutti sapeva il tempo che compose le sue poesie, travolse l’ordine e ne scelse un altro, derivato da quel concetto.
Pensai questo, quando vidi l’edizione napoletana dei suoi Canti, pubblicata da Antonio Starita, che aveva ordine diverso dalle altre. Questo nuovo ordine fu l’intendimento dell’autore, ed è rimasto inviolabile. E che vi trovate? Per esempio, il Primo amore è collocato al decimo posto: una poesia ch’egli aveva composta nel 1817, di diciannove anni, prima della canzone All’Italia, con cui s’apre il libro. Seguono quattro o cinque poesie, il Passero solitario, l’Infinito, Alla luna, che sappiamo composte prima della canzone Ad Angelo Mai.
Il motivo di quest’ordine logico, a cui lo stesso Leopardi ha voluto sottoporre le sue poesie, è che il concetto unico delle sue opere sarebbe — e quel che dice Ranieri, è quel che pensava Leopardi — «il mistero del dolore». Tutto vien sottoposto a questo concetto. Voleva spiegare cosa è il dolore, e se studiò greci e latini fu per trovarne la spiegazione; e se compose la canzone All’Italia, fu anche per trovare la spiegazione del dolore. Così questo diventa un concetto predeterminato nella mente di Leopardi.
E vedete come lavora fatalmente l’intelligenza! N’esce l’ordine logico. Il dolore si può manifestare nel mondo intellettuale estrinseco, nel mondo intellettuale intrinseco e nel mondo materiale; e Leopardi, sin da principio, ebbe quest’ordine in mente, e prima cantò il dolore nel mondo intellettuale estrinseco, poi nell’intellettuale intrinseco, e poi nel materiale. Alla prima categoria, quindi, appartengono i primi otto canti, che cantano il dolore nel mondo intellettuale estrinseco, la caduta dell’Italia e della libertà. Alla seconda gli altri venti canti, che rappresentano il dolore nel mondo intellettuale intrinseco, la caduta delle illusioni pubbliche e private. Gli altri appartengono alla terza categoria, a quella del mondo materiale, e cantano la necessità, il fato, la morte. Ma questa è costruzione artificiale, concetto generale distribuito in varie parti, e i Canti costretti a servire a quel concetto. È un esempio abbastanza autorevole delle conseguenze della critica «a priori».
Bisogna cominciare con una base di fatto. E intendo per base non la cognizione di alcuni fatti o d’una congerie di fatti, che non mancano a nessuno che si occupi di Leopardi, ma un risultato di fatto, lo stato reale psicologico dell’autore, come venne formato dai suoi tempi, dalla famiglia, dalle circostanze della sua vita, dal suo ingegno, dal suo carattere. E se il critico non comincia dal possedere quel risultato, corre rischio di fare un edifizio campato in aria, sì che un fatto nuovo che si scopra basta a farlo crollare tutto intero.
Ho citato me stesso quando parlavo della critica «a priori». Permettete aggiunga che, quando fui in età più matura e, abbandonate le imitazioni estetiche o critiche, cominciai a lavorare col mio cervello, fui primo o tra’ primi a dare esempio di questa critica nel saggio sulla Prima canzone di Leopardi. Lì credei dover rifare tutta la vita di Leopardi sino al tempo che la scrisse, non minutamente raccontando, ma ponendo i risultati; e quando interrogai quella canzone, mi trovai con la base messa al mio edifizio; e se quei fatti non rimasero indifferenti alla canzone, se ebbero influenza sul carattere e sulla forma di essa e la determinarono; se è uscita da quell’esame forse alquanto impicciolita rispetto all’alto concetto che se ne avea, la colpa non è mia, che andavo rintracciando Leopardi qual era, non quale l’hanno fantasticato.
Persevererò ora. Ed a cagion d’onore voglio nominare un valente giovane che si è messo in questa via, Paralipomeni: giudizio severo, ma acuto e giusto.
, che primo ebbi l’onore di presentare all’Italia come giovane di grande aspettazione, il quale ha consacrato tutti i suoi studi a Leopardi e non è venuto meno alla aspettazione nel lavoro suiI materiali abbondano. Abbiamo tre ponti di cui servirci a costruire la base di fatto. Innanzi tutto un articolo molto importante, scritto nel 1840 dal celebre Sainte-Beuve e pubblicato nella Revue des deux mondes. Quell’articolo rimane, perché, se l’edifizio innalzato dal Sainte-Beuve è manchevole e mediocre, la base è incrollabile, avendo egli avuto la ventura di procurarsi le più esatte informazioni sulla vita e le opere di Leopardi. Seconda fonte sono gli scritti giovanili di Giacomo, pubblicati da P. Pellegrini con prefazione di P. Giordani, il quale, come si sa, fu il gran trombettiere di Leopardi. Terza fonte preziosissima di materiali, e bisogna ringraziarne Prospero Viani e Pietro Pellegrini, è l’Epistolario, dove lo scrittore è còlto nei più intimi segreti della sua anima, dove talvolta è sorpreso anche in veste da camera, anche nelle debolezze e nelle negligenze proprie dell’uomo.
