Gelopea/Atto primo
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ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Ergasto e Filebo.
Erg. Se condurti io volessi
Al loco di fatica,
Non arei meraviglia del rifiuto,
Che tu me ne facesti;
Ma io ti faccio invito
Perché tu venga meco,
A dilettarti nella più gran festa
Ch’abbiano le campagne
Del nostro Promontorio;
A vedere una guerra,
Che noi vogliamo far contra gli uccelli.
Son fatte le capanne; è netta l’aja;
Sono tese le reti;
Ogni cosa apprestata:
Oggi là tutto il fiore
Noi vedrem raunarsi delle ville
Della nostra Posevera.
Saravvi il buon Menalca,
Che nell’età canuta è si giocondo,
E sempre ha sulla lingua
Alcuna novelletta graziosa;
Saravvi Alfesibeo,
Che se in bocca riponsi
Un picciolo fischietto empirà l’aria
Di mille varie voci
Naturali agli uccelli;
Che più? Saravvi ancora
Con la cetera dolce il buon Galicio,
Con la cetera dolce, che si spesso
Facci il letto lasciar per ascoltario,
Tu sai, che quante volte
Ei ne va trascorrendo,
Per gli dolci silenzi della notte,
Noi tutti volentieri
Cangiamo la quiete
Del sonno col piacer di quel bel suono.
Or questo al tuo Segaro, e a me promesse
Di farci udire un canto
Novamente composto per lodare
Le guancie d’Amarilli,
Della qual fatto amante
Ei ne va tulto in foco;
A si fatte allegrezze non verranno
Meno quelle allegrezze,
Che ci danno i piacevoli conviti?
Or volgi nella mente
Che letizia fia quella?
Che festa? che diletto?
Noi miriamo sovente
Abbandonar le case i cittadini
Della gran figlia dell’antico Giano,
E sofferire i gieli,
E sofferire i venti,
Per godere i piacer delle campagne,
Or tu, come disprezzi
Ne’ tuoi proprj paesi
Questi stessi diletti a lor si cari?
Forse che la stagione
Non ci chiama a goder delle foreste?
Alza un poco la fronte;
Mira nel ciel se pur un nuvoletto
Ove vi sai mirare.
Egli è tutto cristalli;
Egli è tutto zaffiri.
Dammi la mano; andiam caro Filebo,
Caro Filebo andiamo:
Noi sarem colassù che la brigata
Sarà raccolta in parte;
Colassù dormiremo;
Come sorga l’aurora e sorgeremo
Anco noi parimente.
Eh che mi par veder, ch’ella se n’esca
Dalla porta del cielo
Fra rose, e fra rugiade;
Già parmi di sentir quell’aura fresca
Quel fresco venticello,
Che vista più gioconda
Puoi sperar da qualunque pastorella?
Io non son già canuto,
E pur non so trovare,
Che ritrovar tu possa nell’amore,
Che tanto ti diletti,
E tanto volentier li facci amare.
Fil. Ed io non son canuto:
E pur non so trovare
Qual diletto tu trovi infra gli uccelli;
Ergasto io volentieri
Rimiro Gelopea,
Perchè son fra seguaci dell’Amore,
Tu dolcemente perdi
Il tempo della vita, perseguendo
Il volo degli augelli.
Altri ben volentieri
S’affanna, travagliando
Per arricchir con zappe, e con aratri.
Ecci alcun, che si gode
D’andar peregrinando, e non paventa
Le fortune del mare;
E così vien, ch’ognuno
È tratto dalla sua propria vaghezza;
Ma perchè tu fai pompa
Con le parole tue di quei diletti,
A’ quali tu m’inviti,
Io così ti vò dire:
Nè conviti, nè canti,
Nè dolcezza d’altrui ragionamento,
Ne sereno di cielo
È tanto prezïoso,
Che si debba cangiar con uno sguardo
Della mia Gelopea.
Che cerchi più bell’Alba?
Qual’oro ebbe mai l’Alba,
Che non perdesse appresso
I biondissimi crini
Di questa pastorella?
Ebbe mai l’Alba rose,
Ebbe mai neve, o gigli
Sulle guancie, e sul seno,
Che non fossero secchi pareggiati
All’amoroso aprile,
Ch’ella porta nel volto?
Quando vedesti in cielo
Un seren così puro
Che posto al paragone
Della sua chiara fronte
Non rimanesse oscuro?
Giungi poi che sovente
Il ciel non è sereno,
E l’Aurora ha le guancie nubilose;
Ma sempre Gelopea
E chiara, ed è lucente.
A che dunque favelli
Della beltà dell’Alba
Per farmi disprezzare una bellezza
Bella via più che l’Alba?
Adunque per innanzi
Taci queste bellezze, e taci ancora
I tuoi fischi, i tuoi canti
Del nostro Alfesibeo,
Del nostro buon Galicio;
Ed i dolci diporti
Del mio gentil Segaro;
Che s’una sola volta
Tu senti Gelopea, che si trastulli
Col suo merlo; Oh cosa veramente
D’infinito piacere!
