Libro quinto - Capitolo 8
"Nella fruttifera Italia siede una picciola parte di quella la quale gli antichi, e non immerito, chiamarono Tuscia, nel mezzo della quale, quasi fra bellissimi piani, si leva un picciolo colle, il quale l’acque, vendicatrici della giusta ira di Giove, quando i peccati di Licaon meritarono di fare allagare il mondo, vi lasciò secondo l’oppinione di molti, la quale reputo vera, però che ad evidenzia di tale verità si mostra il picciolo poggio pieno di marine conchiglie, né ancora si posson sì poco né molto le ’nteriora di quello ricercare, che di quelle biancheggianti tutte non si truovino, similemente i fiumi a quello circunstanti, più veloci di corso che copiosi d’acque, le loro arene di queste medesime cochiglie dipingono. Sopra questo pasceva Eucomos la semplice mandria delle sue pecore, quando chiamato assai vicino a quelle onde, le quali i cavalli di Febo, passato il meridiano cerchio, con fretta disiderano per alleviare la loro ardente sete, e per riposo, fu: ov’egli andò, e quivi la mansueta greggia di Franconarcos, re del bianco paese, gli fu comandata, la quale egli con somma sollecitudine guardò. Avea il detto re di figliuole copioso numero, di bellezze ornate e di costumi splendide, le quali insieme un giorno, con caterva grandissima di compagne mandate dal loro padre, andarono a porgere odoriferi incensi a un santo tempio dedicato a Minerva, posto in uno antico bosco, avvegna che bello d’arbori, d’erbe e di fiori fosse. Esse, poi che il comandamento del padre ebbero ad essecuzione messo, essendo loro del giorno avanzato gran parte, a fare insieme festa per lo dilettevole bosco si dierono. A questo bosco era vicino Eucomos, sopra tutti i pastori ingegnosissimo, con la comandata greggia, il quale nuovamente con le propie mani avendo una sampogna fatta che più che altra dilettevole suono rendea agli uditori, ignorante della venuta delle figliuole del suo signore, essendo allora il sole più caldo che in alcun’altra ora del giorno, avea le sue pecore sotto l’ombra d’uno altissimo faggio raccolte, e, dritto appoggiato ad un mirteo bastone, questa sua nuova sampogna con gran diletto di se medesimo sonava, e niente di meno alla dolcezza di quello le pecore faceano mirabili giuochi. Questo suono udito dalle vaghe giovani, sanza niuna dimoranza corsero quivi, e poi che per alquanto spazio ebbero ricevuto diletto, e del suono e della veduta delle semplici pecore, una di loro chiamata Gannai, fra l’altre speziosissima, chiamò Eucomos, pregandolo che a loro col suo suono facesse festa, di ciò merito promettendogli. Fecelo. Piacque loro. Tornano più volte ad udirlo. Eucomos assottiglia il suo ingegno a più nobili suoni, e sforzasi di piacere: Gannai, più vaga del suono che alcuna dell’altre, lo ’ncalcia a sonare. Corre agli occhi di Eucomos la bellezza di lei con grazioso piacere: a questo s’aggiungono dolci pensieri. Egli in se medesimo loda molto la bellezza di colei, e estima beato colui cui gl’iddii faranno degno di possederla, e disidererebbe, se possibile gli paresse, d’essere egli. Con questi pensieri, Cupido, sollicitatore delle vagabunde menti, disceso di Parnaso, gli sopravenne, e per le rustiche medolle tacitamente mescolò i suoi veleni, aggiungendo al desiderio subita speranza. Eucomos si sforza di piacere, e per lo nuovo amore la sua arte gli spiace, ma pur discerne non convenevole a lasciarla, sanza saper come. I suoi suoni pieni di più dolcezza ciascun giorno diventano, sì come aumentati da sottigliezza di miglior maestro: l’ardenti fiamme d’amore lo stimolano; per che egli, nuova malizia pensata, propone di metterla in effetto, come Gannai verrà più ad ascoltarlo. Non passò il terzo giorno, che la fortuna, acconciatrice de’ mondani