Fu il fuoco o l'acqua che sotterrò Pompei ed Ercolano?/Lettera seconda
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II.
LETTERA SECONDA
Di C. Lippi
Professore delle scienze delle miniere nell'Accademia
di Freyberg in Sassonia.
Sul sotterramento di Pompei per via umida; ossia
per effetto di reiterate, e consecutive alluvioni,
cagionate da dirotte piogge, e non già dalla caduta
delle ceneri volcaniche, lanciate in aria dal Vesuvio nell'eruzione dell'anno 79 dell'Era Cristiana,
primo dell'Imperatore Tito, siccome da
XVII secoli unanimemente pretende la storia.
Napoli li 24 novembre 1810
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Non ve l'ho detto nella mia precedente, che sospettava essere stato Ercolano sotterrato non da una pioggia di ceneri volcaniche, lanciate per aria dal Vesuvio nell'anno 79, ma da qualche alluvione, che vi strascinò sopra materie precedentemente eruttate dal volcano, siccome avvenne a Pompei?
La mia gita del dì 26 del passato Ottobre nel tanto rinomato Ercolano, ha messo fuor di dubbio, e dimostrato solido il mio sospetto, e da questo giorno deve, certamente, prender origine l'epoca in cui la storia dovrà riguardare questa città sotterrata dalle acque, e non già dal fuoco, ossia dal Vesuvio.
Intanto prima di passare più oltre, stimo pregio dell'opera il mettervi innanzi agli occhi le testimonianze degli autori, che ho presentemente per le mani, affinché non vi sia più dubbio alcuno intorno alla credenza generale degli scrittori, relativamente all'avvenimento d'Ercolano e di Pompei, avvenimento ch'è diventato già un punto troppo famoso e classico nella storia, e ch'io combatto.
Dione Cassio parla così<ref>Hist. Rom. tom. 11 lib. LXVI. «Per id tempus accidere in Campania orribilia quaedam, quae magnam admirationem habent. Nam sub autumni tempore ingens incendium de repente excitatum est. Vesuvius mons mare spectat ad Neapolim habetque fontes ignis uberrimos [...] Res ita se habuit: magnus numerus hominum, magnitudine sua omnem humanam naturam excedentium, quales gigantes gignuntur modo in monte, modo in regione circumjacente, ac proximis civitatibus, inter diu noctuque in terra vagari, versarique in aere visus est [...] Tum exilire primum immensi lapides et ad summos vertices pertingere: deinde magna copia ignis fumique, itaut omnem aerem obscuraret, occultaretque solem, non aliter quam si defecisset [...] Igitur ex die nox, et tenebrae ex luce factae erant, putantibus nonnullis gigantes resurgere, quod multa tunc quoque eorum simulacra per fumum conspicerentur, quodque praeterea clangor quidam tubarum audiretur [...] Interea dum haec fiebant, simul ineffabilis cineris copia e vento egesta, terram pariter, et mare atque aera totum occupavit: quae res multa damna (ut fors tulerat) hominibus, agris, pecoribus importava, pisces, volucresque omnes peremit, duasque integras urbes Herculaneum et Pompeios, populo sedente in theatro penitus obruit.» </ref>: «In quel tempo accaddero delle cose orribili nella Campania, che sono veramente meravigliose. In fatti nell'autunno si accese repentinamente un grande incendio. Il monte Vesuvio è rivolto al mare dalla parte di Napoli, ed ha delle sorgenti ubertose di fuoco [...] La cosa avvenne cosi: si vide tra il giorno e la notte un gran numero d'uomini andar vagando per terra, e per aria, de' quali la grandezza superava ogni figura umana, poiché eran simili ai giganti, ed i quali apparivano ora nel monte, ora nella regione, e nelle città vicine [...]. Indi furono lanciate delle pietre immense, che giungevano alle più grandi alture: poi una gran quantità di fumo e di fuoco, in modo che oscurò l'aria, ed occultò il sole, come se fosse estinto [...] Sicché il giorno si convertì in notte, e la luce in tenebre, giudicandosi da taluni che i giganti risuscitassero, per la ragione che molte immagini di essi si vedeano a traverso del fumo, e che si udiva ancora un certo suono di trombe [...] Intanto nel mentre ciò accadea un'indicibile abbondanza di cenere spinta dal vento occupò la terra, l'aria e tutto il mare, ciò che, per avventura, cagionò molti danni agli uomini, alle campagne, ed al bestiame, uccise tutti gli uccelli ed i pesci, e sotterrò interamente le due intere città d'Ercolano e di Pompei, nel mentre il Popolo nel teatro sedea.»
Tacito descrive un tal avvenimento, come segue1: «Ormai l'Italia fu tormentata da nuove calamità, che furono rinnovate dopo una lunga serie di secoli. Le città furono o consumate, o sotterrate. Le spiagge ubertose della Campania, e le città furono devastate dagl'incendj.»
Tillemonzio dice2: «Esser caduto il teatro nella città di Pompei al tempo di Nerone, indi riedificato; fu poi coperto sotto Tito dalle ceneri del Vesuvio, nel mentre i cittadini in esso sedeano.»
Macrino scrive così<ref>De Vesuvio pag. 39. Duas enim reperimus Pompeiorum clades, quarum altera Nerone Cesare terraemotu extitit, altera ex incendio Vesuviano Tito imperante. Primo ilio quidem terraemotu sedens in theatro Pompeianus populus ingenti damno ex parte oppressus est. Concussa tamen urbs, non sepulta; sed vix refectam incendium Vesuvianum sub Tito Imperatore omnino depressit, contumulavitque cum Herculano lapidibus, cineribusque, adeout paucas remanerent apud posteros earundem reliquiae.</ref>: «Ritroviamo esser accadute a Pompei due calamità, la prima cagionata dal tremuoto sotto l'impero di Nerone, e la seconda dall'incendio del Vesuvio regnando Tito. Con quel tremuoto, primieramente, il popolo di Pompei, che sedea nel teatro, fu in parte oppresso da gran danno. La città fu scossa bensì, ma non seppellita; nulladimeno appena restaurata, fu abbattuta dall'incendio del Vesuvio, sotto l'impero di Tito, quale incendio la seppellì, una con Ercolano, sotto ceneri e pietre, di modo che pochi avanzi di esse rimasero alla posterità.»
L'enciclopedia francese all'articolo Pompei parla come segue3: «Pompei antica città d'Italia nel regno di Napoli un poco più lontana dal mare, di quel che si chiama oggi Civita. Questa città fu inghiottita dall'eruzione del Vesuvio, che la seppellì con Ercolano». Ed all'articolo Ercolano dice così4: «La terribile eruzione del Vesuvio, che inghiottì questa città con altre nella Campania, costituisce un'epoca assai celebre nella storia: quest'epoca incomincia dall'anno primo dell'Imperatore Tito, e dal 79 dell'Era Cristiana».
Termina, secondo la mia scoperta, nel 1810 di Gesù Cristo, 59 dell'Augusto nostro Sovrano Ferdinando IV.
Bruzen de La Martinière si esprime nella maniera seguente5: «Pompei antica città d'Italia nel regno di Napoli nella Campania, un poco più lontana dal mare, di quel che si chiama Civita [...] Nello scavare la terra, per piantarvi alberi, sono state ritrovate le vestigia di questa città, la quale fu sotterrata dalle ceneri e pietre, che uscirono dal Vesuvio nel tempo dell'Imperatore Tito».
Il celebre Canonico Mazzocchi, chiamato dall'Accademia di Parigi miracolo di tutta l'Europa letteraria, esprime la sua opinione intorno alla distruzione d'Ercolano, originata dal Vesuvio, nella seguente iscrizione, da lui fatta ad uno dei belli cavalli della quadriga, dispersa tra le ruine del teatro. Questo cavallo è ora nel Palazzo Regio degli studj di Napoli, dove ho copiato l'iscrizione qui appresso, che si legge nel piedestallo, sul quale il cavallo è messo. Or il Mazzocchi non avrebbe cosi scritto, se non fosse stato intimamente persuaso del fatto, giusta il sentimento di tutti gli altri autori.
«Ecco che per cura Regia, e maestrevolmente connessi insieme i molti membri, ne' quali a guisa di Assirto, il Vesuvio mi ruppe, son io soltanto l'avanzo della splendidissima quadriga di bronzo, infranta e sparpagliata con i suoi cavalli che vi erano una volta legati»6.
Il P. della Torre (Storia e fenomeni del Vesuvio pag, 29) parla così: «Restò questa città infelice d'Ercolano sepolta sotto l'arena, cenere, e pietre gittate dal Vesuvio nel primo incendio di cui abbiamo memoria, accaduto l'anno 79 dell'Era Cristiana sotto l'impero di Tito [...] Dopo Ercolano veniva Pompei, città situata poco distante dalla presente Torre dell'Annunciata, seppellita anch'essa nell'istesso incendio, come Ercolano».
Martorelli parlando del gabinetto d'antichità di Portici, ripieno di tanti oggetti ricavati da Ercolano, Pompei, e Stabia parla nella maniera seguente7: «Farò menzione d'una cosa sola, cioè, della Regia munificenza, colla quale facesti acquisto d'un tesoro di antichi mobili, specialmente di pitture, e di molti codici latini e greci, ricavati dalle tre tue città, seppellite dalle ceneri del Vesuvio, in modo che da paesi i più lontani gli uomini più sagaci vengono in folla per osservarlo». E nella pagina 381 il nostro erudito autore si esprime così8: «Non deve mettersi in oblio un singolare ornamento della tesoreria Regia, provegnente dalle ruine d'Ercolano, cioè un pane rotondo, il di cui diametro è di circa nove pollici, e l'altezza di quattro, conservato per opera del Vesuvio, e talmente annerito, come se fossa un carbone». Similmente egli traduce il testo di Dione nella seguente maniera9: «Inoltre un'indicibile quantità di cenere coprì da tutti i lati le due città Ercolano e Pompei, nel mentre il Popolo di quella sedea nel teatro».
Il signor Gesner professore nell'Accademia di Gottinga, ci parla in questi termini10: «Da qualche tempo si rinnova il rumore sparso da qualche anno in Germania intorno all'antica città, che si è incominciata a disotterare dalle veneri e dalle pomici del Vesuvio, detta dai giornali francesi, inglesi e tedeschi Eraclea, ma che avrebbero assai meglio chiamata Ercolano. Questa città marittima, distante poche miglia dal Vesuvio, essendo in parte caduta la tempo di Regolo e di Virginio Consoli, restando il dippiù vacillante, dopo pochi anni essendosi acceso il Vesuvio, cò che da tempo immemorabile non era accaduto, fu interamente distrutta e bruciata, con essere stata coperta dalle arene, pomici e pietre, che furono lanciate fuora da quel terribile volcano.»
Ferber parla come segue11: «Tra le desolazioni cagionate dalle diverse eruzioni ed accensioni del Vesuvio, la più meravigliosa, senza dubbio, è quella della riempitura e del sotterramento delle tre città [...] La copritura delle medesime, non è accaduta, siccome generalmente si crede, per opera d'un torrente di lava, ma da ceneri e pietre pomici, le quali in gran quantità caddero dall'aria a guisa di neve»
Ciò mi sorprende, poiché il signor Ferber mineralogista tedesco scrive da Napoli. Non sembra potersi dire, che tra tante migliaia di naturalisti e forestieri, che han visitato Pompei ed Ercolano, non vi sia stato un solo, avvezzo alle osservazioni geologiche? Infatti se qualcheduno di costoro avesse sospettato la distruzione ed il sotterramento di queste due città per opera delle alluvioni, lo avrebbe scritto, e non avrebbe tacciuto sicuramente. Soprattutto mi sorprende il silenzio de' signori Dolomieu, Gioeni, Fortis, Vairo, della Torre, Breislak, Vargas, Thomson, Cavolini, e particolarmente de' nostri mineralogisti Melograni, Savarese, e Ramondini, i quali han viaggiato tanto per le miniere della Germania e dell'Inghilterra. Devo, poi, a questo proposito, osservare, che dopo alcuni sguardi gittati sul terreno di Pompei nella prima volta che vi fui, conobbi esser questo un terreno d'alluvione, e mi avvidi della falsità del tanto rinomato punto istorico; che prima di andare in Ercolano, feci, dall'analogia, deduzione, essere stata questa città seppellita dalle acque e non già dal fuoco, ciò che ritrovai vero nel luogo; e che, finalmente, le mie osservazioni ne' sotterranei d'Ercolano, mi fecero, ritrovandomi sotterra, tirare la conseguenza, dover essere un terreno d'alluvione tutto il circondario esteriore di questa città, che mai avea veduto, ciò che per l'appunto ritrovai.
Il marchese Marcello Venuti (Descrizione delle prime scoperte dell'antica città d'Ercolano) alla pagina 46 parla così: «Dirò solo che benissimo si vede, che dopo l'eruzione, dalla quale Ercolano fu sepolta, se ne contano altre ventisei. Dalle lave, che sono nella maggior parte passate sopra questa disgraziata città, proviene che tra essa ed il piano di Portici vi sia presentemente una volta (monte) di circa 80 palmi di pendio». Ma questo monte è, precisamente, quello ch'io chiamo monte d'alluvione volcanico, in cui non vi è un sol atomo di lava, come dirò in seguito.