Sono questi i materiali di cui intendo servirmi, specialmente l'Epistolario. So che questo produsse cattiva impressione in molti: essi si eran formato, con quella tale critica «a priori», ciò che Ranieri dice un «ideale di Leopardi». In un momento d’ira generosa, Ranieri disse: — Voi mi avete ucciso il mio ideale! — Sventuratamente, la storia è la grande omicida degli ideali. Quando in Germania, esaminando le poesie di Leopardi, s’era formato un concetto interessante per lo scrittore e per l’uomo, sopraggiunse l’Epistolario, e fu una spiacevole sorpresa. E finirono con dire che quel mirabile mondo leopardiano fosse non altro che il piccolo effetto della fame, della malattia, e della vanità dell’autore.
Prima di por fine a questa che chiamo introduzione al mio studio su Leopardi, toccherò un altro punto d’investigazione.
Chi vuol fare una critica, non solo deve avere una base di fatto, ma conoscere anche quella che si dice la letteratura di uno scrittore.
In Germania si dice «letteratura dantesca», «letteratura di Goethe», e intendono la raccolta di tutte le opinioni intorno a questi scrittori. Nessuno, in Germania, si mette a trattare una materia senza la piena cognizione di tutto quello che s’è scritto e pensato sulla materia; altrimenti i lavori sarebbero sempre un tornare da capo, il mondo starebbe sempre ad Adamo. Un lavoro è la elaborazione della materia, a pigliarla dal punto fino al quale era stata elaborata prima.
Intorno a questo c’è un lavoro molto esatto del nostro amico Comincio dal suo gran trombettiere, Pietro Giordani, che grande e già provetto, conobbe Leopardi di diciannove anni, ed entrò con lui in corrispondenza. Rimase impressionato dalla grandezza di lui, e ne scrisse due volte: in una prefazione alle Operette morali, e, dopo la morte di lui, in una prefazione agli Scritti giovanili. Leopardi, per Pietro Giordani, è «mirabile monstrum»: sommo filologo, sommo filosofo e sommo poeta. Rispetto al filologo, il Giordani si contenta rimettersene ai giudizii degli stranieri, appo i quali era tenuto grandissimo filologo. I suoi ammiratori molto si adoperarono a dimostrare la sua perizia nel greco e nel latino, e che comentava con acutezza e correggeva i testi, e correggeva anche le opinioni degli scrittori. Parlano di Creuzer, che, in un lavoro importante, fece tesoro di molte osservazioni filologiche e critiche di Leopardi. Certo, dottissimi filologi tedeschi lo avevano caro, ammiravano quei miracolosi lavori per così giovane età: ma per essi che era Leopardi? Un giovane di grande aspettazione; e se Leopardi avesse potuto nella biblioteca paterna trovare tutti i libri di filologia usciti in Germania, e non soltanto gli antichi scrittori, ma anche il mondo moderno, certo aveva attitudine, pazienza e acume a diventare sommo filologo. Quelle sono le promesse di un giovane di grande ingegno. E mi spiego la condotta del De Sinner, che gl’italiani biasimarono con troppa fretta. Egli ebbe in deposito dei manoscritti di Leopardi, ma ne pubblicò appena un sunto; e quando Pietro Giordani pubblicò gli Studi giovanili e gli chiese copia di quei manoscritti, il De Sinner non volle. Parecchi dissero: — È per invidia, per appropriarsi i lavori di Leopardi — ; giudizio temerario, che dobbiamo biasimare. De Sinner non volle e disse: — Non capisco la vostra premura; avete un grande scrittore italiano in Leopardi, e volete farne uno scolare di filologia — .
, di cui ho parlato. Egli ha raccolto le opinioni de’ tedeschi e de’ francesi su Leopardi, e con un po’ d’ironia soverchia, ma scusabile con la baldanza giovanile che si compiace di trovare in fallo i più grandi, ha mostrato tutto ciò che di arbitrario e d’insufficiente si è detto in Germania intorno al nostro autore. Io mi contenterò di notare i risultati di questa letteratura leopardiana.Leopardi era uomo dottissimo, pochi hanno conosciuto tante cose antiche come lui. Era, come Dante, l’uomo più dotto de’ suoi tempi. Peritissimo nel greco, nel latino, nell’italiano, conosceva anche l’ebraico, l’inglese, il francese, il tedesco, lo spagnuolo. E non solo conosceva il greco, il latino, l’italiano nella loro parte materiale, ma ne aveva il gusto e se li aveva assimilati. Potete considerarlo un gran dotto, un letterato eminente e pieno di gusto; ma fin qui e non oltre. Secondo che la filologia si va più svolgendo e piglia aspetto più scientifico, scema la sua fama di filologo.
Viene il sommo filosofo. Che è la filosofia di Leopardi? Nessuno indizio è in lui di scienza puramente speculativa, di quel che fa, per esempio, un metafisico. Tratta un campo assai ristretto della filosofia, la psicologia; ma la tratta non da filosofo, da artista. Non scrive trattati sulla scienza, è un acuto e fine osservatore de’ più riposti misteri del cuore umano, un pittore psicologo più che un filosofo. Non fa trattati, fa ritratti; e tale lo vediamo nei Pensieri e nei Dialoghi, sì che diciamo che quel che è divino in lui, è l’arte.
Di Michelangelo fu detto che aveva tre anime: pittore, scultore, poeta; e in verità in lui il poeta serve ad illustrare lo scultore e il pittore. Così può dirsi che tre anime ha Leopardi; ma il filosofo ed il filologo serviranno solo ad illustrare, a meglio farci apprezzare quella che fu sola e vera grandezza di Leopardi: l’artista.