Fermo e Lucia/Tomo Primo/Cap III

Tomo Primo - Capitolo Terzo
Il causidico

../Cap II ../Cap IV IncludiIntestazione 9 novembre 2008 75% Romanzi

Tomo Primo - Cap II Tomo Primo - Cap IV

I tre rimasti a consiglio erano agitati, turbati per la stessa causa ma in diverso modo. Fermo si trovava nello stato di un uomo il quale ad un tratto dalla prosperità e dalla gioja è balzato in una sventura della quale non conosce che una parte; è ansioso di sapere il di più, vuole essere informato di tutto, aspetta, sospira nuove rivelazioni, e non ne può aspettare che non accrescano il suo rammarico, che non peggiorino la sua condizione. Al dolore, al rancore, alla rabbia, si aggiungeva ora il martello della gelosia. Egli aveva sempre avuta piena fede in Lucia, ma un mistero di questo genere, un silenzio in questa materia lo tormentava, egli era come spaventato di conoscere che Lucia aveva una cosa sul cuore, e ch’egli non ne aveva saputo nulla. Agnese, la madre di Lucia era pure stupita, scandalizzata di essere all’oscuro d’una cosa simile: ella che sapeva tante cose che non la toccavano per nulla, ignorare una cosa tanto importante della sua Lucia! Agnese le avrebbe fatto un rabbuffo terribile, se in questo caso il bisogno d’ascoltare non avesse vinto d’assai quello di parlare. Lucia... ma dalle sue parole il lettore intenderà lo stato del suo animo. «Parla! parla! Parlate, parlate!» gridavano in una volta la madre e Fermo. Lucia atterrita, costernata, vergognosa, singhiozzando, arrossando, sclamò: «Santissima Vergine! Chi avrebbe creduto che le cose sarebbero giunte a questo segno! Quel senza timore di Dio di Don Rodrigo veniva spesso alla filanda a vederci trarre la seta. Andava da un fornello all’altro facendo a questa e a quella mille vezzi l’uno peggio dell’altro: a chi ne diceva una trista a chi una peggio: e si pigliava tante libertà: chi fuggiva, chi gridava; e purtroppo v’era chi lasciava fare! Se ci lamentavamo al padrone, egli diceva: "badate a fare il fatto vostro, non gli date ansa, sono scherzi", e borbottava poi: "gli è un cavaliere; gli è un uomo che può fare del male; è un uomo che sa mostrare il viso". Quel tristo veniva talvolta con alcuni suoi amici, gente come lui. Un giorno mi trovò mentre io usciva e mi volle tirar in disparte, e si prese con me più libertà: io gli sfuggii, ed egli mi disse in collera: "ci vedremo": i suoi amici ridevano di lui, ed egli era ancor più arrabbiato. Allora io pensai di non andar più alla filanda, feci un po’ di baruffa colla Marcellina, per avere un pretesto, e vi ricorderete mamma ch’io vi dissi che non ci andrei. Ma la filanda era sul finire per grazia di Dio, e per quei pochi giorni io stetti sempre in mezzo alle altre di modo ch’egli non mi potè cogliere. Ma la persecuzione non finì: colui, mi aspettava quando io andava al mercato, e vi ricorderete mamma ch’io vi dissi che aveva paura d’andar sola e non ci andai più: mi aspettava quand’io andava a lavare, ad ogni passo: io non dissi nulla, forse ho fatto male. Ma pregai tanto Fermo che affrettasse le nozze: pensava che quando sarei sua moglie colui non ardirebbe più tormentarmi; ed ora...» Qui le parole della povera Lucia furono tronche da un violento scoppio di pianto. «Birbone! assassino! dannato!» sclamava Fermo, correndo su e giù per la stanza, e mettendo di tratto in tratto la mano sul manico del suo coltello. «Ma perché non parlarne a tua madre?» disse Agnese: «se io l’avessi saputo prima...» Lucia non rispose perché la risposta che si sentiva in mente non era da dirsi a sua madre: tutto il vicinato ne sarebbe stato informato. I singulti di Lucia la dispensavano dall’obbligo di parlare. «Non ne hai tu fatto parola con nessuno?» ridimandò Agnese. «Sì mamma, l’ho detto al Padre Galdino, in confessione». «Hai fatto bene; ma dovevi dirlo anche a tua madre. E che ti ha detto il Padre Galdino?» «Mi ha detto che cercassi di evitare colui; che non vedendomi non si curerebbe più di me; che affrettassi le nozze; e che se durava la persecuzione egli ci penserebbe». «Oh che imbroglio! che imbroglio!» riprese la madre. Fermo si arrestò tutt’ad un tratto; guardò Lucia con un atto di tenerezza accorata e rabbiosa, e disse: «Questa è l’ultima che fa quel birbante». «Ah no Fermo per amor del cielo!», gridò Lucia, gettandogli quasi le braccia al collo: «No no per amor del cielo, Dio c’è anche pei poveri! Come volete ch’egli ci ajuti se facciamo del male?» «No, no per amor del cielo», ripeteva Agnese. «Fermo!» disse Lucia, «voi avete un mestiere, ed io so lavorare, andiamo lontano tanto che costui non senta più parlare di noi». «Ah! Lucia! e poi? non siamo ancora marito e moglie: il curato vorrà farci la fede di stato libero? Non saremo pigliati come vagabondi? dove andarci a porre?» Lucia ricadde nel pianto. «Sentite!» disse Agnese: «sentitemi che son vecchia». Era questa una confessione che la buona Agnese faceva di rado, in caso di somma necessità, e quando si trattava di dar fede alle sue parole. «Io ho veduto un poco il mondo: non bisogna spaventarsi troppo: il diavolo non è mai brutto come si dipinge; e a noi povera gente le cose pajono talvolta imbrogliate imbrogliate perché non abbiamo la pratica per uscirne. Ma, sapete, c’è della gente che si ride degli imbrogli. Fate a modo mio Fermo. Pigliate quei quattro capponi, poveretti! che doveva sgozzare io questa mattina pel banchetto: teneteli bene stretti, per le gambe, andate a Lecco: sapete dove abita il dottor Pettola?» «Lo so benissimo». «Bene andate da lui, presentategli i capponi: perché vedete quando si vede che uno può regalare gli si dà retta. Contategli tutto il fatto, e domandategli parere. Eh ne ho visto io della gente che non sapevano dove dar del capo, che andando a consultarsi con lui non trovavano la strada, e dopo d’avergli parlato tornavano a casa vispi come un timollo che saltellando nella barca per disperazione cade nell’acqua, e si trova in casa sua. Fate così Fermo». Nelle situazioni molto imbrogliate il parere che piace più è quello di pigliar tempo per avere un altro parere definitivo: ogni consiglio definitivo e determinato presenta ostacoli, difficoltà, nuovi imbrogli: ma questo di consigliarsi di nuovo e meglio è semplice, non nuoce, e nello stesso tempo dà una lusinga indeterminata che per questo mezzo si troverà una uscita.

