Libro quinto - Capitolo 16
- O pietà, santissima passione de’ giusti cuori, tu negli umili e miserabili luoghi del misericordioso seno di Giove discendi e visiti i commossi petti dalle vedute e talora dalle udite cose. Tu fai i sostenitori e i veditori d’una medesima pena partecipi. Tu rechi agli occhi quelle lagrime le quali più che altre meritano, e hai potenza di muovere i duri cuori da’ loro proponimenti nefandi e di scacciare l’ardente ira del turbato fiele. Tu nimica delle miserie, se’ dell’offese graziosa perdonatrice. Per te la tagliente spada della giustizia sovente in misericordiosa opera volge il suo operare. E chi agl’iddii ci ricongiungerebbe, da’ quali le nostre operazioni inique ci allontanano, se tu nol facessi? Tu se’ degli assaliti dalla fortuna cagione di graziosa speranza e di consolazione apportatrice. Che più dirò di te? Tu piena di tanta umanità se’, che aperto si può dire che il cuore, ove tu non regni, più tosto ferino che umano sia. Tu e ’l figliuolo di Citerea sedete ad uno scanno. Egli sanza te faria le sue opere vane. Niuna ingiuria poriano gl’iddii porgere sì grave, che molto maggiore a chi del suo petto ti scaccia non si convenisse. Tu me, che dell’ultimo ponente sono, facesti dell’angosce d’Idalogo partefice, il quale dipinto e dentro afflitto di molte miserie, non poté questa pietra muovere con la tua forza dal duro proposito, amandola sopra tutte le cose e avendola amata: per che degnamente ora di sé può porgere manifesto essemplo a’ riguardanti. O amore, per la grazia del quale io i meritati doni posseggo, viva in etterno il tuo valore: il quale, io merito nel tuo cospetto alcuna grazia più che quella ch’io ricevuta posseggo, ti priego che di così fatti cuori il lontani, però che tu, benivolo co’ malivoli, degno luogo non puoi avere. Sia l’acerbità consumatrice de’ cuori che la nutricano, degni di perdere e la tua grazia e quella degli uomini -.