Gli Accademici Ercolanesi inoltre (ed io nel citare quest'illustre Società di letterati, i quali hanno sicuramente scartabellato quanto è stato scritto su quest'argomento, do la dimostrazione dell'opinione generale di tutti gli altri scrittori, analoga a quella degli autori riferiti finora, poiché se altri avesse scritto altrimenti e ragionevolmente intorno alla distruzione e sotterramento delle due nostre rinomate città, i detti Accademici lo avrebbero senza dubbio riferito) sono perfettamente d'accordo con tutti gli altri autori intorno alla distruzione di Pompei. Infatti i signori Accademici credono, che fu questa città sotterrata dalla pioggia di ceneri volcaniche, lanciate per aria dal Vesuvio nell'anno 79; ma riguardo alla desolazione d'Ercolano i detti Accademici si sono appartati dall'opinione comune, e ne hanno pubblicata un'altra, che per rispetto non voglio confutare, ma che disgraziatamente si ritrova abbattuta dalla mia scoperta.
Per conto della pioggia delle ceneri, ecco come vien da essi confutata relativamente ad Ercolano12: «Non persuaderti inconsideratamente essere tutta la materia lanciata in aria dalla bocca del volcano, siccome osservammo con proprj occhi nell'eruzione del 1779. In questa guisa portata via dal vento, e descrivendo una parabola, sarebbe caduta, dopo essere cessata la forza sospignente, in forma di grandine, ne' terreni sottoposti, come difatti cadde poco tempo dopo in Pompei (con che ecco la pioggia, o la grandine volcanica, coma essi dicono sopra Pompei);» ma le osservazioni da noi fatte c'impediscono di abbracciare questa ipotesi. Difatti né il vento di mezzogiorno che soffiava allora, secondo rileviamo dalla seconda navigazione di Plinio avrebbe portato il lapillo verso Ercolano, né si sarebbe questo consolidato in tufo, siccome abbiamo detto, ma sarebbe restato interamente sciolto, siccome l'incontriamo oggi in Pompei.
I dotti Accademici Ercolanesi, conseguentemente, ammettono una pioggia di lapilli per Pompei, ma non per Ercolano, a cagione dello scirocco, che soffiava nel tempo dell'eruzione. Per quest'ultima città essi spiegano la desolazione in un'altra maniera, come appresso.
Gli stessi Accademici, poi, non han neppure pensato alle alluvioni, prodotte da dirotte piogge, che secondo me sotterrarono queste due città, strascinandovi sopra materie volcaniche e non volcaniche, conforme rileveremo in seguito. Essi all'opposto rigettano assolutamente l'acqua, ciò che rende vieppiù originale la mia scoperta. Ecco le loro parole13: «Guardati bene dal credere, siccome alcuni si sono persuasi, che questa materia fu condotta in Ercolano per opera delle acque. Difatti se fosse uscita mescolata colle acque» (con che l'opinione relativa a quel siccome alcuni si sono persuasi è diversa dalla mia: quelli intendendo acqua uscita dal Vesuvio colle materie volcaniche, ciò che confuterò in seguito, ed io alluvioni da dirotte piogge, delle quali nessuno finora ha sospettato, oltre di che altro è parlare incidentemente dell'acqua, come forse altri, senz'appartarsi dall'opinione comune, e senza provarlo, avran fatto, scrivendo di questo avvenimento, ed altro è trattarlo con principj geologici in tutta la sua estensione, qual'è il mio proponimento, veduto che in materie di fisica non basta dire le cose, ma bisogna provarle, N.d.A) «non avrebbe conservato quel grado di calore, che brucia le legna, né, ciò che forma la difficoltà principale, avrebbe coperto tutto egualmente; ma secondo la legge de' fluidi sarebbe scorsa ne' luoghi più bassi, siccome sappiamo esser accaduto nel 1631, allorché tutte le valli, e le altre profondità furono ripiene ed appianate da materie volcaniche dalla violenza dell'acqua, in quelle spinte.»
I signori Accademici Ercolanesi, intanto, volendoci far conoscere la loro nuova dottrina, incominciano a protestare contro gli antichi ne' termini seguenti14: «Sarebbe per noi certamente un delitto il veder losco in una così chiara luce della storia naturale, ed attaccarci alle pure conghietture degli antichi.»
Sicché vediamo qual è la fiaccola, colla quale essi accorrono in queste tenebre, per fugare le conghietture degli antichi; rileviamo qual è la loro opinione intorno alla distruzione d'Ercolano; e cerchiamo di vedere quanto si appartan essi da quelli e dai moderni, i quali nulladimeno fedeli agli antichi scrittori, non han voluto seguire affatto i dotti Accademici.
Per conto dunque d'Ercolano gli Accademici Ercolanesi parlano in questa guisa15: «Primieramente bisogna sapere, che tutto quel tratto di terreno da noi segnato nella carta, fu egualmente coperto dall'eruzione del Vesuvio al tempo di Tito» (ciò ch'è falso, perché vedremo or ora che tutto il circondario d'Ercolano è un terreno d'alluvione, N.d.A.), «non già da una materia liquida, che scorre a guisa di torrente, e che poi repentinamente si consolida (cioè le lave), ma da un volume infocato di lapilli, di pomici e di ceneri, che scorrendo precipitosamente in giù pel declivio del monte, pervenne sino al mare, siccome qui appresso verrà da noi insegnato, qual volume col passar del tempo si rappigliò in una pietra tufacea, che vien oggi volgarmente chiamata pappamonte. Difatti questa tal materia, dalla quale vediamo coperto Ercolano, s'incontra in tutto il circondario, allorché vi si fanno degli scavamenti.»
Ed in seguito delle lettere di Plinio il giovane a Tacito, che parla della cenere caduta sulle navi, i signori Accademici conchiudono così16: «Da quali parole si deduce manifestamente, che quel torrente di fuoco, che distrusse Ercolano e la vicina Retina, era formato da ceneri e lapilli infocati, de' quali i più leggieri, spinti dal vento, caddero sulle navi, la più gran parte, poi, come più pesante, a cagione della loro spessezza, scorrendo precipitosamente in giù per lo declivio del monte, giunse sino al mare, dove formò immediatamente un guado, da non rendere più le navi accessibili al lido, a cagione della ruina del monte.»
E nel cap. XI. §. XI. pag. 70 i signori Accademici si esprimono in questa guisa17: «Intanto nessuno si opporrà a Plinio, che racconta essersi formato rapidamente un guado nel mare dalle pomici bruciate, e dalle pietre infrante dal fuoco; infatti noi abbiamo osservato che queste stesse sostanze furono quelle, che coprirono Ercolano, e pervennero sino al mare.»
E finalmente nel cap. XI. §. XIII. pag. 71 i dotti Accademici Ercolanesi stringono l'argomento cosi18: Ma supposto che non avessimo Plinio per testimonio,» (ed intanto Plinio non dice una parola sola d'Ercolano e di Pompei, N.d.A.) «e che una lunga sperienza non ci avesse resi più dotti, l'istessa ispezione degli scavamenti c'istruisce abbastanza dell'arroventamento di questa materia [...] Bastantemente, dunque, dalla testimonianza degli antichi, e dalle osservazioni recenti resta dimostrato qual fu il fuòco, e quale la materia che distrussero Ercolano; cioè non già un torrente di fuoco liquido, di cui nessuno ha parlato finora, e del quale non abbiamo ritrovato vestigio alcuno, ma da ceneri e pomici infiammate.»
La spiega, intanto, della nuova dottrina de' signori Accademici è incomprensibile a segno, ch'essi stessi sentono dover imbarazzare il lettore, poiché soggiungono19: «Ma ci direte, come mai poté avvenire che una farragine simile, eruttata fuora dal monte, e non liquida, fu capace di caminare con tanta velocità per un terreno non molto scosceso? A dire il vero questa sembra la difficoltà più grande.» Or questa difficoltà svanisce subito che voglia ammettersi un'alluvione, cagionata da una dirotta pioggia, siccome io penso, e dimostrerò in seguito.
Replico che il rispetto mi fa omettere di analizzare (ciò che altronde resta smentito dalla geologia del luogo) tutto quel che i famosi Accademici Ercolanesi dicono sull'argomento, perché potrei scrivervi un volume.
Devo solo in questo luogo osservare, che non avendo essi potuto immaginarsi essere tutto il circondario d'Ercolano un terreno di alluvioni, conforme vedremo in seguito; e costretti di non ammettere essere venute fuse e liquide in tutto quel tratto di terreno, le materie volcaniche e non volcaniche, che oggi vi vediamo (perché così tutto il tratto suddetto si dovrebbe ora vedere coperto di lave, ciò che non si verifica affatto); i dotti Accademici, i quali da un'altra parte han confuso la pomice e le ceneri volcaniche colle diverse sostanze, dalle quali Ercolano si ritrova coperto, si sono ritrovati nella necessità di supporre esser uscito dal Vesuvio un torrente «infocato bensì, ma non liquido e fuso, che scorrendo giù pel declivio del monte, arrivò sino al mare, cuoprendo Ercolano, ed il suo circondario.»
Per quel che poi riguarda Pompei, gli Accademici Ercolanesi ammettono, con gli antichi scrittori, la pioggia delle ceneri e delle pomici, ch'essi chiamano grandine. Difatti i signori Accademici si esprimono così<ref>Cap. V. §. V. pag. 28. Cum igitur de veterum Pompeiorum situ tam certa sint, quam certissima, nostri erat pensi ut investigaremus quousque mare ad urbem adcesserit, et qua parte fluvius praeterfueret, antequam horribilis illa pumicum grando portum, sinumque obcaecaret, et primaevum fluminis alveum ita oppleret, ut porro in humiliorem humum repelleret Scaphatum usque.</ref>: «Tali cose dunque intorno al sito dell'antica Pompei essendo vere, che anzi verissime, era nostro dovere di esaminare, quanto il mare fosse lontano dalla città, e per qual luogo scorreva il fiume prima che quella terribile grandine di pomice avesse ripieno il porto ed il golfo, e prima che col riempimento del primo letto del fiume lo avesse scacciato via in un terreno più basso verso Scafati.»
Galanti (Descrizione di Napoli e suoi contorni pag. 326) si esprime come segue «La stessa eruzione che abbatté Ercolano, seppellì ancora Pompei [...] Una pioggia dunque di materie, volcaniche cadde inopinatamente su di quella città infelice. Tutti gli abitanti non poterono scappare, poiché in tutte le case si ritrovano, de' scheletri d'uomini e di donne colle anella, pendenti, e braccialetti d'oro.»
Romanelli (Viaggio a Pompei, a Pesto, e ad Ercolano) ch'egli fa stampare adesso che sto scrivendo, in molti luoghi del suo libro ripete la distruzione d'Ercolano e di Pompei dalla pioggia delle ceneri e del lapillo, uniformandosi a tutti gli altri scrittori. Non citerò le sue parole, perché sarei troppo prolisso; mi contento d'indicare qui le pagine dalle quali risulta, secondo lui, la distruzione delle due città per opera del fuoco, ossia del Vesuvio. Queste pagine sono la 6. 10. 12. 22. 24. 25. 26. 25. 26. 26. 28. 29. 29. 39. 40. 65. 103. 120. 167. 188. 189.
Giovanbattista Gagliardo (Atti del Real Istituto d'incoraggiamento alle scienze naturali di Napoli Tom. 1. fol. pag. 301.) socio ordinario dell'Istituto, nella sua memoria sull'agricoltura Ercolanese, letta nell'adunanza de' 12 Aprile 1810, parla così «Il Vesuvio colla terribile eruzione del 79, che come ognuno sà, costò la vita a Plinio, seppellì di terra volcanica, detta pozzolana bianca la città d'Ercolano, e copri di altra terra volcanica, detta lapillo, le città di Pompei e Stabia.»
Ecco dunque che gli autori, nostri contemporanei, ed i dotti Accademici, i quali hanno approvata e pubblicata la memoria del Sig. Gagliardo, sono tutti nell'istesso errore, siccome erroneamente pensano ancora tutti gli altri letterati viventi di questa capitale, i quali nel sentire la mia opinione sì sono rivoltati contro di me.
Or rilevandosi dalle testimonianze riferite finora quel che per XVII secoli han creduto d'Ercolano e di Pompei i dotti di tante generazioni, tanti viaggiatori, tanti scrittori, e soprattutto un'Accademia istituita espressamente dal governo, affine d'illustrare le cose d'Ercolano, da cui prese il nome; all'opposto non essendovi stato finora alcuno, che avesse contraddetto l'opinione generale degli scrittori, io che ripeto il sotterramento di quelle due città non dal fuoco, come si è creduto finora, ma da alluvioni, mi ritrovo assolutamente isolato, e la mia scoperta, che nessuno ha finora dalla geologia de' due luoghi dedotta, diventa, perciò, quanto curiosa e nuova, altrettanto singolare e solidamente stabilita. In fisica, ripeto, non basta dire le cose, bisogna provarle.
Ritorno ora al mio assunto.