Fermo adunque abbracciò molto volentieri il parere. Lucia vi aggiunse la sua approvazione. Agnese superba di averlo dato pigliò i capponi, riunì le loro otto gambe come se facesse un mazzo di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e consegnò la preda in mano a Fermo, che date e ricevute parole di speranza uscì per una porticella dell’orto, onde non esser veduto dai ragazzi che gli correrebbero dietro gridando: lo sposo, lo sposo. Così attraversando i campi, o come dicono colà, i luoghi andò a prendere il viottolo che guida a Lecco, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al Dottor Pettola. Lascio poi pensare al lettore come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie così legate, e tenute per le zampe nella mano d’un uomo agitato da tante passioni, e che di tempo in tempo stendendo con forza il braccio in un momento d’ira o di risoluzione, o di disperazione, dava scosse terribili a quei prigionieri e faceva balzare le loro quattro teste spenzolate le quali si andavano beccando l’una l’altra, come succede troppo sovente fra compagni di sventura. In poco d’ora Fermo giunse a Lecco, e s’avviò alla casa del dottore. All’entrare si sentì sorpreso da quella timidità che i poverelli illetterati provano in vicinanza d’un signore e d’un dottore, dimenticò tutti i discorsi che aveva preparati, ma diede un’occhiata ai capponi, e si rincorò pensando che non veniva colle mani vuote. Entrato in cucina chiese alla fantesca del signor dottore: la fantesca vide le bestie, e come avvezza a simili doni vi pose le mani sopra, mentre Fermo le andava ritirando, perché voleva che il dottore vedesse e sapesse ch’egli portava qualche cosa. Il dottore giunse in fatti mentre la fantesca diceva: «date qui, e passate nello studio». Fermo fece un grande inchino al dottore, che lo accolse umanamente con un: «venite figliuolo», e lo fece entrare con sè nello studio. Era questo una stanza con un grande scaffale di libri vecchi e polverosi, un tavolo gremito di allegazioni, di suppliche, di papiri, e intorno tre o quattro seggiole, e da un lato un seggiolone a bracciuoli con un appoggio quadrato coperto di vacchetta inchiodatavi con grosse borchie, alcune delle quali cadute da gran tempo lasciavano in libertà gli angoli della copertura, che s’incartocciava qua e là. Il dottore era in veste da camera, cioè coperto d’una lurida toga che gli aveva servito molti anni addietro per perorare nei giorni di apparato, quando andava a Milano per qualche gran causa. Chiuse la porta e rincorò Fermo con queste parole: «Figliuolo, ditemi il vostro caso».

