Libro quarto - Capitolo 130
"O nimica fortuna, qual peccato a sì vile fine mi conduce, avendomi in vita tenuta con più miserie ch’altra femina, io nol conosco. Io misera, composta da Cloto, fatale dea, nel ventre della mia madre fui cagione del crudel tagliamento fatto del mio padre, e per consequente, nella mia venuta nel tristo mondo, cacciai di vita la dolente madre. Impossibile mi fu di conoscere i miei genitori: e nata serva, mai la mia libertà non fu ridomandata. Ma gl’iniqui fati, apparecchiati di nuocermi, m’apparecchiavano peggio. Io, formata bella dalla natura, fui a me per la mia bellezza cagione d’etterni danni, dove l’altre ne sogliono graziosi meriti seguitare. Se io fossi di turpissima forma stata, lo indissolubile amore, tra me e Florio generato per iguale bellezza, ancora saria ad entrare ne’ nostri petti: e così io non sarei stata dal suo padre odiata e condannata alle prime fiamme. Io non sarei stata comperata prima da’ mercatanti e poi dall’amiraglio, ma ancora mi sarei nelle reali case, e così fuor di pericolo io e altri sarebbe. O bellezza, fiore caduco, maladetta sii tu in tutte quelle persone a cui nociva t’apparecchi d’essere! Tu principale cagione fosti dello ardente amore che costui mi porta; tu gli levasti la luce dello ’ntelletto, e la ragione, per la quale conoscere doveva me, femina vile, non essere da essere amata da lui; tu di migliaia di sospiri l’hai fatto albergatore: tu degli occhi suoi hai fatto fontane di dolenti lagrime; tu infiniti pericoli gli hai fatti parer leggieri, per venirti a possedere: e ora posseduta, a questo vilissimo fine l’hai condotto. Ahi, dolorosa me, perché insieme con la mia madre non morii quand’io nacqui? Quanti mali sarieno per un solo male spenti! Il siniscalco saria vivo, e ’l valoroso cavaliere Fileno non saria perduto in sconvenevole essilio; Florio ora a tal pericolo non saria, ma lieto ne’ suoi regni aspetteria la promessa corona, e i miseri padre e madre, che di lui debbono udire la vituperosa morte, viverieno lieti del loro figliuolo, del quale ancora più dolenti morranno. Oimè misera, a che morte son io apparecchiata! Al fuoco! Il fuoco caccerà de’ fermi petti l’amoroso fuoco. Quel fuoco che il mare, né la terra, né paura, né vergogna, né ancora gl’iddii hanno potuto spegnere, il fuoco lo spegnerà. Oggi di perfetti amanti torneremo nulla. Oggi sarà biasimata e tenuta vile la nostra gran costanza e fermezza d’animi. Oggi congiunte cercheranno le nostre anime gli sconosciuti regni. Oggi scalpiteranno i piedi e moveranno i venti le ceneri già credute serbarsi a splendidi vasi. Oggi la forza di Citerea fia annullata. O dolente giorno, di tanti mali riguardatore, perché nel mondo venisti? O Apollo, a cui niuna cosa si nasconde, perché la tua luce ne desti? Tu mostrandoti chiaro insieme ti mostri crudele, però che già per minori danni nascon desti i raggi tuoi a’ mondani. Oimè, Florio, a che vile partito mi ti veggio avanti! Oimè, come può l’anima sostenermi tanto in vita, pensando che nol siamo cagione di commovimento a tutta Alessandria, pensando che tante migliaia d’occhi solamente noi guardino, solamente di noi ragionino, solamente di noi pensino, pensando ancora con quanto vituperoso parlare sia da’ riguardanti ciascuna parte di noi, che ignudi a’ loro occhi dimoriamo, sia riguardata? Caro ne saria il campare, ma non il vivere in questo luogo. O sommi iddii, i cui pietosi occhi il mio peccato ha rivolti altrove, che ha meritato Florio, che questa morte sia da voi sofferto ch’egli sostenga? Egli ha amato, e amando ha fatto quello che voi già faceste. Costretto è ciascuno di seguire le leggi del suo signore. Egli fece quello che Amore gli comandò; ma io, malvagia femina, non servai il dovere all’amiraglio, sotto la cui signoria mi stringieno i fati. Io sola peccai, dunque io sola merito di morire; muoia dunque io, e Florio, che niente ha meritato, viva. O iddii, se in voi pietà alcuna è rimasa, purghisi l’ira vostra e quella dell’amiraglio sopra me. Se Florio campa, io contenta piglierò la morte. Cessi che per me, vile femina, muoia un figliuolo d’un sì alto re! Oimè, or che dimando io? Già è manifesto che i miseri indarno cercano grazia. Oimè, come tosto è in tristizia voltata la brieve allegrezza! Oh, quanto è picciolo stato lo spazio del nostro matrimonio, il quale noi pregavamo gl’iddii che ’l dovessero etternare! Certo per sì picciolo spazio sanza prieghi potevamo passare, adoperando il tempo ne’ baci che si doveano finire per ischernevole morte. Oimè, ch’io m’allegrava parendomi l’agurio delle parole dello iniquo re poter prendere con effetto buono! Ma i fati, che dolente principio m’hanno sempre in ogni mia cosa donato, non consentono ch’io senta lieto fine. O vecchio re Felice o reina, nell’effetto al tuo nome contraria, con che cuore ascolterete voi il misero accidente? Or saravvi possibile a vivere tanto, che ’l tristo apportatore di tale novella abbia compiuto di dire che ’l dilicato corpo di Florio sia stato dalle fiamme consumato? Io non so, ma forte mi pare a pensare che sì. Io son certa che se voi vivete, mentre vi basterà la lingua alle parole, mai in altro, che in maledizione della mia anima non moverete quella; e se morite, fra le nere ombre sempre come nemica mi seguirete, e non sanza ragione. O iddii, consentite, se i miei prieghi niuno merito acquistano nella vostra presenza, che Florio campi, se possibile è, e io, degna di morire, muoia. La sua vita, ancora molto utile al mondo, non si prolungherà sanza vostro grande onore: la mia, che a niuna cosa può valere, perisca, e sostenga il peso del vostro cruccio. Siami conceduta questa grazia, in guiderdone della quale il mio corpo da ora v’offero per sacrificio".