Siccome, dunque, fin dal principio della presente vi dicea, sospettai il sotterramento, d'Ercolano per opera delle alluvioni, tosto che vidi Pompei.
Questo mio sospetto, intanto, tirato dall'analogia, ossia dalla dimostrazione datavi colla mia de' 15 del passato Ottobre d'un disastro simile accaduto alla città di Pompei, prima, cioè, che avessi esaminato Ercolano, merita una particolare modificazione, la quale nel mentre rende più luminosa la mia nuova opinione, offre da un altra parte ai naturalisti un argomento troppo convincente della poca probabilità, se non della falsità assoluta d'un altro fatto classico della storia; cioè che le due città, Ercolano e Pompei, furono ambedue seppellite e distrutte nello stesso tempo, cioè il dì 24 agosto dell'anno 79 di Gesù Cristo.
Questa modificazione è, che le materie le quali cuoprono Ercolano, non sono tutte volcaniche. Conseguentemente non son venute tutte fuora dal Vesuvio. Oltre a ciò, queste materie non furono in una sola volta strascinate sulla città, ma in epoche differenti; cioè da consecutive e reiterate alluvioni, le quali sotterrarono, a poco a poco, quel luogo, inalzando successivamente il terreno, su di cui giace oggi Resina, e che costituisce un vero monte d'alluvione volcanico.
Se ciò è vero, conforme passo a dimostrare, voi vedete benissimo che Pompei ed Ercolano non poterono essere seppellite nell'istesso tempo, e quest'ultima città non nello spazio d'un giorno solo. Di fatti Pompei, coperta da uno strato di lapillo, fatto da tritumi di pomici e di lava, della doppiezza da 8 a 10 piedi (oltre la terra vegetabile che siede al disopra), poté benissimo restar vittima di un allagamento, accaduto in un giorno; ma Ercolano il quale ha al disopra un masso di circa 60 piedi, fatto da materie eterogenee, volcaniche, e non volcaniche, le quali si ritrovano disposte a strati, precipitate non istantaneamente, ma a poco a poco dalle acque, a misura, cioè, che queste si asciugarono, ed i quali, dalla loro varia natura, suppongono alluvioni in epoche diverse, Ercolano, io dissi, non poté sicuramente restar sotterrato in un tempo eguale a quello, in cui fu seppellita Pompei. Vale a dire che queste due desolazioni, ossia la genesi de' monti d'alluvione, che vediam oggi sopra Pompei ed Ercolano (ed io considero qui la cosa da geologo, facendo astrazione da tutto il patetico, relativo alle due città sotterrate e rimaste accidentalmente al disotto del masso de' nuovi monti) porta seco epoche diverse. Nessuno, io sostengo, de' due sotterramenti accadde nella tanto spaventevole descritta eruzione del 79.
E che sia cosi, egli è veramente cosa singolare, che Plinio il giovane, il quale nelle sue due lettere a Tacito, nelle quali descrive questa eruzione, e la morte del zio, non dica una parola sola dell'eccidio delle due città. Come va questo, se Plinio era contemporaneo? Se egli era letterato e scrittore? Se parla della pioggia delle ceneri? lo per me non posso attribuire il silenzio di Plinio, che o ad una. somma indolenza, o al non evento del fatto. Mi attengo a quest'ultima opinione, non potendo supporre in Plinio un'indolenza così grande; tanto, cioè, per l'importanza somma della cosa, quanto per l'esagerazione, ch'era in voga in quei tempi presso gli scrittori, i quali scriveano delle visioni per fatti, conforme abbiam veduto aver fatto Dione Cassio, descrivendo i giganti ed il suono delle trombe della stessa eruzione del 79. Io quindi amo meglio giustificare il nipote dell'eloquente istorico, negando il fatto, che ammettere la distruzione delle due città all'epoca del 79; soprattutto perché vien attribuita ad una pioggia di ceneri, lanciate per aria dal Vesuvio, ciò ch'è in contraddizione colla geologia de' due luoghi, ed ammettendo anche una tal pioggia eccessivamente abbondante, si concepisce difficilmente il sotterramento suddetto. Come Plinio ci parla tanto prolissamente della morte del zio, ossia d'un sol uomo, accaduta nell'eruzione del 79, e non ci dice una parola sola della distruzione intera, di due così celebri città! Nò il fatto è supposto, e niente probabile, ciò che vien, anzi, provato dal seguente passo della seconda lettera a Tacito, nella quale parlando Plinio di quella eruzione dice così20: Non è mancato chi con terrori mentiti, e finti avesse ingranditi i veri pericoli. Ma lascio agl'istorici la cura di fare l'apologia della storia, ed io proseguendo il filo del mio argomento cercherò di smentirla colla geologia. Il libro della natura è ormai aperto, e gl'istorici non potran chiuderlo sicuramente colle loro ipotesi.
Prima di ogni altra cosa, poi, devo qui accennare lo stato, in cui si ritrova oggi Ercolano, dove non bisogna attendersi di vedere case e strade disotterrate, come si osservano in Pompei. Tutti gli edificj, infatti, scavati, e dai quali sono uscite tante pitture, tante statue, tanti vasi, tanti candelabri, tanti utensilj, tanti istromenti, tanti famosi papiri, e finanche varie provvisioni da bocca, non esistono più. Essi dopo lo spoglio di tanti oggetti antichi, furono, perché la soprapposta Resina non precipitasse ne' voti sottoposti, ossia negli scavamenti fatti, ripieni. Ma non meritano di essere censurati i nostri architetti, che fecero sotterrar tutto, in vece di conservar tutto con idonee fortificazioni? Con ciò si sarebbero tramandate alla posterità quelle famose rovine, ed il governo sarebbe stato giornalmente nel caso di far eseguire, con poche spese, delle nuove scoperte. Gli amatori delle cose antiche dovrebbero, mi pare, crepare di rabbia. Quante pentole screpolate! Quanti monolicni e dilicni, ossia lucerne ad uno, ed a due lucignoli rotte ed infrante! Quante monete arruginite! Quanti lacrimali sfondati! Quanti magnifici Priapi, rosicati e mutilati dal tempo! E quante altre di somma erudizione e dottrina gravide bagattelle, peste, e sfigurate, non sono state involate loro dalla negligenza degli architetti!
Si riduce oggi il rinomato Ercolano al solo teatro, in gran parte scavato bensì, ma esistente ancora sotterra, sul quale sono stati fatti da sopra Resina degli scavamenti, cioè un pozzo perpendicolare, che cade sopra de' gradini, su de' quali il popolo spettatore sedea una volta (in guisa che oggi bisogna discendere, dove prima si perveniva ascendendo, una gran scala, e delle grotte, le quali conducono ne' corridoi, ne' vomitorj, nel proscenio, dietro il teatro, ed in varie parti di quest'edificio. Gli scavamenti suddetti formano una specie di laberinto, e non mostrano, che alcune parti del teatro. Ho già indicato che il masso, che lo cuopre ha circa 60 piedi di spessezza, incominciando dal piano inferiore del proscenio, ch'è quello della città distrutta, sino al suolo superiore, sul quale si vede oggi edificata Resina. La sommità, nulladimeno, del teatro si ritrova assai più giù a questo suolo, giacendo circa 30 piedi sotterra.
Come è stato scritto tante volte ch'Ercolano fu coperta da una pioggia di ceneri, l'altezza per l'appunto del teatro, ch'è di circa 30 piedi (alla quale metto eguale quella eziandio degli altri edifici, ciò ch'è vantaggioso per gl'istorici riguardo alla pioggia delle ceneri) è quella, che deve indicare il sotterramento della città all'epoca del 79, se cioè fu essa distrutta nel tempo di Tito. Vale a dire che questa altezza dovrebbe essere interamente ripiena di ceneri volcaniche. Tutto il dippiù del masso, che giace al disopra del teatro, dal cornicione in su, lo suppongo formato posteriormente all'eruzione del 79, e ciò per fare grazia agl'istorici.
Or tanto l'altezza del teatro, quanto il dippiù della spessezza del masso, ch'è al disopra, cioè, tra la parte superiore di questo edificio ed il suolo esteriore di Resina (che importa altri 30 piedi in circa) non è ripiena né da ceneri vulcaniche, né da lapillo di pomice e di lava, come in Pompei, né da lave venute sul luogo fluide per mezzo del fuoco, ma è ripiena da strati di materie diverse, cioè di rocce, e di terre sciolte di varia natura, conforme vedremo appresso. Questi strati son messi l'uno sopra dell'altro, ed indicano diverse alluvioni accadute sul luogo in epoche differenti, dalle quali è surta a poco a poco l'altezza del monte, dentro di cui giace Ercolano. Dunque se il masso che cuopre Ercolano non è fatto da materie omogenee; se questo masso è stato formato non da una causa, che ha agito in una volta sola ed in breve tempo, come sarebbe la supposta piaggia delle ceneri del 79, ma da una cagione reiterata e lenta in tempi diversi (siccome agiscono le alluvioni, nelle quali vi è bisogno di tempo perché possan reiteratamente aver luogo, asciugarsi le acque, precipitarsi le materie, rappigliarsi queste e rendersi consistenti, e nelle quali alluvioni dalla diversa natura de' precipitati bisogna ammettere la reiterazione dell'allagamento ad epoche differenti, massimamente allor quando materie più leggieri occupano, come in Ercolano, le parti più basse d'un riempimento qualunque), dobbiamo da questi irrefragabili fatti necessariamente conchiudere, ch'il sotterramento d'Ercolano non poté seguire affatto in un'epoca soltanto: che nou poté aver luogo in seguito d'una pioggia di ceneri lanciate per aria dal Vesuvio: che questo preteso sotterramento dalle ceneri Volcaniche non ritrovandosi corrispondente colle osservazioni geologiche del luogo, la distruzione d'Ercolano non accadde seppure nell'anno 79, poiché tolta da mezzo la pioggia delle ceneri, cade anche l'epoca del sotterramento: e che, infine, cadendo l'epoca del sotterramento di queste due città, assegnata dalla storia, i due sotterramenti d'Ercolano o di Pompei dovettero accadere in tempi diversi, l'uno forse molto lontano dall'altro, e nessuno de' due nell'anno 79). Mi pare che gl'istorici posteriori a Plinio il giovane, i quali non ebbero sospetto alcuno delle alluvioni suddette, ed i quali aveano bisogno d'una gran cagione per esterminare le due città, ebbero ricorso all'eruzione del 79, non potendo spiegare il fatto altrimenti. Ma perché, replico, Plinio non ne parla? Il suo silenzio rende troppo sospetto quel che gl'istorici han detto posteriormente intorno all'epoca ed alla cagione delle due desolazioni. Vengo ora alla dimostrazione del mio assunto, che dal fin qui detto resta bastantemente enunciato.
Primieramente non furono le ceneri volcaniche che coprirono Ercolano, né tampoco Pompei. Questo si ritrova al disotto d'un denso strato di lapillo, fatto da pezzi di pomice e di lava, rotolati e configurati in ciottoli dalle acque, sul quale siede uno strato di terra vegetabile, fatto eziandio dall'alluvione, importando questa copertura da 10 a 15 piedi al disopra degli edificj. Ercolano, all'opposta, giace sotto d'un masso pietroso e terroso di 60 piedi in circa fatto da strati, messi l'uno sopra dell'altro. Non vorrei che alcuno mi dicesse, che gli antichi non sapevano distinguere il lapillo di pomice e di lava dalle ceneri volcaniche, per persuadermi ch'essi intendean il primo, allorché parlavano delle seconde. Ciò sarebbe supporli troppo ignoranti; ma l'uomo il più idiota d'ogni secolo non potrebbe, alla vista di queste due sostanze, confonderle tra loro.
Che diremo, dunque, agl'istorici ritrovando sulle due città due coperture, che sono tutte e due diverse da una terza, colla quale le voglion essi distrutte? Che diremo, cioè, ritrovando lapillo sopra Pompei, e niente di questa sostanza sopra Ercolano, quando gl'istorici ci dicono che le due città furono seppellite da una pioggia di ceneri volcaniche? Dunque, io conchiudo, non fu la pioggia delle ceneri, che distrusse Ercolano e Pompei. Dunque non fa l'eruzione del 79. Dunque questi due sotterramenti non accaddero all'istess'epoca. Dunque l'epoca è incerta. Dio sà quando seguirono queste due desolazioni! Dio sà quanto tempo l'una avvenne dopo dell'altra! Forse la cagione che distrusse Pompei, fu diversa da quella, che atterrò Ercolano. Difatti in Ercolano, ch'io credo distrutto non da alluvione alcuna, come Pompei (quantunque le alluvioni avessero poi sotterrato anche Ercolano) non si sono ritrovati scheletri affatto, come in Pompei. Or la mancanza degli scheletri nelle rovine d'Ercolano, e la presenza di questi in quelle di Pompei, indicano per l'appunto la diversità del tempo, e della causa della distruzione delle due città, non ostante che la cagione del sotterramento fosse stata la stessa, cioè le alluvioni. La causa, insomma, della distruzione di Pompei fu istantanea, quella d'Ercolano lenta; la prima prodotta da un'alluvione, la seconda incerta.