accidenti, conscia del futuro, sostenne che Gannai, sola delle sorelle, con picciola compagnia, né da lei temuta, semplicemente venne al luogo ove Eucomos usata era d’udire, e supplica, con prieghi di maggiore grazia degni, che egli suoni: è ubidita. Ma il pastore malizioso con la bocca suona e con gli occhi disidera, e col cuore cerca di mettere il suo diviso ad effetto: per che, poi ch’egli vide Gannai intentissima al suo suono, allora con lento passo mosse la sua gregge, e egli dietro ad esse, e con lenti passi pervenne in una ombrosa valle, ove Gannai il seguì: e quasi avanti dall’ombre della valle si vide coperta che essa conoscesse avere i suoi passi mossi, tanto la dolcezza del suono le avea l’anima presa. Quivi vedendola Eucomos, gli parve tempo di scoprirle il lungo disio, e, mutato il sonare in parole vere e dolci, il suo amore le scoperse, a quelle aggiungendo lusinghe e impromesse; e cominciolle a mostrare che questo molto saria nel cospetto degl’iddii grazioso, se ella il mettesse ad effetto, però che egli a lei saria come il suo padre alla sua madre era stato: e nondimeno le promise che mai il suo suono ad altrui orecchie che alle sue pervenire non faria, se non quanto ad essa piacesse, molte altre cose aggiungendo alle sue promesse. Gannai prima si maravigliò, e poi temette, dubitando forse costui non forza usasse, dove le dolci parole o’ prieghi non le fossero valuti: e udendo le ’ngannatrici lusinghe, semplice le credette, e solo per suo pegno prese la fede dal villano, che come alla sua madre il suo padre era stato, così a lei sarebbe, e i suoi piaceri nella profonda valle li consentì, dove due figliuoli di lei generò, de’ quali io fui l’uno, e chiamommi Idalogos. Ma non lungo tempo quivi, ricevuti noi, dimorò, che abandonata la semplice giovane e l’armento, ritornò ne’ suoi campi, e quivi appresso noi si tirò, e non guari lontano al suo natale sito, la promessa fede a Gannai, ad un’altra, Garemirta chiamata, ripromise e servò, di cui nuova prole dopo poco spazio riceveo. Io semplice e lascivo, come già dissi, le pedate dello ’ngannatore padre seguendo, volendo un giorno nella paternale casa entrare, due orsi ferocissimi mi vidi avanti con gli occhi ardenti, disiderosi della mia morte, de’ quali dubitando io volsi i passi miei, e da quella ora in avanti sempre l’entrare in quella dubitai. Ma acciò che io più vero dica, tanta fu la paura, che, abandonati i paternali campi, in questi boschi venni l’apparato uficio ad operare: e qui dimorando, con Calmeta pastore solennissimo, a cui quasi la maggior parte delle cose era manifesta, pervenni a più alto disio. Egli un giorno riposandosi col nostro pecuglio, con una sampogna sonando, cominciò a dire i nuovi mutamenti e gl’inoppinabili corsi della inargentata luna, e qual fosse la cagione del perdere e dell’acquistare chiarezza, e perché tal volta nel suo epiciclo tarda e tal veloce si dimostrasse; e con che ragione il centro del cerchio il suo corpo portante, allora due volte circuisce il differente, il suo centro movente intorno al piccolo cerchio, che l’equante una; e da che natura potenziata la virtù dell’uno pianeto all’altro portasse, e similmente i suoi dieci vizi, seguendo di Mercurio e di Venere con debito ordine i movimenti. E appresso con dolce nota la dorata casa del sole disegnò tutta, non tacendo de’ suoi eclissi e di quelli della luna le cagioni, mostrando come da lui ogni altra stella piglia luce, e così essere necessario, a volere i luoghi di quelle sapere, prima il suo conoscere, mostrando del rosseggiante Marte, del temperato Giove e del pigro Saturno una essere la regola a cercare i luoghi loro. E mostrato con sottile canto interamente le loro regioni, e quali in quelle a loro fossero più degne