«Vorrei dirle una parola in confidenza», rispose Fermo. «Son qui per questo», rispose il dottore: «parlate»; e si pose a sedere sul seggiolone. Fermo stette ritto dinnanzi al tavolo con le mani nel suo cappello.

«Vorrei sapere da lei che ha studiato...» «Già», interruppe il dottore, «già voi altri siete tutti così; invece di contare il fatto spiccio a chi può ajutarvi, cominciate a fare interrogazioni come se doveste esaminare il causidico. Ma via, qualche minuto di più non fa niente: parlate a modo vostro».

«Ella ha da scusarmi signor dottore: noi altri poveri non abbiamo studio. Vorrei dunque sapere se a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c’è penale».

— Ho capito (disse fra sè il dottore, che in verità non aveva capito) ho capito, — e pensò subito al modo di cavare partito da quello ch’egli aveva immaginato. Si fece dunque serio, ma in guisa di chi teme per uno che vuol soccorrere: strinse fortemente le labbra facendone uscire un suono inarticolato che accennava il sentimento che espressero più chiaramente le sue prime parole: «Caso serio, figliuolo, caso contemplato. Avete fatto bene a venire da me. Non è mica vedete una di quelle cose che si decidono con leggi vecchie, scritte in latino, nelle quali ci è sempre una decisione per una parte e per l’altra. È un caso chiaro, deciso in una grida, confermata da una grida, tenete, dell’anno scorso, dell’attuale signor governatore del ducato di Milano. Vedete, figliuolo», e qui si alzò, pose le mani su un fascio di gride, scartabellò un momento, e subito ne prese una, e segnando col dito, «sapete leggere?», dimandò. «Qualche cosa, signor dottore». «Orbene ecco il vostro caso».

«...quel prete non faccia quel che è obbligato per l’officio suo: ecco ci siamo: non è questo il caso vostro». «Pare che abbiano fatta la grida per me». «Vedete figliuolo? ora mò sentite la penale...