In secondo luogo non è lava volcanica affatto quel che cuopre Ercolano, conforme molti credono ed altri hanno scritto. Le lave sono dure, dense, vetrose, e pesanti. Ma le materie degli strati, che cuoprono Ercolano sono teneri, friabili, terrose, e leggiere. Conseguentemente queste materie non sono lave; esse non sono state fluide e roventi; in somma non sono venute nello stato di fluidità ignea, ossia di lava volcanica sopra Ercolano. Chiunque, poi, ha veduto alcune volte le lave, rileverà subito, andando in Ercolano, la differenza che passa tra queste, e le diverse materie, dalle quali è coperta questa città.
Ecco, intanto, la natura delle diverse sostanze, componenti il masso, che cuopre Ercolano, giusta le osservazioni da me fatte a varie altezze del teatro, e negli scavamenti praticati al disopra, ed intorno al medesimo.
prima specie. Strato di limo siliceo-calcare, effervescente, depositato dalle acque, d'un colore griggio. Egli è polveroso, ed estremamente friabile tra le dita. Giace immediatamente sotto al suolo di Resina, ed è l'ultimo strato del masso, cioè, il superiore, che cuopre il teatro, ossia è lo strato fatto dall'ultima alluvione. Si può vedere in una piccola grotta, scavata a mano dritta nell'entrata d'Ercolano, come anche al cielo d'una piccola stanza incavata nel masso al principio della galleria, corrispondente al disopra del pozzo. Si conosce evidentemente esser un deposito delle acque.
seconda specie. Strato di terra argillosa-calcare, effervescente, nella quale sono sparsi de' piccoli pezzi di lava, e di pietra calcare bianca, rotolati dall'acqua. Giace immediatamente al disotto del precedente, vedendosi nell'istessa grotta e nella piccola stanza suddette. Questo strato è stato fatto dalla penultima alluvione. Le due diverse epoche di queste due genesi, si leggono nella linea di divisione, tra questo strato ed il precedente. La spessezza di questo strato è più di 15 piedi, poiché scende giù, osservandosi nella galleria, e nella gran scala, che conduce al pozzo. Similmente questa seconda specie si osserva anche al giorno, cioè nel pendio della strada detta Mare, che conduce alla marina. I pezzi di lava e di pietra calcare sono avventicci, e dimostrano un'inondazione. Ecco, perciò, provato, che la parte superiore della copertura d'Ercolano è l'effetto delle acque; ma scendiamo ancora più giù.
terza specie. Tufo argilloso volcanico, non effervescente, disseminato da poca pomice polverosa. Il suo colore è d'un giallo di paglia, più o meno carico, che si accosta al griggio giallastro. La frattura è terrosa. I frammenti sono indeterminati. Non fa effervescenza coll'acido nitrico. Ho ritrovato ne' labirinti d'Ercolano alcune varietà di questa specie, varietà che consistono nel colore, nella durezza, e nell'abbondanza più, o meno grande della pomice, in modo che potrebbe questa specie essere il prodotto di varie genesi, che sono ora difficili a distinguere tra loro. Per fare ciò, sarebbe necessario di scavare de' pozzi perpendicolari in tutta l'altezza del masso. Giace questa specie di tufo immediatamente al disotto dello strato precedente. Si scuopre alla fine della scala, che dalla galleria superiore scende nel teatro, e termina al disopra del cornicione del teatro istesso, e propriamente nel luogo, dove dal giorno scende il pozzo sopra de' gradini di questo pubblico edifizio. Il tufo si ritrova ancora (sebbene di specie diversa) nella parte più bassa del teatro, cioè, nella strada pubblica di quei tempi, vedendosi questa ripiena dal tufo, in cui giace seppellito un condotto d'acqua, che scorrea per la città. E come tra queste due specie di tufo, vi sono altri strati intermedj, fatti da sostanze diverse, siccome vedremo in seguito, ne risulta, che le genesi tanto delle due specie di tufo, quanto degli strati intermedj suddetti suppongono reiterate alluvioni, avvenute in epoche differenti. Questo tufo intanto atteso i principj costituenti, è d'una doppia origine; cioè la massa argillosa di esso non è provegnente dal Vesuvio, ma bensi la pomice. Sembra che allora quando le acque spazzando un distretto, in cui giace una gran quantità di pezzi di pomice, non incontra dell'argilla, o della marna calcare, per formare le due specie di tufo volcanico, l'argilloso ed il calcare, depositino le pomici, disponendole in forma di strati di lapillo sciolto. All'opposto si generano ì tufi, allora quando l'acqua incontra una quantità d'argilla, o di marna calcare, per impastare la pomice. Intanto ogni genesi di tufo è dovuta all'acqua, che raccoglie ed unisce le parti eterogenee della doppia origine. Or se tutte le genesi di questi tufi sono originate dalle acque, come sono quelle di Posilipo, di Capodimonte, e di S. Martino etc., perché quella che cuopre Ercolano non deve essere prodotta dalla stessa cagione? I geologi nell'udire la stratificazione del masso che cuopre Ercolano, adotteranno subito la mia opinione; ma io mi vedo nella necessità di rammentare qui quel che ho accennato nella prima lettera (pag. 12.) relativamente all'origine de' tufi dall'acqua. Cioè l'incastratura delle materie eterogenee, tra le quali alcune non volcaniche, nel tufo, le fessure quasi orizzontali, dalle quali son divisi i banchi tufacei e la presenza degli strati di lapillo ne' monti di tufo, dimostrano evidentemente esser essi stati una volta nello stato molle, ed in conseguenza formati dalle acque. Aggiugnerò qui, per confermare la stessa cosa, la seguente osservazione. Da per tutto si veggono monti di tufo nelle vicinanze di Napoli, estesissimi ed altissimi. Da per tutto sono stati fatti degli scavamenti, cioè pozzi e grotte nel tufo, ed a varie altezze di detti monti. Or in tutti questi scavamenti, ossia nelle parti le più interne de' monti tufacei, si veggono sempre infiniti, e grossi pezzi di lava, incastrati nel tufo. Per spiegare questo fenomeno non vi è altro mezzo, che o quello delle acque, ovvero di supporre i pezzi di lava lanciati in aria da un volcano, e caduti in quelle montagne. Ma in quest'ultimo caso, come avrebbero potuto penetrare nell'interno delle montagne tufacee? Uopo è, dunque, riconoscere la genesi de' tufi per via umida, ed in conseguenza anche il tufo che giace sopra Ercolano è il prodotto della stessa cagione. Alcuni han preteso esser il tufo uscito in forma di un volume infiammato da un volcano vicino; ed in conseguenza anche in istato ignito, pervenne il tufo sopra Ercolano. Così gli Accademici Ercolanesi; ma ciò è un errore; 1.° perché in una tale supposizione si dovrebbero ritrovare ne' monti di tufo crateri volcanici, ciò che si oppone all'esperienza; 2.° perché i monti di tufo dovrebbero, in tal caso, avere la figura conica, ciocchè non si verifica affatto, mentre tali monti forman catene di più miglia di lunghezza; 3.° finalmente perché in una tale ipotesi il tufo non sarebbe altro, se non che una specie di lava. Or la lava per effetto della fusione si ravvisa omogenea, vitrea, e compatta, ed il tufo eterogeneo, terroso, e friabile. Altronde il tufo esposto ad un leggiero calore si fonde, e scorre liquido in forma di scoria griggia nera, conforme ho io sperimentato. Val quanto dire, che non si ritroverebbe ora in forma di tufo sopra Ercolano, se avesse provate l'azione del fuoco, e fosse corso infiammato sulla città. Questi stessi raziocinj, poi, bastan a dimostrare, che tutti gli altri monti di tufo non sono stati vomitati dai volcani nelle loro eruzioni, ma fatti per via umida.
quarta specie. Breccia volcanica a cemento argilloso-calcare. In questo cemento, che fa effervescenza coll'accido nitrico, sono incastonati de' pezzi di pomice fibrosa. Chiamo cosi quest'aggregato non per la durezza (propria delle brecce), ma per la grandezza de' pezzi della pomice, che lo distinguono dal tufo comune, e pel cemento che a guisa di brecce lega la pomice. Intanto formazione di brecce ed alluvioni, sono sinonimi in geologia. Difatti i componenti della nostra breccia (che sono eziandio d'una doppia origine, giacché il cemento argilloso-calcare non è sicuramente uscito dal Vesuvio, ma bensì la pomice), e l'incastonamento delle due materie, che concilia l'aspetto di breccia al sasso, fan vedere esservi stato il concorso dell'acqua nella sua formazione. Questo fluido, cioè, provegnente da un'alluvione, dopo aver lavato e spazzato un tratto di terreno, sul quale si ritrovavano i materiali suddetti, li strascinò sopra Ercolano, che giacea nella parte più bassa, al lido del mare, ed asciugandosi a poco a poco, diede origine allo strato in quistione. Questo strato, poi, si ritrova al disotto dell'orizzonte del cornicione del teatro, e scende giù. Esso, perciò, giace al disotto dello strato precedente, cioè, sotto al tufo argilloso volcanico non effervescente. Atteso l'irregolarità degli scavamenti, è difficile il fissare i limiti del tufo e della breccia. Sembra anzi che quello si converta in questa, in modo che può esservi tra loro una roccia di transizione, cioè di natura media tra il tufo e la breccia volcanica. Questa breccia, intanto, ha tanto al disopra, quanto al disotto diversi altri strati, cioè di tufo, di limo, di marna calcare, di aggregato argilloso-calcare, e di limo siliceo-argilloso, come appresso; in guisa che si ha da ciò un argomento delle varie alluvioni, che han sotterrato Ercolano, e le quali han formato, per soprapponimento di parti, il masso eterogeneo, che ora lo cuopre. Similmente questa breccia ha sopra di sé le parti ed al disotto le inferiori del teatro. Conseguentemente questo non è stato sotterrato in una volta sola, ma a poco a poco dalle reiterate alluvioni, ossia sotterrato in epoche diverse.
quinta specie. Aggregato argilloso-calcare effervescente. Ha un colore grigio di cenere, e si stritola in polvere tra le dita. Giace al disotto del precedente, osservandosi allorché dal gran pozzo si scende giù per li gradini del teatro.
sesta specie. Limo siliceo-argilloso, non effervescente. Ha un colore grigio di cenere, e si riduce in polvere tra le dita. Giace al disotto del precedente, che anzi vi è un passaggio dall'una specie all'altra, con materia di transizione intermedia. Intanto la natura silicea di questo strato, diversa dal precedente, dimostra che questi due strati appartengono a due genesi diverse, cioè a due alluvioni, accadute in due epoche differenti. Forse potrà venire in testa a qualcheduno di prendere questa specie e la precedente per le ceneri volcaniche dell'eruzione del 79. Ma basta confrontare le due specie divisate colle ceneri volcaniche, per rilevare subito la differenza enorme, che passa tra loro. Queste due specie, infatti, dimostrano non solo essere state stemperate e travagliate dalle acque, ma che nella mescolanza di esse entra della terra, che ha servito alla vegetazione. La montagna detta del Salvatore sulle falde del Vesuvio, dove si ritrova l'eremitaggio, è assolutamente opera delle alluvioni. Tal è similmente la falda di Somma, contigua al così detto fosso grande, ciò che nessuno scrittore del Vesuvio ha osservato finora. Or queste due vaste montagne di alluvione, sulle quali lussureggian alberi, viti, ed erbe, sono quasi interamente fatte dalle stesse materie d'Ercolano, descritte nella specie quinta e sesta. Degli strati di lapillo, che s'incontrano nelle montagne di alluvione di Somma e del Vesuvio; ed un'infinità di pezzi di lava, di pietra calcare, e di altre rocce primitive, che si veggon incastonati nel masso di dette montagne, dimostrano essere state queste formate dalle acque. La specie, quindi, precedente e la presente sono il risultato delle alluvioni, ciò che indipendentemente dalla natura del masso, che cuopre Ercolano, è provato anche dall'analogia. Giova, poi, far qui parola della posizione di queste due specie, per dedurne la falsità dell'avvedimento raccontato dalla storia, volendole, cioè, supporre ceneri volcaniche. Questi due strati, dunque, si ritrovano tra il tufo volcanico, ch'è al disotto, e la breccia volcanica, che giace al disopra degli strali in quistione, i quali occupano quasi la parte media dell'altezza del teatro. Ammessa, quindi, una pioggia di ceneri volcaniche, caduta nel 79 sopra Ercolano, questa non poté seppellirla affatto, poiché questi strati, che figurano la cenere, giusta la supposizione suddetta, non occupano tutta l'altezza del teatro, ossia l'altezza della città, che dovrebbe ritrovarsi coperta da queste sostanze. Dippiù se questi due strati giaccion in mezzo ad altri, e quasi nella parte media dell'altezza del teatro, bisogna dire che gli strati inferiori, che sono al disotto, furono fatti prima del 79, per la ragione, che non son essi di cenere volcanica. Ma in questi strati inferiori, che sono al disotto, s'incontrati seppellite le rovine più basse d'Ercolano. Dunque se la pioggia di ceneri volcaniche del 79 cadde sopra Ercolano; se tra gli strati, che cuoprono questa città, questo ed il precedente (5. e 6. specie), sono quelli, che si vogliono fatti dalla pioggia descritta dalla storia; se questi due strati ne hanno al disotto degli altri; e se in questi si ritrovano le rovine delle parti le più basse d'Ercolano (come un acquidotto della città, ch'è seppellito nel tufo argilloso volcanico non effervescente, le strade ripiene da questo tufo, e le parti inferiori degli edificj incastonate nel tufo medesimo), si deve necessariamente conchiudere, che la pioggia volcanica suddetta non distrusse Ercolano: che questa distruzione non accade nel 79: e che se li due strati in quistione, cioè, il quinto ed il sesto, furono fatti dalle ceneri del 79, a quest'epoca Ercolano era già distrutto, ed in parte seppellito, seppellita, cioè, la parte più bassa della città soltanto. Similmente se la pioggia di ceneri accadde nel 79; se li due strati in quistione sono quelli, che si vogliono formati dall'eruzione dell'istesso anno; e se questi strati ne hanno aldisopra degli altri, cioè, la specie 4. e 3. nelle quali si ritrovano le rovine delle parti più alte del teatro, uopo è nuovamente conchiudere, che le specie 4. e 3. furono fatte dopo del 79: che conseguentemente la parte superiore del teatro non era ancora a quest'epoca seppellita: che le ceneri non furono quelle, che distrussero Ercolano: che questa distruzione non accadde nel 79: e che, in fine, il sotterramento delle parti superiori del teatro seguì dopo del 79, non per effetto d'una pioggia di ceneri volcaniche, lanciate dal Vesuvio perché già seguita, e perché queste ceneri non arrivarono neppure alla metà degli edificj, ma per opera delle alluvioni, conforme ho già osservato. Ecco conseguentemente la dimostrazione del reiterato e consecutivo sotterramento d'Ercolano per via umida, ossia la dimostrazione dell'incremento successivo della doppiezza del masso (altezza della montagna) che cuopre la città, masso ch'è di circa piedi 60, e che costituisce ora un monte di alluvione volcanico, che contiene nelle sue viscere la città distrutta, ed il quale smentisce, nel tempo istesso, tre fatti capitali della storia; cioè la cagione distruggitrice; l'epoca della distruzione; e l 'unità del tempo delle due celebri città distrutte.