Ella per sua vaghezza
Con la sua bella voce
Se l’ammaestra, ed or gli va cantando
La canzone, Amarillide, deh vieni;
Or quella che comincia,
Vaga su spina ascosa;
E l’angelletto intento a’ belli modi
Di quella bella voce le risponde,
Vaga su spina ascosa;
Ella per vezzeggiarlo
Qui gli porge la punta del bel dito;
E l’augellin vezzoso,
Dibattendo le piume
S’avventa a quel bel dito per maniera
Che diresti di certo,
Che voglia dargli morsi, ma beato
Poscia gli dona bacio;
Or io per mille volte
Usato a questi canti,
Sai quanto stimo i canti di Galicio?
Quanto se fosser pianti.
Erg. Tu così fattamente
Parli di Gelopea,
Che s’io veduta non l’avessi, certo
Esser la crederei cosa divina,
E pure quante volte
Io l’ho veduta, tante
Ho visto nel suo viso la bellezza,
Che vedo tutto il giorno
Nel viso delle donne;
Cosa per verità da non morirne,
Per non esser a PALLA sì VICINA
Quanto tu miser credi;
Si che temo assoi spesso,
Ch’ella non t’abbia fatto alcuno incanto;
Io odo raccontarsi
Istorie spaventose di costoro,
Che voi chiamate amiche,
Ed io le chiamo peste
Di nostra giovinezza,
Ma pur che fine speri al tuo penare?
Fil. Il fin delle mie pene
Secondo me sarà, quando io sia fatto
Signor di sue bellezze.
Erg. Secondo me signore
Sarai di sue bellezze, o se la sposi,
O se per altro modo tu le godi.
Fil. Goderle, e non sposarla
E fuor di ogni speranza,
E contra il mio volere.
Erg. Dunque devi pregare,
E devi tener modi,
Ch’essa teco si sposi.
Fil. Io non ho risparmiate
Ergasto le preghiere,
Ma mia bassa fortuna mi contrasta,
Suo padre éssi fermato
Di darla ad un bifolco
Padron di molti armenti,
E sdegna un pastorello
Di così poche greggie.
Erg. E mi pesa annunziarti,
Che per queste cagioni
Ella fia di colui;
Che s’egli la desira, ed ha fortuna,
Disiata da loro,
Chi potrà disturbar le costor nozze.
Fil. Le potrà disturbare
Ciò che pur fino a qui l’ha disturbate,
Gelopea non consente.
Erg. Eh speranze di vetro!
Gelopea non consente?
Or se’ tu così folle di maniera,
Che credi, ch’una donna
Vincer non si potrà dalle ricchezze?
Mal conosci i costumi femminili.
Filebo odi l’amico,
Tu negli amor perduto non procuri
I domestici affari;
Tu non pasci la greggia; tu non ari,
Ne fai provvedimento
Alcun per la vecchiezza;
Ella piena di guai
Ti fia tosto alle spalle; e Gelopea
Non ti tornerà giovine; Filebo
Filebo ama te stesso, e non altrui:
Con questo io vo’ lasciarti.
Perchè venir non vuoi: statti con Dio.
SCENA II
Filebo solo.
Gelopea più vaga a rimirarsi,
Ch’un praticel fiorito per l’aprile
Quando si leva l’alba, più soave
A sentirsi parlar, ch’un fiumicello,
Che vada lento lento mormorando
Giù per le rive erbose, più leggiadra
A vedersi danzar ch’un zefiretto,
Che voli su l’erba ripiegando
Le cime tenerelle: o Gelopea
Gloria di questi monti: onor di queste
Valli, lume, e chiarezza di quest’aria,
Tutta bellezza, tutta gentilezza,
Tutta dolcezza, e pur trovansi ciechi,
E pur trovansi sordi, che biasmando
E riprendendo vanno il mio seguirti,
E desiarti? Ma se questi tali
Or mi dessero biasimo, perch’amo
Le mie pupille, doverei cessare
D’amar le mie pupille per udirli?
E che far doverei delle pupille
Se mirar non dovessi la tua fronte?
Le tue guancie? i tuoi labbri? e finalmente
Tutta te stessa? io certo son fermato
Non accettar consiglio, se non viene
A consigliarmi Amore; eternamente
Son per esserti amante; io lo giurai
A’ tuoi begli occhi ardenti; e qui d’intorno
I testimoni son del giuramento,
In mille piante di questa foresta
lo già l’ho scritto; e su per le montagne
In più di mille pietre hollo intagliato:
Esse dureran sempre, e sempre mai
È per durare il mio proponimento;
Io voglio, ch’a costui si doni vanto
Di liberare gli uomini dal biasimo
Di esser di poca fede, ed incostanti;
Or tu dall’altra parte, o Gelopea,
Mostraci, che la grazia, e la bellezza
Non è la sola gloria delle donne,
Ma ch’amano la fede: in queste selve
Sono rare a contar le pastorelle,
Che sian fedeli: ognuna volentieri
Si lascia comandar dalle ricchezze,
E dispregia la fede; or tu sì bella
Non esser così fatta, e per la gloria,
Che a te si donerà della fermezza;
E per la vita mia, che verrà meno
Se tu mi saria tolta. Io veramente
Non ho gregge, nè campi onde servirti
Come Berillo, ma so ben che ’n petto
Richiudo un core, onde posso adorarti
Più, che cento Berilli.