Mentre il dottore leggeva ad alta voce, pronunziando distintamente le parole che risguardavano il caso, per incutere a Fermo quello spavento salutare di cui il dottore aveva bisogno, Fermo compitando lentamente, seguiva coll’occhio la lettura cercando di cavare il costrutto chiaro, e di vedere proprio quelle benedette parole che gli parevano dover essere il suo ajuto. Il dottore alzò gli occhi intanto, squadrò Fermo, e gli disse: «Ah! ah! figliuolo vi siete fatto radere il ciuffo: avete avuto prudenza: ma volendo venire da me non faceva bisogno: si vede che non mi conoscete: non sapete quello ch’io sia in caso di fare: vi avrei cavato anche di questo». Per aver la ragione di questa uscita del dottore, bisogna che l’ignaro apprenda e il dotto si ricordi che a quei tempi coloro che facevano il mestiere di bravi, e che vivevano di soprusi fatti spontaneamente o per mandato, usavano molti ingegni per travisarsi, e non esser riconosciuti, e togliere così una prova materiale del delitto. L’uso più comune era quello di portare un lungo ciuffo che ordinariamente lasciavano cadere dietro la testa, e si gettavano poi sul volto come una visiera al momento di affrontare qualcheduno, di far qualche impresa che era meglio di poter poi negare. Per togliere questo abuso si erano fatte gride sopra gride, le quali proibivano che si portassero capelli lunghi, sotto pena... e discendendo al particolare ordinavano al barbiere come dovesse tosare uno, intimando a chi lasciasse capelli più lunghi dell’ordinario la pena di 100 scudi, o tre tratti di corda colla solita estensione di pena maggiore all’arbitrio di S.E. Quale effetto producessero queste gride è manifesto dalle diverse date di quelle.

La grida si ristampava di tempo in tempo coll’avvertenza che ciò era necessario perché fino allora non aveva giovato a nulla: e come nella medicina, si cresceva la dose. Il ciuffo era dunque come un’insegna di bravo, e di scapestrato. Da questa foggia è nato un termine metaforico tuttavia in uso nel dialetto milanese: e non vi sarà forse alcuno, dei miei lettori milanesi che non si ricordi di aver sentito, nella sua adolescenza, alcuno de’ suoi parenti, o il maestro del collegio, o il servo che lo conduceva a scuola, o la fante dare di lui questo giudizio: gli è un ciuffo: gli è un ciuffetto. Prego il lettore di perdonarmi questa digressione e come necessaria, e in grazia della condizione che gli ho data, e ripiglio il dialogo.

«In verità, da povero figliuolo», rispose Fermo, «ch’io non ho mai portato ciuffo in vita mia».

«Non facciamo niente» riprese il dottore, scotendo il capo, con un sorriso tra maligno e impaziente: «se non avete fede in me, non facciamo niente. Chi dice bugia al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. Io non ho tempo da perdere. Se volete ch’io v’ajuti, voi dovete contarmi tutto dall’a alla zeta, sinceramente, come al confessore. Dovete dirmi chi vi ha dato il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; ed allora io andrò da lui a fare un atto di dovere: non gli dirò mica, vedete, ch’io sappia da voi che vi ha mandato egli: fidatevi: gli dirò che vengo ad implorare la sua protezione per un povero giovane calunniato. E tutto si aggiusterà a vostra soddisfazione: capite bene che salvando sè, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro, ho cavato altri da peggio imbrogli, e pur ché non abbiate offesa persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio, con un po’ di spesa. Basta che mi sappiate dire chi è l’avversario, che forse forse troveremo modo di appiccicargli qualche criminale, e forse forse lo metteremo in panni più stretti dei vostri, e lo faremo venire a domandar grazia. Ma come vi ho detto, se non avete un uomo, un uomo, il caso è serio, la grida canta chiaro, e se la cosa si deve decidere fra la giustizia e voi così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo chiaro: le scappate bisogna pagarle: se volete dormir quietamente sopra questa faccenda; denari, e sincerità, parlare col cuore in mano, e poi obbedire, fare quello che vi sarà suggerito».

Mentre il dottore faceva questa cicalata, Fermo lo stava ascoltando coll’attenzione d’un uomo che sognando, s’immagina di cercar qualche cosa, ed ora gli pare d’averla trovata, di mettergli le mani sopra, e poi la vede scomparire, e ne va di nuovo in cerca: tanto era lontano dal sospettare l’equivoco preso dal dottore. Quando questi ebbe terminato, Fermo ebbe inteso: e tra un poco di collera, però quella collera che un buon uomo di contado può avere contra un signore che sa, e tra un certo orgoglio di farsi vedere libero da quei timori che il dottore supponeva, rispose: «Oh signor dottore: la cosa non è così: io non ho minacciato nessuno: io non faccio di queste azioni, e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che io non ho mai avuto che fare con la giustizia.La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per informarmi come io possa farmi dar ragione; e son ben contento d’aver veduta quella grida». «Diavolo!» disse il dottore, «che confusione mi avete fatta? tant’è siete tutti così, possibile che non sappiate farvi intendere?» «Ma signor dottore, mi scusi io non le ho contata la cosa, ora le conterò. Deve sapere ch’io doveva sposare oggi», e qui il povero Fermo si commosse, «doveva sposare oggi Lucia Zarella, una giovane che non ha mai dato da dire a nessuno, e avevamo fatto tutto da galantuomini, e il curato che doveva sposarci oggi non volle perché... perché gli fu minacciata la vita. Quel prepotente di Don Rodrigo...»