settima specie. Tufo calcare volcanico, effervescente. La pomice è in esso polverosa, e giallastra. Giace al disotto della specie precedente. Che questo tufo sia stato una volta nello stato molle, si deduce dalla bella impressione d'un volto umano, scolpita nel medesimo, siccome dirò in seguito. Lo stato di mollezza di questo tufo, si rileva, eziandio, da molti pezzi di colonne incastonate in questa specie nella parte più bassa del teatro. Similmente risulta la stessa cosa da un acquidotto, che scorre per la città, e che si vede oggi incastonato in questa specie di tufo, la quale riempie la strada, per la quale l'acquidotto passa. Intanto considerata la diversa natura delle due specie di tufo, che s'incontrano in Ercolano, cioè dell'argilloso non effervescente, specie 3., e del calcare effervescente, specie 7., dobbiamo necessarjamente dire, che queste due specie di tufo appartengono a due genesi diverse. Si deve, cioè, pensare, che la superficie del circondario del Vesuvio spazzata, in diverse epoche, dalle acque, si sia ritrovata coperta ora da materie argillose, ed ora calcari, donde presero origine le due specie di tufo, che ora cuoprono Ercolano, e che concorrono alla formazione del masso, in cui la città giace seppellita.
ottava specie. Strato di limo argilloso-siliceo, non effervescente, che si riduce in sottilissima polvere tra le dita. Si conosce al primo colpo d'occhio ch'è un sedimento delle acque. Giace nel proscenio.
nona specie. Marna calcare effervescentissima, nella quale ho ritrovato de' pezzi di pietra calcare; laminare, che fa eziandio una forte effervescenza coll'acido nitrico. All'aspetto si conosce essere stata precipitata dalle acque. L'indole diversa di questa sostanza dalla precedente, indica una formazione differente, ed ecco due altre formazioni da due alluvioni. Giace questa specie nel piano del proscenio in forma d'una vena quasi orizzontale. Nel di 26 del passato ottobre ne scavai colle mani una gran quantità, in mezzo alla quale ritrovai alcuni pezzi di mattoni, alcuni altri pezzi di pietra calcare laminare, disopra riferita, e delle lumache terrestri che conservo. Queste sono ancora intatte e ripiene della stessa marna effervescente. Or nessuno dirà, che queste lumache uscirono, e furono lanciate per aria dal Vesuvio. Inoltre cavai da mezzo della detta marna alcuni pezzi di legno ridotto in carbone, che conservo, i quali bruciano e si convertono subito in carboni igniti, accostandoli semplicemnte alla famma d'una candela. Nel legno convertito in carboni si veggon, eziandio, distintamente delle fibbre concentriche, che indicano l'incremento annuo degli aberi. In varj luoghi, poi, si veffono nell'istessa marna, e nel limo dlela specie precedente, de' piccoli strati d'una polvere nera, provegnente dalla putredine del legname sotterrtato dalle alluvioni. I ciceroni del luogo lo chiamano carbone, e dicono che ve n'era prima una gran quantità, che a poco a poco le visite de' forestieri e de' curiosi han esaurita.
Intanto dalle divisate specie di materie, che cuoprono Ercolano, risulta la dimostrazione geognostica e chimica del sotterramento seguito per via umida, e non già per via secca, cioè per effetto d'inondazioni, e non già per cagione d'una pioggia di ceneri, lanciate per aria dal Vesuvio, conforme si è creduto finora. Difatti la dimostrazione geognostica è messa ne' diversi strati delle materie pietrose e terrose, che cuoprono Ercolano. La dimostrazione chimica, poi, si rileva dalla varia natura de' principj componenti i varj tufi, le terre, gli aggregati, Il limo, e la marna degli strati riferiti. La diversità inoltre, degli strati pietrosi e terrosi descritti, e le loro varietà indicano, che questo sotterramento ha dovuto accadere non in una volta, ma in nove alluvioni differenti. Devo finalmente osservare, che non ho potuto esaminare, se non che alcune parti dell'altezza del teatro, dalle quali ho staccato le sostanze descritte. La piccolezza e l'irregolarità degli scavamenti, non lascia vedere tutti gli strati ben pronunziati; ma la varietà dellerocce, ed un occhio avvezzo alle osservazioni geologiche, non permettono di dubitare della stratificazione, che cuopre la città, cagionata dalle acque. Sarebbe, certamente, pregio dell'opera esaminare, con alcuni perciamenti perpendicolari, palmo a palmo, l'intera altezza del masso, che cuopre il teatro, e le sue vicinanze, per definire così i limiti di ogni strato, e tutte le altre particolarità di questo sotterramento. Altronde non bisogna credere che l'estensione degli strati, fatti dalle alluvioni sia molto grande; essa è proporzionale alla quantità delle acque, le quali essendo più o meno abbondanti nelle varie inondazioni, dan origine a strati più, o meno estesi. Ecco perché i monti di alluvione surti dalle reiterate inondazioni son composti da strati non egualmente larghi, e perché questi si combacian tra loro ad una data distanza. Generalmente parlando i monti a strati propriamente detti, son essi eziandio formati da inondazioni, ma queste non son prodotte da piogge dirotte, come nelle alluvioni. Delle inondazioni più grandi, cagionate da altre cagioni, delle quali fo parola nella mia geologia, dan origine ai monti a strati, de' quali l'estenslone è assai grande, ed alla quale sarebbe un errore paragonar quella de monti di alluvione, formati dalle piogge.
Il fin qui detto convince sicuramente i geologi del sotterramento d'Ercolano, seguito mercè delle consecutive e reiterate inondazioni. Ma la più bella prova di questo sotterramento per via umida, prova che deve persuadere anche quelli, i quali non hanno tintura alcuna della geologia, è messa nella bellissima impressione, che si osserva nel tufo della specie 7. Questa impressione rappresenta un volto umano, incavato nel masso, simile a quelle che s'imprimono nel gesso, allorché si vuol modellare un busto. Bisogna che in tempo dell'alluvione un cadavere, o una statua si fosse ritrovato steso a terra col volto riguardante il cielo. La materia molle e liquida d'uno strato di tufo calcare volcanico coprì il volto, e vi si modellò sopra, perché nell'impressione, ch'è oggi rovesciata, scolpita, cioè, nel cielo d'una grotta incavata nel tufo, ch'è durissimo, si distinguono perfettamente e mirabilmente il mento, le labbra, la bocca, il naso, le guancia, gli occhi, le ciglia, la fronte, e finanche i capelli, in modo che la vista dell'impressione suddetta produce una sorpresa. Or chi potrà negare lo stato molle, in cui dove ritrovarsi il tufo, allorché ricevè l'impressione del volto? Devo solo qui accennare, che questo stato di mollezza non fu comunicato al tufo dal fuoco, come taluni, non riflettendo agli effetti di questo elemento, applicato alle sostanze terrose, han voluto meco sostenere. Se ciò fosse stato, il masso in cui si ritrova l'impressione sarebbe di lava volcanica; ma il tufo non è lava, e non ha provato l'azione del fuoco. Altronde ho già osservato che il tufo si fonde al fuoco in una scoria grigia nera. Egli dunque non sarebbe tufo adesso, se fosse stato fuso dal fuoco. Oltre a ciò, se questo stato di mollezza fosse stato cagionato dal fuoco, il volto umano, o la statua, che formò l'impressione sarebbero spariti, e non esisterebbe ora l'impressione. Infatti se fosse stato il volto d'un cadavere, sarebbe stato bruciato; se un volto di marmo, ossia una statua di questa pietra, si sarebbe calcinato, e se un volto di metallo, sarebbe stato fuso da quel fuoco, da cui si vogliono bruciati e ridotti in carboni i papiri e le legna, e fusi i vetri. Uopo è dunque dire, che lo stato molle del tufo d'Ercolano, in cui l'impressione suddetta è scolpita, fu opera dell'acqua.
Vediamo ora d'interpetrare qualche altro fatto, che si osserva in Ercolano, per provare ulteriormente il sotterramento di questa città dalla stessa cagione, ossia dalla via umida, giusta il mio proponimento.
L'argomento di un alluvione, che coprì Pompei con uno strato di lapillo, da me dedotto dalla cantina e dai vasi vinarj, che furono ritrovati pieni di terra in quella città disotterrata, conforme risulta dalla mia prima lettera, quest'argomento, io dissi, ha luogo eziandio e prende un più luminoso aspetto in Ercolano. I corridoi, infatti, ed i vomitorj del teatro sono interamente coperti da solidissime volte di fabbrica, che sono ancora intatte. Intanto tutti questi corridoi e vomitorj, come altresì tutti gli altri luoghi coperti da volte, si veggon oggi interamente ripieni dalle stesse materie, costituenti il masso, cioè dal tufo, dalla breccia volcanica, e dagli aggregati terrosi descritti. Quella parte de' corridoi e de' vomitorj, nella quale si camina oggi, è stata votata a forza di tagli fatti nel sasso, ch'è così duro, che per economia non si è ancora interamente effettuato il votamento de' medesi. Or io domando, come si può concepire il riempimento de' vomitorj, de' corridoi e degli altri luoghi, coperti da volte, dietro la pioggia di ceneri vantata tanto dalla storia? Se fosse stato così, come le ceneri cadeano dall'alto, i corridoi, i vomitorj, come altresì tanti altri luoghi coperti da volte, che si osservano in Ercolano, avrebbero dovuto ritrovarsi voti. Un'alluvione quindi poté soltanto riempirli; mentre un fluido potea pervenirvi benissimo dalle aperture laterali, strascinadovi dentro le materie, dalle quali vediam oggi detti luoghi ripieni. Intanto ecco come fatti dell'istesso genere, mirabilmente corrispondono tra loro in due luoghi di alluvione. Cioè luoghi coperti da volte si sono ritrovati pieni in Pompei, e luoghi coperti da volte sono stati anche ritrovati ripieni in Ercolano. Impressione d'un seno muliebre ei è ritrovata nella terra, che riempiva la cantina di Tompei, ed impressione d'un volto umano si è ritrovata nel masso pietroso, che riempie i corridoi ed i vomitorj d'Ercolano. Dunque io ho dritto di conchiudere, che un'alluvione sotterrò Pompei, ed un'alluvione seppellì ancora Ercolano.
