Garibaldi e Medici/I
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CAPITOLO PRIMO.
Arrivo di Garibaldi a Milano
Bella fama, quasi foriera d’uno splendido futuro, precorreva in patria il quarantenne Nizzardo, che fino dall’adolescenza collo svegliato ingegno, colla esemplare rigidezza del costume, colla indomita fermezza del carattere, con ripetuti saggi di non comune arditezza, s’era rivelato nei Collegi a niuno secondo in lusinghiere promesse per l’avvenire.
E ad apparecchiarselo degno della sua grande anima, insofferente di giogo e stomacato dal dispotismo che su larga scala attecchiva a que’ tempi nel Regno Subalpino, fresco d’anni e di precoce virilità, baldo d’arcana non ancora sperimentata audacia, esulò volontario1 in America a respirarvi le vivide aure repubblicane di libertà, a cementarvi apostolato d’amor patrio, ad addestrarvisi nei perigli della marina e delle armi, illustrando così in terra straniera il nome Italiano. E nell’una e nell’altra di quelle due arti di guerra si palesò così ardimentoso e sagace, da sorvolare in breve i primi e secondi gradi della gerarchia militare, fino a raggiungere il ben meritato di Capo-Legione.
E con sì illustre attributo approdava sugli scorci di Giugno al lido natio, a bordo della Speranza, con parte della già sperimentata coorte, seguito dalla sua diletta ed arditissima compagna, la Lagunese Anita: approdava Nazzareno alle sembianze, sfolgoreggiante amor patrio, maturità di senno, prodezza.
Il poter subito accorrere con cento de’ suoi compagni d’arme, quasi tutti stigmatizzati dalle cruenti vestigia del valore, ad offrire il proprio braccio alla madre perigliante, appena seppe dell’italica riscossa, fu per si tenero figlio il realizzarsi degli ardenti sogni, il premio alle durate vicissitudini guerresche, il coronamento dei più fervidi voti ripetutamente pronunciati nel corso del lungo e così fortunoso esiglio.
Ecco infatti con quai nobili parole il Corriere Mercantile di Genova ne annunciava il 29 Giugno l’arrivo: «in questo momento, ore 11 del mattino, il generale Giuseppe Garibaldi sta entrando nel porto, accompagnato da una parte della sua legione, a bordo del naviglio Bifronte armato in guerra con sei pezzi d’artiglieria, proveniente da Nizza, sua città natale, ove approdò, sono ora pochi giorni. La città si prepara ad accogliere questo suo prode concittadino con dimostrazioni di vera simpatia. Il popolo è impaziente di seguirlo: toccherà ora al Governo emulare e il popolo, assegnando al valoroso un posto degno di lui.»
Non appena però il Generale ebbe riabbracciati la già vedovata genitrice, i consanguinei e gli amici ch’egli rinvenne ancor viventi nelle due città marittime a lui fin dall’infanzia care a somiglianza di dilette sorelle, impaziente di indugi, anelante di misurarsi sugli italici campi già tanto insanguinati e spronato dall’uragano che vedeva addensarsi sul capo dell’amato paese, volò a Torino, a quell’epoca sede delle due Camere, ad offrire al Governo i propri servigi. Ma sospetto qual’era di repubblicanismo, per avere già gloriosamente pugnato a pro’ di repubblica in terra straniera (a Montevideo), il Governo piemontese, peccante un po’ di timidezza e di servilismo, con belle frasi respinse il predestinato a tanta apoteosi.
Benchè fremente di sdegno per simili tergiversazioni, avvezzo qual’era, non già a cedere, ma ad irritarsi degli ostacoli, sotto l’usbergo della sua indomita fermezza e del suo culto alla patria, coll’aspirazione febbrile a propugnarne l’indipendenza, volò il 2 luglio al quartiere generale posto allora a Roverbella e, presentatosi a Carlo Alberto, gli espose coll’accento della lealtà i suoi nobili propositi, i suoi patriottici intendimenti. Il magnanimo Re, più liberale de’ suoi cortigiani, fece lieta accoglienza all’Eroe del Nuovo Mondo e, dimentico del passato, lo consigliò a restituirsi tosto alla Capitale Subalpina, onde prendervi in suo nome gli opportuni concerti sul modo più utile di impiegare una Legione di Volontari, che lo autorizzava a sollecitamente organizzare.
Giubilante per l’ottenuto incarico, rifece la via a Torino; ma riescitegli ancor vane le ripetute istanze, benchè convalidate dalla parola del Re, si rivolse al Governo Provvisorio di Lombardia, che, quantunque costituito esso pure in parte d’uomini peccanti di timidezza, spaventato forse dall’imminenza del pericolo, gli segnò il reale mandato.
Tutto questo pencolare causò all’impaziente Condottiero lo spreco di giorni preziosi, che avrebbero potuto tornare molto utili alla causa santa, per la quale egli aveva attraversato l’Atlantico ed abbandonato il suo Montevideo.
Scelta quindi la Capitale Lombarda a sua brevissima sede, la sera del 15 luglio dal balcone della Bella Venezia, importante albergo posto, come anche ai dì d’oggi, in Piazza San Fedele, al popolo stipato a festeggiarlo, vibrò col suo linguaggio incisivo e guerresco le seguenti parole:
«Cari Milanesi! Vi son grato delle vostre ovazioni: ma questo non è tempo da gridi e da ciarle; è tempo da fatti. Pur troppo lo sgherro nemico ha ripreso lena e coraggio. Noi dobbiamo sbarrargli la via al ritorno in queste belle contrade, da lui per mezzo secolo in ogni guisa contaminate. Teniamoci saldamente uniti, per poter fare da noi, senza intervento straniero. Mi raccomando alle lombarde donne perchè inanimino i loro cari figli, fratelli, mariti a e dar mano alle armi.