dimoranze e più care, passò cantando al nido di Leda, e in quello, da vero principio cominciando, prima del Montone friseo disse, e delle sue stelle, e quali gradi in quello i masculini e quali feminini, quali lucidi e quali tenebrosi, quali putei, quali azemena, e quali aumentanti la fortuna fossero, dimostrò: e similmente di qual pianeto fosse casa, e quale in esso s’essaltasse, e la triplicità, e’ termini di ciascuno in quello, e le tre facce; questo ancora mostrando del sacrificato Tauro da Alcide per la morte di Cacco, e de’ due fratelli di Clitemestra, nella fine de’ quali l’estivale solstizio comincia, e con quel medesimo ordine del retrogrado Cancro cantò, e del feroce Leone, e della onesta Vergine, nella fine della quale il coluro di Libra, equinozio faccente, disse incominciare; e di lei cantò come degli altri avea cantato, mostrando nella sua fine la combustione avvenuta per lo malvagio reggimento del carro della luce usato da Fetonte, spaventato dall’animale uscito della terra a ferire Orione: la cui prima faccia, come di Libra l’ultima, fu combusta, di lui seguendo, come di quella avea detto, e di Chirone Aschiro seguitando, nella fine di cui pose lo iemale solstizio; poi cantando della nutrice di Giove, e del suo Pincerna, e de’ Pesci, da Venere nel luogo ove dimorano situati, dicendo nella fine di quelli il coluro d’Ariete cominciarsi insieme con l’equinozio del detto segno: mostrando appresso così de’ pianeti, come de’ segni le complessioni e’ sessi e le potenze diterminate negli umani membri, e come alla loro signoria prima in sette e poi in dodici parti sia tutto il mondo diviso, così quello che sotto li sette climati s’abita, come l’altro, con questo dicendo la variazione delle loro elevazioni per li diversi orizonti, e che legge da loro sia servata nel ritondo anno, mutando i tempi. E con non meno maestrevole verso l’udii, dopo questo, cantare e dimostrare nel suo canto come Calisto e Cinosura più presso al polo artico dimorassero, faccendo cenìt alle maggiori notti, e assegnare la cagione per che le loro stelle in mare non possono né siano lasciate da Occeano come l’altre bagnare. E seguitò dove Boote e la corona d’Adriana e Alcide, vincitore dell’alte pruove, fossero locati; e sanza mutar nota cantò del Corvo, per la recente acqua mandato da Febo, il quale, per lo soperchio tempo messo ad aspettare i non maturi fichi, meritò per la bella bugia, egli con l’apportato Serpente e con lo caro Crate d’oro, essere in cielo dal mandatore locati e ornati di più stelle. E insieme con questi raccontò il luogo dove colei che la palma delibuta porta e dove il Portatore del serpente e Eridano e la paurosa Lepre co’ due Cani dimorassero, cantando poi del Nibbio, il quale le ’nteriora del fatato Toro, ucciso da Briareo, portò in cielo, ove egli fu da Giove locato e adornato di nove stelle, seguendo appresso d’Erisim, d’Istuc e d’Auriga i luoghi, e dell’Australe Corona, movendo con più soave suono come Orione, cantando sopra il portante Dalfino, fuggì il mortal pericolo, e poi per li meriti del l’uno e dell’altro meritassero il cielo, e qual parte d’esso; e dove il primo Cavallo e l’altro intero, e la Nave che prima solcò il non usato mare dimorassero, dimostrò; e segnò la gloria di Perseo, e ’l suo luogo, con la testa d’Algol e dell’Idra, crescente per li suoi danni, e il luogo del Vaso. E rimembromi che disse ancora del Centauro e del celestial Lupo le stelle, di dietro a’ quali del Pesce e dello Alare i luoghi dimostrò, con quelli di Cefeo, e del Triangolo, e di Ceto, e d’Andromaca, e del pagaseo Cavallo; passando dietro a questi dentro alle regioni degl’iddii con più sottile canto col suo suono. Queste cose ascoltai io con somma diligenza, e tanto dilettarono la rozza