ll teatro d'Ercolano ha 18 ordini di gradini, su de' quali sedea il popolo spettatore. Ogni gradino ha l'altezza di 14 pollici; altezza totale piedi 21. Il cornicione superiore del teatro si ritrova nove piedi, in circa, al disopra dell'ultimo gradino; in guisa che l'altezza intera del teatro è di 30 piedi. Convien dire che gli altri edificj d'Ercolano aveano presso a poco la stessa altezza tanto essendo quasi quella della contemporanea Pompei, e non essendo 30 piedi un'altezza considerevole, considerata anche l'architettura bassa di quei tempi. Or io ragiono così. Se una pioggia di ceneri seppellì Ercolano, l'intera altezza del teatro, il quale è al livello del mare, dovrebbe ritrovarsi formata e ripiena da ceneri volcaniche, ma ciò non si verifica affatto; poiché il masso, che riempie l'altezza del teatro è composto da un tufo argilloso volcanico non effervescente (specie 3.), da una breccia volcanica (specie 4.), da un. aggregato calcare-argilloso effervescente (specie 5.), da un limo siliceo-argilloso non effervescente (specie 6.), da un tufo calcare volcanico effervescente (specie 7.), da un limo argilloso-siliceo non effervescente (specie 8.), e da una marna calcare effervescentissima (specie 9.). Tutte queste sostanze giacciono giusta l'ordine qui notato; incominciando, cioè, dal tufo (specie 3.), che scende dalla scala sino al disotto del cornicione del teatro. Or come spiegare tante genesi, diverse tra loro geognosticamente e chimicamente per mezzo d'una pioggia di ceneri? Come spiegare la regolarità d'ogni strato? Non si dovrebbero ritrovare tutte le dette materie. mischiate disordinatamente ed alla rinfusa, se fossero cadute dall'aria? Non si dovrebbero ammettere, pel sotterramento d'Ercolano, reiterate e consecutive piogge, lanciate dal Vesuvio, una, cioè, di tufo, un'altra di brecce volcaniche, una terza di aggregato calcare, una quarta di limo siliceo etc., per spiegare cosi la regolarità degli strati che cuoprono la città, e la diversa natura de' loro principj componenti? Ma non sarebbe, con ciò, appartarsi dalla storia, che parla della sola pioggia di cenere del 79, alla quale soltanto attribuisce la desolazione d'Ercolano e di Pompei nel solo corso d'una giornata? Come potea seguire il riempimento così regolare del teatro in un cosi breve tempo, e dalla stessa cagione, della quale gli effetti sono tanto diversi? Come si può dire esser uscite le lumache terrestri dal Vesuvio, senza essere calcinate? E poi come sarebbero queste andate nel volcano? Uopo è, dunque, ammettere il sotterramento d'Ercolano per via umida, ossia per opera di reiterate, e consecutive alluvioni, che han a poco a poco, e successivamente ingrossato il masso, dal quale lo vediamo oggi coperto.
Non è stato finora, che ne' sotterranei d'Ercolano, che raccogliendo i fatti geologici, relativi al masso, che cuopre questa città distrutta, già riferiti, ho fatto rilevare la sua genesi per opera delle reiterate e successive alluvioni, dalle quali ha preso origine l'incremento del masso medesimo, come ancora la diversa natura degli strati pietrosi e terrosi, ne' quali giaccion oggi seppelliti gli avanzi di quella tanto rinomata città.
Usciamo ora fuora da quegli antri oscuri e da quei laberinti, trasferiamoci al giorno, esaminiamo l'aspetto esterno e la struttura de' monti, e del suolo delle vicinanze d'Ercolano, e vediamo se nuove osservazioni geologiche, ch'andremo a fare in luoghi molto distanti dal teatro sepolto, debbano confermare, o distruggere la mia opinione.
Sì: io dicea a me stesso (ogni qualvolta mi ritrovava negli scavamenti d'Ercolano, e che non avea ancora geologicamente esaminato il suo circondario) se questo luogo è stato inondato dalle acque; se il masso, che cuopre il teatro è composto da strati; e se quesii strati sono stati formati da alluvioni, che han seppellito la città; uopo è necessariamente che il suolo ed i monti delle vicinanze d'Ercolano sian tutti terreni d'alluvione, ed io dovrò assolutamente ritrovare da per tutto, e ad una gran distanza vestigia dell'acqua. Il fatto, e le osservazioni han confermato mirabilmente le mie conghietture, ed ecco una dimostrazione della solidità di quell'assioma logico, che stabilisce, che quando un princpio è vero, vere eziandio debbon essere le conseguenze, che da esso vengon dedotte. Difatti andremo a vedere, che ho indovinato la natura de' monti molto distanti da Resina, cioè d'un terreno più di sette miglia lungo, dalla struttura del masso, che cuopre il teatro, sepolto al disotto di questo villaggio.
Invito, dunque, il lettore di trasferirsi al di là della Torre del Greco, nel luogo detto lo Scavamento. Egli ritroverà al giorno degli antichi edifizj disotterrati, che apparteneano alla città d'Ercolano. Egli caminerà al disopra d'un tetto d'un edifizio, che si ritrova ancora sotterra, e vedrà tagliato perpendicolarmente il masso del monte, in cui sono incavate varie grotte, e che cuopre altri edificj. Questo luogo è circa due miglia distante dal teatro, e forse la città distrutta si stendea ancora più lungi da questo luogo, verso la Torre dell'Annunciata. Intanto chiunque, per poco avvezzo alle osservazioni geologiche, è costretto, all'aspetto del luogo, di confessare, che il masso del monte, che cuopre gli edifizj nel quale sono incavate le. grotte, come altresì tutto il terreno adiacente, sono il prodotto delle alluvioni. Difatti il masso è in questi luoghi d'indole argillosa-calcare, effervescente all'acido nitrico. In esso si veggono de' pezzi di pietra calcare, rotolati dalle acque, ed una quantità immensa di rottami di lava di tutte le grandezze. Io ho ritrovato anche incastonati in questo masso de' pezzi di mattoni, ed altre terre cotte. Niente dico de' monti di tufo, esistenti tra la Torre del Greco e lo Scavamento, ne' quali veggonsi infiniti pezzi di lava. In una delle grotte, poi, si osserva, in mezzo al masso argilloso-calcare, uno strato di arena nera, che dimostra le reiterate soprapposizioni delle materie, originate dalle acque, e dalle quali nacque l'altezza del monte.
Il lettore scenderà, indi, dallo Scavamento della Torre del Greco alla marina sottoposta, e vedrà, quasi al livello del mare uno strato ben caratteristico di marna calcare effervescentissima all'acido nitrico, affatto simile a quella, che s'incontra nel piano del proscenio del teatro, indicata nella specie 9. La posizione, ossia l'elevazione presso a poco la stessa de' due luoghi, ne' quali giace la marna, mi fa credere essere uno e lo stesso strato tanto quello, che si osserva nel proscenio, quanto l'altro, che si vede alla Torre del Greco al disotto dello Scavamento. Son persuaso che a forza di livellazioni, e di scavamenti perpendicolari in alcuni luoghi tra Resina e la Torre del Greco, si verrebbe a definire l'identità degli altri strati, descritti nel teatro, con quelli che s'incontrano nel circondario di Resina e della Torre.
Allorché il lettore si ritrova sul lido del mare al disotto dello Scavamento della Torre del Greco, potrà caminare circa due miglia, andando verso la Torre dell'Annunciata e fatta una salita, potrà pervenire, accostandoci più o meno al mare, a questa città. Egli potrà indi ritornarsene lido lido, come meglio gli sarà possibile (veduto che non vi è strada affatto) sino a Resina. In questa guisa osserverà con non poco piacere, che un tratto di terreno di circa sette miglia lungo, è interamente stato formato dalle alluvioni. Le caratteristiche sono così convincenti e chiare, che bisogna essere totalmente novizio nelle osservazioni geologiche, per non confessare subito l'effetto delle acque in quel circondario, in cui giacea l'antica Ercolano. Io mi son dato la pena di correre da per tutto, e di entrare in tutte le vigne, e ne' luoghi, dove si possono osservare calve le montagne. Da per tutto ho ritrovato essere queste state fatte dalle acque. Un lungo tratto di terreno, poi, al disotto della Torre del Greco, ed un altro al lido del mare sotto la Torre dell'Annunciata, prima di arrivare ai mulini, offrono i più belli esempj delle alluvioni. Da Resina alla Torre dell'Annunciata si osserva passo passo lo stesso. Bisogna, nulladimeno, eccettuarne alcune lingue di terreno, per le quali sono corse le lave del Vesuvio, e che forman oggi massi solidi di pietra, colle quali si lastricano le nostre strade, al disopra di quali massi, si osservan eziandio, in alcuni luoghi, strati e massi di terre d'alluvione; in guisa che l'elevazione attuale di quelle montagne, è d'una doppia origine, la parte inferiore, cioè, ossia il masso solido di lava essendo stato prodotto dal fuoco, ed il superiore dall'acqua. Con ciò abbiamo nell'istesso luogo opere di Vulcano e di Nettuno, se vogliam parlare il linguaggio de' poeti, i quali hanno confuso sempre la fisica colla favola. Or se Ercolano fu distrutto da una pioggia di ceneri lanciate nell'anno 79 dal Vesuvio, tutto il tratto di terreno da Resina alla Torre del Greco, in cui giacea la città, dovrebbe vedersi fatto da ceneri volcaniche, e non già da materie diverse strascinate e depositate in quel circondario dalle acque. La lava che in gran quantità, ed in grossi pezzi si ritrova incastonata nell'aggregato argilloso-calcare effervescente dello Scavamento, e nel tufo, tra questo luogo e la Torre del Greco, indica di aver percorso liquida un tratto di terreno fuora del volcano, prima che fosse stata unita alla terra suddetta. Sarebbe assurdo il supporre tanti milioni di pezzi lanciati in questo gran spazio dal Vesuvio. Da un'altra parte come avrebbero potuto penetrare nell'interno delle montagne, ed in tutte le altezze di esse, senza supporre tali montagne in uno stato di mollezza durante l'eruzione del Vesuvio, ciò che sarebbe assurdo? Similmente i pezzi calcari, incastonati nel masso terroso suddetto, non si possono dire esseri stati gittati fuora dal Vesuvio con i pezzi di lava, poiché quel gran grado di calore, che rese fuse e fluide le lave, avrebbe certamente calcinato la pietra calcare, e non s'incontrerebbe oggi compatta e solida, senza mostrare vestigio alcuno del fuoco sofferto. Bisogna dunque attribuire l'unione di queste sostanze, tanto diverse tra loro, alle acque le quali spazzando via terre, lave, e pietre formarono tutto il masso del circondario d'Ercolano, che ho definito un terreno d'alluvione. Vada il lettore da Resina alla Torre dell'Annunciata, seguendo il littorale, e per poco che sia egli avvezzo alle osservazioni geologiche, dovrà confessare subito le alluvioni, che vi son accadute, e dalle quali è surto tutto quel terreno al di sopra del mare. Egli sarà, anzi, sorpreso dell'avermi veduto insistere tanto su quest'argomento, quando bastava averlo indicato.
Intanto non ostante quest'abbondanza d'argomenti a favore dell'acqua, i fautori del fuoco sono tuttavia ricalcitranti, e mi hanno oppresso con una ripetizione nojosa delle loro opposizioni. La novità della mia opinione, e l'essere i miei opponenti i più rispettabili soggetti di questa capitale, i quali da un altro lato si staccano con difficoltà somma dall'antica e generale credenza, mi obbligano di ponderare un poco le loro difficoltà.
ll primo argomento, e ch'è quello che potrebbe sembrare il più solido, è dedotto da tanti famosi papiri, ritrovati in Ercolano in forma di carboni. Ma oltre che i papiri niente provano a favore del fuoco, essi, all'opposto, costituiscono una prova in contrario, siccome ho più e più volte osservato ai miei opponenti, i quali incomincian sempre da capo.
Di fatti i papiri ridotti in carboni nulla provano, perché il legname il più duro, (ed i papiri sono membrane d'alberi) diventa carbone senza il soccorso del fuoco; allorché, cioè, resta lungamente seppellito sotterra, e massimamente quando viene penetrato da acque vitrioliche. Ciò è tanto vero, che boschi immensi sotterrati dalle alluvioni, restano interamente trasformati in carboni. Dirò, anzi, che l'errore generale de' geologi e naturalisti di oggi giorno è quello, di credere il carbone fossile una sostanza vegetabile, cioè legname di selve seppellite, convertito in carbone da acque impregnate di acido solforico; ma io credo di aver il primo dimostrato, che il carbone fossile prende origine dal regno animale marino, come risulta da una mia memoria intitolata sull'utilità della parte volcanica, pubblicata nel 1807. Riguardo, poi, all'antracite, ch'io chiamo Xilantrace, egli è fuor di dubbio, che questo cartone è dovuto a boschi sotterrati dall'acqua. Indipendentemente dagli esempj di questo genere, da me veduti in Germania ed in Inghilterra, io scoprii nel 1808 un immenso deposito d'antracite nel fiume Lao vicino Castelluccio nel nostro regno, originato da selve seppellite dalle alluvioni. Or quest'antracite, che si vede interamente ridotto in carbone, offre in alcuni pezzi del legname ancora intatto, in modo che l'ho varie volte lavorato col temperino. In Bovey-Hefil in Inghilterra s'incontra una prodigiosa quantità di carbone in mezzo al legname di foreste seppellite. La riduzione in carbone, conseguentemente, non è sempre l'effetto del fuoco. Il tempo, il sotterramento, e le acque acide riducono perfettamente in carbone le sostanze vegetabili. Il fuoco, anzi, distrugge tutto, e converte in cenere, allorché inoltrata la combustione, non viene soffocata col sotterramento delle sostanze combustibili infiammate. Non vi è, dunque, bisogno di fuoco, per spiegare il cambiamento in carboni de' papiri d'Ercolano; il fuoco, all'opposto, che secondo i miei opponenti distrusse tutto, avrebbe inceneriti i papiri, e non si sarebbero ritrovati ridotti in carboni. Ho già osservato aver ritrovato sepolto nella marna calcare della specie 9. una quantità di legname, interamente fatto carbone per lo stesso principio.