Noi ricacceremo il ladrone nelle sue selve, purchè vi dimostriate degni fratelli dei prodi caduti nelle vostre cinque gloriose giornate. Il valore dimostrato dai Milanesi in quella recente eroica lotta, mi è caparra delle sorti fortunate ch’io auguro alla patria nostra. Viva dunque Milano! Viva l’Indipendenza Italiana! e buona notte!»
Così dicendo si ritirò a riposo; quantunque replicatamente acclamato dalla folla entusiasta, sovreccitata da quelle frasi improntate di virile fermezza e di superstite latina virtù.
Il giorno susseguente fu per ordine del generale Garibaldi aperto, presso l’albergo Marino, registro d’arruolamento di Volontari, destinati a comporre la progettata Legione. Giacomo Medici, uno dei più fidi e più devoti ammiratori e seguaci del glorioso reduce da Montevideo, ebbe l’onore del mandato di ricevere le iscrizioni e di capitanarne l’avanguardia, appellata Anzani2 dal nome d’un prode Colonnello che ritornò già malato con Garibaldi in Italia e soccombette dopo pochi dì dall’aver messovi piede. Al saggiamente prescelto arruolatore fu dal Generale impartita severissima istruzione: che a comporre l’avanguardia non dovessero far parte se non uomini che con validi documenti, o attendibili testimonianze, provassero di essere già stati battezzati al fuoco.
Pel fiore della gioventù Lombarda, o avanzo delle gloriose barricate, o reduce dalle infelici scorrerie consumate coi disciolti Corpi Volontari nella prima fuga dell’Austriaco, o gloriosi superstiti di qualche già debellata Veneta Città, fu seducente il forte invito; sì che numerosa rispose subito all’appello. L’elemento più nobile e più vigoroso della giovine generazione che si sentiva atta alle armi, buttato in un angolo chi la penna, chi il pennello, chi lo scalpello, corse ad iscriversi sotto la bandiera del già prestantissimo Duce, che, colla sua nota intuizione degli uomini, aveva eletto a primo intermediario fra sè e le novelle reclute la geniale figura del milanese Giacomo Medici, suo compagno d’America e già guerrigliero in Ispagna. E assai opportunamente: dacchè esso pure, coll’affabilità del linguaggio, colla squisita cortesia de’ modi, coll’ineffabile bontà di cui dava saggio ad ogni incontro, inspirava tale fiducia da trascinare gli animi a ciecamente seguirlo.
In pochi giorni la compagnia scelta d’avanguardia superò la cifra richiesta a comporre il Battaglione3, ed il Governo Provvisorio, viste le proporzioni che prendeva l’arruolamento, allo scopo di allontanarlo da politiche combustioni e pericolose influenze, ordinò al Generale di trasferirsi immediatamente a Bergamo, onestando e velando la presa risoluzione coll’accampato bisogno di meglio serragliarvi le file e di trovarsi strategicamente parato ad ogni evento.
Note
- ↑ L’amico mio, il prode Colonnello Missori, mi rettificava più tardi questo particolare della vita avventurosa del Generale asserendomi che, affigliato qual’era alla setta dei Carbonari, si compromise nel 1833 in modo da esser condannato nel capo. A stento si rifugiò a Marsiglia, dove s’imbarcò per l’America.
- ↑ Questo eroe merita un particolare cenno biografico.
Francesco Anzani, nativo di Alzate, villaggio della Brianza nella provincia di Como, ne esulò giovinetto per istinto di libertà, per irresistibile vocazione all’armi, alle quali si addestrò prima in Ispagna poi in Portogallo, guadagnandovi le spalline di Capitano.
Cessata quella guerra fratricida, attraversò l’Atlantico e recossi a Montevideo, ove s’affratellò a Garibaldi seguendone il già glorioso vessillo. Nominato Colonnello dopo luminose prove di valentìa, nella famosa giornata del Salto emulò l’immortale minatore piemontese Pietro Micca nell’intrepidezza. Ferito e circondato da soverchianti forze nemiche, colla miccia accesa dinanzi alle polveri della batteria, minacciò seppellirvisi sotto le rovine, anzichè arrendersi.
Dopo pochi dì dal suo arrivo in patria, già stremato di salute, fu sopraffatto dal male a Nizza, ove morì il 13 luglio 1848, confortato fino agli estremi dal suo amicissimo Giacomo Medici.
I suoi terrazzani ne reclamarano la salma, che fu degnamente compianta nel suo tragitto per Milano. Di quì il prezioso deposito fu recato ad Alzate, ove ora da 34 anni riposa sotto quelle zolle, che prime offrirono un cammino ahi! troppo ingannatore di verzura e di fiori ai suoi passi infantili. - ↑ Oggi che scriviamo dopo tant’anni queste Memorie, ben pochi sono i superstiti di quella eletta schiera, che fornì poi tanta valorosa ufficialità nelle sopravvenute campagne, combattute per l’Indipendenza Italiana, sempre al seguito dei due strenui Condottieri Garibaldi e Medici. Molti di essi nel 1861, all’epoca della fusione dei due eserciti, il Garibaldino ed il Regolare, riconosciuti idonei ad incorporarsi in quest’ultimo, vi salirono ai sommi gradi, glorificando con sè stessi la loro origine.