mente, ch’io mi diedi a voler conoscere quelle, e non come arabo, ma seguendo con istudio il dimostrante: per la qual cosa di divenire esperto meritai. E già abandonata la pastorale via, del tutto a seguitar Pallade mi disposi, le cui sottili vie ad imaginare, questo bosco mi prestò agevoli introducimenti, per la sua solitudine. Nel quale dimorando, m’avvidi lui essere alcuna stagione dell’anno, e massimamente quando Ariete in sé Delfico riceve, visitato da donne, le quali più volte, lente andando, io con lento passo le seguitai, di ciò agli occhi porgendo grazioso diletto, continuamente i dardi di Cupido fuggendo, temendo non forse, ferito per quelli, in detrimento di me aumentassi i giorni miei: e disposto a fuggire quelli, prima alla cetera d’Orfeo, poi ad essere arciere mi diedi, e prima con la paura del mio arco, del numero delle belle donne, le quali già per lunga usanza tutte conoscea, una bianca colomba levai, e fra’ giovani albuscelli seguii con le mie saette più tempo, vago delle sue piume. Né per non poterla avere punse però mai di malinconia il cuore, che più del suo valore per poco che d’altro si dilettava. Dallo studio di costei seguire, del luogo medesimo levata, mi tolse una nera merla, la quale movendo col becco rosso piacevoli modi di cantare, oltre modo disiderare mi si fece, non però in me voltando le mie saette; e più volte fu ch’io credetti quella ricogliere negli apparecchiati seni. E di questo intendimento un pappagallo mi tolse, delle mani uscito ad una donna della piacevole schiera. A seguire costui si dispose alquanto più l’animo, ch’alcuno degli altri uccelli, il quale andando le sue verdi piume ventilando, fra le frondi del suo colore agli occhi mi si tolse, né vidi come. Ma il discreto arciere Amore, che per sottili sentieri sottentrava nel guardingo animo, essendo rinnovato il dolce tempo, nel quale i prati, i campi e gli arbori partoriscono, andando le donne all’usato diletto, fece del piacevole coro di quelle levare una fagiana, alla quale io per le cime de’ più alti arbori con gli occhi andai di dietro; e la vaghezza delle variate penne prese tanto l’animo a più utili cose disposto, che, dimenticando quelle, a seguire questa tutto si dispose, non risparmiando né arte né saetta né ingegno per lei avere, sentendo il puro cuore già tutto degli amorosi veleni lungamente fuggiti contaminato. Allora conoscendomi preso in quel laccio dal quale molto con discrezione m’era guardato, mi rivoltai, e vidi il numero delle belle donne essere d’una scemato, la quale io avanti avendola tra esse veduta, più che alcuna dell’altre avea bella stimata. Allora conobbi lo ’nganno da Amore usato, il quale non avendomi potuto come gli altri pigliare, con sollecitudine d’altra forma mi prese, prima con diversi disii disponendo il cuore per farlo abile a quello; e rivolgendomi sospirando alla fagiana, la donna, che al numero delle altre falliva, di quella forma in essa mutandosi, agli occhi m’apparve, e così disse: "Che ti disponi a fuggire? Nulla persona più di me t’ama". Queste parole più paura d’inganno che speranza di futuro frutto mi porsero, e dubitai, però che ella era di bellezza oltre modo dell’altre splendidissima, e d’alta progenie avea origine tratta, e delle grazie di Giunone era copiosa: per le quali cose io dicea essere impossibile che me volesse altro che schernire, e se potuto avessi, volontieri mi sarei dallo ’ncominciato ritratto. Ma la nobiltà del mio cuore, tratta non dal pastore padre, ma dalla reale madre, mi porse ardire, e dissi: "Seguirolla, e proverò se vera sarà nell’effetto come nel parlare si mostra volonterosa". Entrato in questo proponimento e uscito dell’usato cammino, abandonate le imprese cose, cominciai a disiderare, sotto la nuova