All'opposto i famosi papiri d'Ercolano formano un argomento contro del fuoco, e consolidano la mia opinione. Chiunque ha veduto svolgere i papiri in Napoli, ha osservato, che i medesimi conservano il loro tessuto, dal che, cioè, la membrana vegetabile non ha sofferto soluzione nel continuo. Le lacune di questi papiri, alle quali si è supplito, e si supplisce colle interpetrazioni, dimostrano, per l'appunto, la soluzione del continuo in alcune parti de' medesimi, per cui queste parti più non esistono. Or il fuoco avrebbe distrutto tutto; i papiri sarebbero stati convertiti in cenere; e nella supposizione di un incendio sofferto, non sarebbe possibile di svolgerli adesso, perché più non esisterebbero. Un illustre letterato mi ha opposto nella nostra Accademia, che i papiri si sono conservali intatti senza aver sofferto (malgrado l'incendio di essi ) la soluzione del continuo, perché l'inchiostro degli antichi, di cui noi ignoriamo la natura, per qualche qualità occulta, potea a tanto contribuire; ma ciò è un inintelligibile gergo, in confronto del mio ragionamento.
Similmente in sostegno del fuoco mi è stato opposto, essersi ritrovato in Ercolano del vetro fuso, e pezzi di ferro similmente fusi. L'opponente, anzi, fece apportare in una sessione della nostra Accademia alcuni ferramenti d'agricoltura, ed una toppa arrugginita, ricavati dalla rovine d'Ercolano, e che si conservano nel Real Museo, per convincermi del suo assunto; ma non fu esibito vetro alcuno. Or io feci subito rilevare, che la pretesa fusione per cagione del fuoco volcanico, non era altro, se non che una semplice ossidazione del ferro, fatta dall'aria e dall'acqua. E poi, io dicea, il ferro martellato, che senza addizione è infusibile ne' fuochi i più forti, come potea restar fuso dalle ceneri volcaniche, supposte anche infocate, senza fondamento alcuno?. Ma avvedutomi d'un pezzo di legname, ch'era ancora attaccato alla toppa d'Ercolano, lo mostrai al mio opponente, che tacque. Riguardo al vetro fuso, cosa potrebbe egli dimostrare, se venisse esibito? Niente altro, che questo vetro fuso fu ritrovato in Ercolano, ma non già che fu fuso dal fuoco del Vesuvio. Ma poi cosa dinota vetro fuso? I vetri non sono tutti fusi? Forse un vetro fuso per la seconda volta? Ma l'arte non rifonde i vetri? Non potea esservi in Ercolano un vetro rifuso dall'arte? Coma và poi che il fuoco, il quale bruciò i papiri, il quale fuse il vetro ed il ferro, ed il quale distrusse la città intera, non arse tante provvisioni da bocca, ritrovate in Ercolano, e conservate nel Regio gabinetto, come pane, fave, piselli, orzo, fichi, noci, lenticchie, e simili? Del resto queste opposizioni non dimostrano l'intima persuasione, che anzi la caponaggine de' letterati, nostri contemporanei a favore d'un punto classico della storia, ch'io combatto? Era perciò necessario di riferirle, onde trasmettere alla posterità, colla scoperta, l'opinione del tempo, in cui è stata fatta.
Abbandoniamo ora per un momento le rovine di Pompei e d'Ercolano; passiamo altrove, per conoscere gli effetti delle alluvioni; e cerchiamo di rilevare il sotterramento di tanti altri monumenti antichi per opera delle acque, onde accostumarci a riguardare quello delle due antiche città, come un prodotto dell'istessa cagione.
Sarebbe non finirla mai, se volessi riferire tanti esempi di sotterramenti, fatti dalle alluvioni in tanti luoghi di Europa. Roma, principalmente, ch'è il paese classico de' monumenti antichi, offre da per tutto questi esempj, ed ognuno sà quanti stupendi pezzi di architettura sono stati in varj tempi disotterrati dai terreni di alluvione in quella famosa città, i quali han mirabilmente occupato gli antiquarj, e gli altri scrittori. Mi restringo, quindi, ad accennare qualche cosa più rimarchevole del nostro paese, osservando potersi stabilire per principio, che il fato di quasi tutt'i monumenti antichi è quello, di dover restare, finalmente, seppelliti dalle acque. E di fatti non si parla d'altro giornalmente, che di scavamenti di edificj antichi, e di rimasugli rovinati disotterrati in tutt'i paesi del mondo. Ho fatto rilevare in altri miei scritti, che il famoso anfiteatro Campano si ritrova in parte sotterrato dalle terre e pietre, strascinate nella pianura di S. Maria di Capua dalle acque, e staccate dagli Appennini vicini. Di fatti la campagna di S. Maria si eleva giornalmente e si è elevata, per lo passato, insensibilmente in modo, ch'è arrivata vicino all'architrave delle porte del teatro, le quali sono già più della metà sotterrate. Si veggon ancora oggi gli scavamenti, fatti fare anni in dietro dal governo alla porta orientale, che scendono in giù, e scuopreno le colonne sotterrate, o per meglio dire semisotterrate, poiché il resto di esse è al di fuora, come se fossero ficcate nel terreno. Questo suolo si eleva, mercé delle acque, da giorno in giorno, colla depressione degli Appennini. Verrà un tempo che l'anfiteatro Campano si ritroverà interamente seppellito, come oggi vediamo Ercolano. Ecco quindi un sotterramento, che si fa dalle acque sotto ai nostri occhi, e del quale Dio sà cosa predicheranno gli scrittori alla posterità, conforme da Dione Cassio in poi per tanti secoli han fatto, riguardo a Pompei e ad Ercolano, gl'istorici.
Similmente il celebre tempio di Serapide in Pozzuoli, è stato lungamente seppellito sotto strati di terre e pietre, che vi furono depositati sopra dalle acque. Queste, anzi, han soggiornato lungamente sul terreno d'alluvione, che cuopriva il tempio suddetto. In fatti le tre maestose e gigantesche colonne di marmo, che sono ancora all'impiedi nell'istesso luogo, dove furono messe la prima volta, come altresì molte altre colonne dell'istesso tempio cadute e rotte, si ritrovano nella parte superiore mirabilmente bucate dai mitili, che vivono nelle pietre dure al di sotto dell'acqua, come se fossero state succhiellate con un trapano. Non è guari che questo tempio, che vien visitato da tutt'i viaggiatori, è stato disotterrato.
Allorché furono scavate in Napoli le fondamenta della guglia di S. Domenico, fu scoperta la Porta puteolana, sotterrata dalle alluvioni, in modo che dalla strada attuale, che passa molto al disopra della detta porta, si può argomentare quanto sia stato elevato quel suolo dalle acque. Lo stesso similmente devo dire delle tombe, ultimamente disotterrate nella parte settentrionale del palazzo degli studj di questa città, le quali si veggon ancora coperte da uno strato di lapillo, affatto simile a quello, che cuopre Pompei, siccome ho già osservato. Di più un antico tempio in Nocera de' Pagani, convertito in chiesa, e che si vede in gran parte sotterrato dalle acque.
Finalmente per non moltiplicare gli esempj inutilmente, finisco osservando, che il suolo surto sul mare, su di cui si ritrova la città di Napoli, non è cresciuto, che per forza delle acque, le quali han seppellito tanti edifizj antichi, siccome giornalmente insegnano gli scavamenti, e la geologia; giacché i rimasugli rovinati rinvenuti, gli strati di lapillo volcanico e di altre terre, ed i banchi di tufo, che compongono i monti del cratere, sul quale siede la nostra città, dimostrano la genesi del suolo suddetto da reiterate, e consecutive alluvioni. Perché dunque dobbiamo mendicare una pioggia di ceneri volcaniche, lanciate dal Vesuvio, per spiegare il sotterramento d'Ercolano e di Pompei, se siamo circondati da tanti altri sotterramenti dell'istesso genere, prodotti dalle alluvioni? Se abbiamo tanti altri monti, simili a quelli, sotto ai quali si ritrovano seppellite le dette due città, nati per via umida?
Tutti gli argomenti, intanto, finora riferiti a favore delle alluvioni e della mia opinione, han dato una scossa bensì nell'animo di alcuni de' nostri più illustri letterati all'avvenimento classico, allegato dalla storia intorno all'eruzione del 79, dalla quale si vogliono distrutte e seppellite le due città, ma i medesimi non sono ancora decisi a mio favore. Costretti di confessare gli effetti delle acque in Pompei ed in Ercolano, essi nulladimeno non vogliono abbandonare l'idea del fuoco Vesuviano, celebrato tanto dalla storia di XVII secoli. Tanto, infatti, è difficile di sradicare gli errori inveterati! Tanto è arduo di toglier l'odore, con cui la prima volta è stato imbrattato un vaso!
Alcuni de' nostri letterati, dunque, sofisticano adesso e fanno sforzi di fantasia per combinare il fuoco coll'acqua, ossia per spiegare la distruzione ed il sotterramento delle due città per opera delle eruzioni del Vesuvio, e delle alluvioni.
Or chi non vede che questi signori sortono dall'argomento? Qual è quest'argomento? Il mio assunto; cioè di dimostrare la falsità della storia, riguardo a Pompei e ad Ercolano. Ma cosa dice la storia a questo proposito? Dice che la distruzione delle due città fu cagionata dalla pioggia di ceneri, lanciate in aria dal Vesuvio nell'eruzione del 79, ciò che in altri termini esprime la distruzione d'Ercolano e di Pompei per effetto del fuoco. La storia, dunque, non parla affatto né di alluvioni, né di acqua, ed io ho citati tanti passi di autori nel principio di questa lettera, giusto per fissare lo stato della quistione. Il voler ora parlare di fuoco e di acqua, ossia di eruzioni volcaniche, e di alluvioni, vale lo stesso, che voler mettere in bocca agli scrittori quel che questi mai si hanno sognato; giacché essi lo avrebbero sicuramente detto, se avessero cosi opinato, e non avrebbero abbandonata la loro opinione all'interpetrazione de' nostri letterati, o per meglio dire allo sforzo de' sofismi di costoro per conciliare due sistemi diametralmente opposti tra loro. Chi dunque parla oggi di fuoco e d'acqua, come cagione dell'atterramento e del sotterramento d'Ercolano e di Pompei, pretende stabilire una nuova opinione, ma non farà mai l'apologia della storia. Io intanto ho intrapreso di confutare la storia, e non già un'opinione nuova, della quale niente è stato scritto finora, ed alla quale la mia opinione, come altresì il pregiudizio e la difficoltà di volersi distaccare dall'altra, da tanto tempo generalmente adottata, potranno forse dare precariamente origine.
Or stante questa controversia, propostami da non pochi de' nostri letterati, mi vedo nella necessità di dire due parole in contrario, prima di abbandonare il mio proponimento.
Sicchè si pretende che il Vesuvio abbia gittato fuoco, ceneri, lapilli, terre, pietre ed acqua, da quali cose tutte restarono distrutte e seppellite le città di Pompei e d'Ercolano. A tal proposito si cita, per esempio, l'eruzione del 1631, della quale da tanti scrittori si asserisce essere stata vomitata dal Vesuvio un'immensa quantità d'acqua, che inondò e fece tanti danni a varj luoghi.
Primieramente rispondo, che l'epoca della distruzione e del sotterramento di Pompei e d'Ercolano fissata dalla storia, è quella dell'eruzione del 79. Or la storia che ne parla tanto, e che la dipinge così terribile, non dice affatto di esser uscita acqua dal Vesuvio in questa stessa eruzione volcanica, ciò non avrebbe certamente omesso, se tanto fosse accaduto. Questo solo argomento, quindi, dovrebbe bastare, perché i conciliatori delle due opposte opinioni non dovessero più tormentarsi lo spirito in fabbricare ipotesi, invece di rigettarne una, gratuitamente stabilita nell'istoria.
In secondo luogo ammesso anche l'assurdo contrasto de' due elementi, non si può concepire, come abbia potuto uscire dal Vesuvio tanta quantità d'acqua, capace d'allagare e sotterrare non solo le due città, messe alla distanza di nove miglia l'una dall'altra, ma d'inondare, eziandio, tutto questo varato circondario, poiché il medesimo è interamente un terreno di alluvione. Bisognava, perciò, che nell'interno del Vesuvio vi fosse stato un gran lago, e che fosse stato repentinamente vomitato dal volcano. Ma l'acqua, per effetto d'un fuoco così violento, non sarebbe stata più presto convertita in vapore, lanciata precipitosamente nell'atmosfera, e dispersa dai venti, conforme vediamo accadere, allorché si apre il turacciolo della gran caldaja d'una tromba a fuoco, per cacciar fuora il vapore superfluo, che potrebbe far crepare la caldaja istessa col suo elaterio?
Inoltre i diversi strati, che cuoprono Ercolano non si possono affatto spiegare con una sola vomizione d'acqua e di ceneri, seguita dalla bocca del Vesuvio; né in questo caso le materie le più leggieri, come sono le specie 5. 6. 8. e 9. descritte, si ritroverebbero adesso al disotto delle più pesanti. Da quel che ho detto pocanzi si rileva, che la diversità degli strati pietrosi e terrosi, suppone reiterate e consecutive alluvioni. Bisognerebbe, conseguentemente ammettere diverse vomizioni d'acqua del Vesuvio, per spiegare la diversità e la regolarità degli strati riferiti, ciò che non risulta dalla storia, e ciò che sarebbe ammettere ipotesi sopra ipotesi. E poi che necessità vi è, di far uscire le acque dal Vesuvio, per spiegare i fatti, prodotti dalla via umida? Io non vi vedo, che la bizzarria di voler sostenere uno de' tanti errori della storia, e degli autori.
A questo proposito, poi, devo osservare, che le pretese vomizioni d'acqua del Vesuvio sono state vantate tanto da quegli scrittori, de' quali la favorita. idea è stata quella della comunicazione del mare col volcano, per spiegare sconciamente cosi alcuni fenomeni volcanici, che senza questa stravagante comunicazione, ho io, dalla cagione generale dei volcani, chiaramente sviluppati. Di fatti vi è più cosa assurda di quella di dire (e ciò per provare la comunicazione suddetta, e far uscire, secondo il bisogno, 1l'acqua dal volcano) che in tempo di questa, o di quell'altra eruzione il mare si sia ritirato, per avere rifluito nel Vesuvio? Chi così parla, ignora le leggi de' liquidi, e paragona il mediterraneo ad una conca, che si dissecca, allorché l'acqua che contiene, viene versata altrove.
Intanto contro l'opinione generale delle vomizioni d'acqua, prodotte dal Vesuvio, e specialmente contro quella del 1631, ch'è la più famosa e classica tra gli scrittori, io mi riduco ad osservare, che l'Accademia di scienze di Napoli (Istoria dell'incendio del Vesuvio, accaduto nel mese di maggio 1737 pag. 65 e seg.) ragionevolmente sostiene, che in nessun tempo sia ciò accaduto, né all'Etna né al Vesuvio. In fatti l'Accademia, e le istorie di quell'eruzione convengono tutte in questo, che nel bel corso dell'incendio, caddero dal cielo acque senza fine, di maniera che i gran danni cagionati dalle acque nel 1631, furono per effetto delle piogge, e non già che le acque fossero uscite dal Vesuvio. L'Accademia, quindi, conchiude così: «che quando anche il Vesuvio non avesse gettato fuoco in quel tempo, sarebbe nulladimeno avvenuto l'istesso disordine dell'inondazione delle campagne sottoposte ad esso; non altrimenti che in tutti i luoghi signoreggiati da vicini monti accade anche spesso dalle lunghe, e strabbocchevoli piogge. In prova di ciò l'Accademia, e le storie della detta eruzione affermano che il danno cagionato, non fu minore in Somma, in S. Anastasia, in Nola, ed in altri paesi posti alle radici del monte da settentrione, che in Portici, Resina, nella Torre del Greco, e dell'Annunciata, che sono nel lido del mare da mezzo giorno; e pure se le acque fossero uscite dalla bocca medesima, onde usciva il fuoco, in niun conto avrebbono potuto essere gettate sopra quei paesi posti a settentrione, senza supporre che fossero state spruzzate nell'aria, e si fossero in quella potute sostenere a quel modo, che fa ordinariamente la cenere; la qual cosa niuno di sano criterio crederà giammai, interponendosi fra l'una e l'altra cima del monte lo spazio vano di più centinaia di passi.» L'Accademia riferisce, in soccorso del suo ottimo raziocinio, un decreto del Collateral Consiglio di Napoli de' 26 Marzo 1632, che ha questo titolo: «Sopra l'immunità cercata da alcune università, per li danni sofferti, a cagione dell'incendio dell'esalazione delle ceneri, pietre, ed arene del monte Vesuvio, e per le inondazioni d'acqua, così del detto monte, come dei monti d'Avella». Ecco, dunque, che l'inondazione fu prodotta dalle piogge, e non già dall'acqua uscita dal Vesuvio, poiché in questo caso non poteano in conto alcuno pervenire ai monti d'Avella, ossia agli Appennini siccome chiunque conosce quelle montagne, potrà facilmente comprendere.
Dal fin qui detto, intanto, conchiudo, ch'Ercolano costituisce oggi un monte d'alluvione, fatto da materie volcaniche e non volcaniche, nel quale giace seppellita questa famosa città; che questo sotterramento non è stato fatto in una sola volta, ma da reiterate, e consecutive alluvioni; che le materie, le quali cuoprono Ercolano sono assolutamente diverse da quelle, che seppellirono Pompei; che conseguentemente non una. pioggia di ceneri volcaniche, lanciate per aria dal Vesuvio sotterrò queste due città; che nessuna di queste due desolazioni accadde nel 79; e che, finalmente, neppure la distruzione delle due città seguì nell'istesso tempo, conforme la storia pretende, e conforme cadendo l' idea del sotterramento per opera delle ceneri del 79, non si può quest'unità di tempo altrimenti dimostrare.
Del resto il libro LXVl di Dione Cassio, donde sembra aver pres'origine la confutata favola di Pompei e d' Ercolano, non contiene li più mostruosi assurdi? Tito guarisce un cieco, applicandogli sputo agli occhi, sana la mano languida d'uno storpiato, calpestandogliela. Nel principio dell'eruzione si veggono giganti andar vagando per l'aria e per le terre vicine, e si sente uscir fuora dal Vesuvio un suono di trombe. Finalmente una pioggia di sassi immensi, e di ceneri lanciate in aria dal volcano cuopre l'aria, la terra, ed il mare: trafigge il bestiame: ammazza tutti li pesci e gli uccelli: e per colmo di fatalità cuopre interamente le due città di Pompei e d'Ercolano, nel mentre il popolo nel teatro sedea.
Or una sana logica non deve autorizzarci a pensare, che il sotterramento di queste due città, per opera della pioggia di cenere volcanica, debba avere una credenza assolutamente simile a quella dello sputo miracoloso di Tito? del calpestamento mirabile di questo Imperatore? de' giganti vagabondi? del suono delle trombe, rimbombanti nel Vesuvio? dell'aria, del mare, e della terra coperte dalle ceneri Vesuviane? e del bestiame, degli uccelli, e de' pesci tutti trafitti da questa cenere? Dione, dunque, ha scritto sogni, ed uno di questi, quello cioè della distruzione e sotterramento di Pompei e d'Ercolano dall' eruzione del 79, ha mirabilmente fatto fortuna, per essere diventato un punto strepitoso, classico, e favorito degli antiquarj, e degl'istorici per lo spazio di XVII secoli. Ma perché? Pel meraviglioso e strano della finzione.
Finisco, intanto, osservando, che gli amatori della geologia han da provare non poca soddisfazione, nel vedere smentito da questa scienza un errore invecchiato, e che avea già gittato una profondissima radice nello spirito di tutti gli uomini di lettere di tutte le nazioni.
Attendete la terza mia lettera, nella quale vi pennellerò un quadro ragionato di tutta la gran scena volcanica, e vi accorgerete, che non ostante tante e poi tante cose, scritte finora intorno ai volcani, la materia è nulladimeno ancora intatta, e che all' in fuora del curioso, del meraviglioso, e dello spaventevole volcanico, che fin dai tempi di Polibio di Megalopoli, di Lucrezio Caro, di Dione Sicolo, di Strabone, di Vitruvio, sino ai giorni nostri, ha occupato tanti scrittori, la spiega fisica de' fenomeni volcanici è restata sempre nelle loro mani un problema, che ritroverete risoluto nelle mie carte21.
Note
- ↑ Lib. I. Hist. Jam vero Italia novis cladibus, vel post longam saeculorum seriem repetitis, adflicta. Haustae aut obrutae urbes, Fecundissima Campaniae ora et urbs incendiis vastata.
- ↑ Art. 3. in Tit. Theatrum in urbe Pompeis cecidisse Neronis aevo, inde iterum excitatum, postea sub Tito cineribus Vesuvii oppletum, civibus Pompeianis insidentibus.
- ↑ Pompei ancienne ville d'Italie, au royaume de Naples, dans la Campanie, un peu plus loin de la mer que ce qu'on appelle aujourd'hui Civita. Cette ville fut engloutie par l'éruption du Vésuve, qui l'ensevelit avec Herculanum
- ↑ L'affreuse éruption du Vésuve, qui engloutit cette ville avec d'autres de la Campanie, est une époque bien célèbre dans l'histoire: on la date la première année de l'Empereur Titus, et la 79e de l'Ère Chrétienne
- ↑ Grand Dictionnaire géographique, historique et antique, Vol. 4., Article Pompei: Pompei ancienne ville d'Italie dans le Royaume de Naples, dans la Campanie, un peu plus loin de la mer de ce qu on appèle Civita. En creusant la terre pour planter les arbres on a trouvè quelque vestiges de cette ville, qui fui ensevelie par les cendres et les pierres qui sortirent du Vésuve au temps de l'Empereur Titus
- ↑
ex quadriga aenea splendidissima
cum suis jugalibus
comminuta ac dissipata
superstes ecce ego unus resto
nonnisi regia cura
repositis apte sexcentis
in quae vesuvius me absyrti instar
discerpserat membris - ↑ Praefat. in Thec. Calam. Unum seligam...
- ↑ Mart. pag. 381...
- ↑ Praeterea ineffabilis copia cineris ambas urbes Herculanum et Pompeios, populo illius sedente in teatro undique obruit.
- ↑ Plausus orbis literati...
- ↑ Briefe aus Walschland seit. 184...
- ↑ Dissertatio Isagogica ad Herculanensium voluminum explanationem cap. XI. §. XIV.pag. 71....
- ↑ Cap. XI. §. XI. pag. 71. Cave enim creda, quod aliquot sibi persuaserunt, hujusmodi materiem aquarum vi illuc devectam fuisse. Si enim aquis inmixta defluxisset, nec cum caloris gradum servasset, quo ligna comburerentur, nec, quod caput est omnia ex aequo obtexisset; sed ex liquidorum lege ima petiisset, non secus ac evenisse didicimus anno 1631, cum valles omnes et profunda quaeque vulcanicis ejactamentis aquarum impetu propulsis oppleta et complanata fuerunt
- ↑ Cap. II. pag. 9. Piaculum nobis profecto foret in tanta naturalis historiae luce...
- ↑ Cap. IV. §. IV. pag. 18. In primis igitur nosse oportet totum illum terrae tractum, quem in mappa expressimus, sub Tito Vesuviana adgestione aeque obrutum fuisse, non quidem liquescenti materie, quae torrentis instar fluit, et mox repente solidescit, sed ignito lapillorum, sive pumicum, cinerisque volumine, quod praeceps se se per montis declive devolvens ad mare usque tetendit, ut infra docebimus; quodque temporis tractu in tophaceum lapidem passim coaluit, quem hodie vulgo adpellant pappamonte. Hujusmodi enim materiem, qualis Herculaneo superimponi cernitur, undique in eo regionis tractu effoderis invenies
- ↑ Cap. XI. §. X. pag. 70. E quibus verbis manifesto eruimus igneum illum torrentem, a quo Herculanum et adjacens Retina periere, cinere et ignitis lapidibus constitisse, quorum leviores vento impulsi supervolarunt, et navibus inciderent, major vero pars spissitudine sua gravior, praeceps per decliva volveretur ad mare usque, adeout vadum subitum efformaret, et lilora navibus obstarent ob montis ruinam.
- ↑ Cap. XI. §. XI. pag. 70. Interim nemo Plinio inficias iverit, qui cinere, ambustis pumicibus, et fractis igne lapidibus subitum in mare vadum efformatum narrat. Haec enim ipsa Herculaneum operuisse, et in mare procurrisse deprehendimus.
- ↑ Cap. XI. §. XIII. pag. 71. Sed quando nec Plinium testem haberemus, nec longa nos experientia doctiores reddidisset, ipsamet effossionum inspectio satis nos de illius materiae inflammatione certos faceret [...] Satis igitur et ex veterum testimonio, et ex recentibus inspectionibus exploratum habemus, quo igne, quave materia adgesta Herculaneum pessum iverit, non quidem liquido ignis torrente, de quo aequalium nemo verba fecis, nec ullum invenimus vestigium, sed inflammato cinere, pumicibusque.
- ↑ Cap. XI. §. XV. pag. 71. At quo pacto, inquies, hujusmodi farrago e monte explosa minime liquescens tanta celeritate, et tam longe per solum non adeo declive procurrere potuit? Id enim, difficultatis caput videtur.
- ↑ Non defuerunt qui fictis, mentitisque terroribus vera pericula augerent.
- ↑ Questa terza lettera, qui sopra enunciata, ha dato luogo ad un mio opuscolo sulla genesi della crosta della terra , già pubblicato col seguente titolo : Qualche cosa intorno ai volcani in seguito di alcune idee geologiche all'occasione dell'eruzione del Vesuvio del 1. gennajo 1812 di C. Lippi, vol. in 8°, Napoli 1812, presso Domenico Sangiacomo.