signoria, di sapere quanto l’ornate parole avessero forza di muovere i cuori umani: e seguendo la silvestre fagiana, con pietoso stile quelle lungamente usai, con molte altre cose utili e necessarie a terminare tali disii. E certo non sanza molto affanno lunga stagione la seguii, né alla fine campò, che nelle reti della mia sollecitudine non incappasse. Ond’io avendola presa, a’ focosi disii, piacendole, sodisfeci, e in lei ogni speranza fermai, per sommo tesoro ponendola nel mio cuore: e ella, abandonata la boschereccia salvatichezza, con diletto nel mio seno sovente si riposava. E s’io bene comprendea le note del suo canto, ella niuna cosa amava, secondo quelle, se non me, di che io vissi per alcuno spazio di tempo contento. Ma la non stante fede de’ feminili cuori, parandosi agli occhi di costei nuovo piacere, dimenticò com’io già le piacqui, e prese l’altro, e fuggita del mio misero grembo, nell’altrui si richiuse. Quanto sia il dolore di perdere subitamente una molto amata cosa, e massimamente quando col propio occhio in altra parte trasmutata si vede, il dirlo a voi sarebbe un perder parole, però che so che ’l sapete; ma non per tanto, con quello, ad ogni animo intollerabile, la speranza di racquistarla mi rimase, né per ciò risparmiai lagrime, né prieghi, né affanni. Ma la concreata nequizia a niuna delle dette cose prestò audienzia, né concedé occhio, per che io con affanno in tribulazione disperato rimasi, morte per mia consolazione cercando, la quale avere mai non potei, non essendo ancora il termine del dover finire venuto. Il quale io volendo, come Dido fece o Biblide, in me recare, e già levato in piè di questo prato, ov’io piangendo sedeva, mi sentii non potermi avanti mutare, anzi soprastare a me Venere, di me pietosa, vidi, e disiderante di dare alle mie pene sosta. I piedi, già stati presti, in radici, e ’l corpo in pedale, e le braccia in rami, e i capelli in frondi di questo albero trasmutò, con dura corteccia cignendomi tutto quanto. Né variò la condizione d’esso dalla mia natura, se ben si riguarda: egli verso le stelle più che altro vicino albero la sua cima distende, così come io già tutto all’alte cose inteso mi di stendea. Egli i suoi frutti di fuori fa durissimi, e dentro piacevoli e dolci a gustare. Oimè, che in questo la mia lunga durezza al contrastare agli amorosi dardi si dimostra, la quale volessero gl’iddii ch’io ancora avessi! Ma l’agute saette, passata la dura e rozza forma di me povero pastore, trovarono il cuore abile alle loro punte. Questo mio albero ancora in sé mostra le frondi verdi, e mostrerà mentre le triste radici riceveranno umore dalla circunstante terra, in che la mia speranza, molte volte ingannata, né ancora secca, né credo che mai secchi, si può comprendere. E se voi ben riguardate, egli ancora mostra del mio dolore gran parte: che esso, lagrimando, caccia fuori quello che dentro non può capere; e così come questo legno meglio arde ch’alcuno altro, così io, prima stato ad amare duro, poi più che alcun amante arsi, e per ogni piccolo sguardo sì mi raccendo come mai acceso fossi. Né il dilettevole odore ch’io porgo poté mai fare tanti di quello disiderosi, ch’io altro che a quella, per cui questa pena porto, mi dilettassi di piacere. Potete adunque per le mie parole e per me comprendere quanta poca fede le mondane cose servino agli speranti, e massimamente le femine, nelle quali niuno bene, niuna fermezza, né niuna ragione si truova. Esse, schiera sanza freno, secondo che la corrotta volontà le muta, così si muovono: per la qual cosa, se licito mi fosse, con voce piena d’ira verso gl’iddii crucciato mi volgerei, biasimandogli perché l’uomo, sopra tutte le loro creature nobile, accompagnarono di sì contraria cosa alla sua virtù" -.