Il dottore si fece serio davvero, e dando sulla voce a Fermo: «Eh!» gridò, «che mi venite a contare di queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri che non sapete misurare le parole, e non venite a farli con un galantuomo che sa che cosa vuol dire parlare. Andate, andate; non sapete quel che vi diciate: io non m’impaccio con ragazzi, non voglio sentire discorsi in aria». «Lo giuro!» «Andate vi dico, siete un ragazzo, pare che parliate ad un uomo che non abbia mai sentito giurare. Andate, io non c’entro: imparate a parlare: non si viene così a sorprendere un galantuomo». Con queste frasi spezzate, il dottore spingeva verso la porta Fermo, il quale andava ripetendo: «ma senta, ma senta». Il dottore aperta la porta chiamò Felicita, e le disse: «restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente». Felicita dacché era ai servigi del dottore non aveva mai eseguito un ordine simile; ma era dato con una tale risoluzione, ch’ella non esitò ad obbedire: prese le quattro povere bestie, e le diede a Fermo, guardandolo con un’aria di compassione spregiante che pareva volesse dire: costui deve stare in cattivi panni, ne ha fatta una grossa. Fermo voleva far cerimonie, ma il dottore fu inespugnabile; e Fermo attonito, e trasognato, e stizzito dovette ripigliarsi le vittime rifiutate, e partirsi di là senza poter riposare il suo pensiero in altra determinazione, che di tornarsene a casa sua, a riferire alle donne il tristo risultato della sua consulta.

Lucia al suo partire era rimasta nel pianto a cangiare la sua veste nuziale coll’umile abito quotidiano, a sentire le consolazioni e i pareri della madre, e a rispondere singhiozzando alle minute interrogazioni ch’ella le andava facendo, mischiandole di qualche rimprovero sul suo aver sempre taciuto. Fra questi tristi discorsi la madre e la figlia si erano sedute insieme presso il suo arcolajo a dipanar seta. Ma la povera sposa andava pensando a quello che si potesse fare; il primo ripiego che viene in mente ai poverelli è quello di aver parere ed ajuto, e Lucia si sovvenne del Padre Galdino. Andare al convento, ch’era distante forse due miglia; ella non ardiva, in questo frangente, e aveva ragione, pensava dunque di cercare qualche garzoncello disinvolto e fidato, per cui potesse fare avvertire il buon Capuccino. Mentre ella stava per informare la madre del suo disegno s’ode picchiare all’uscio, e nello stesso momento un sommesso ma distinto «Deo gratias...» Lucia, immaginandosi chi poteva essere, corse ad aprire; e allora, fatto un inchino, entrò infatti un laico cercatore cappuccino colla sua bisaccia pendente alla spalla sinistra, e l’imboccatura di essa attorcigliata e stretta nelle due mani sul petto. «Frà Canziano» dissero le due donne. «Il Signore sia con voi», disse il frate: «vengo per la cerca delle noci; e come il raccolto è stato buono voi ne darete a Dio la sua parte, affinché ve ne dia un altro eguale o migliore l’anno venturo; se però i nostri peccati non attireranno qualche castigo». «Lucia, vanne a pigliare le noci pei padri» disse Agnese. Lucia si alzò, e si avviò all’altra stanza, ma prima di entrarvi ristette dietro le spalle di frà Canziano che rimaneva ritto nella medesima positura, e ponendosi l’indice sulla bocca diede alla madre una occhiata che domandava il segreto con tenerezza, con supplicazione, con fierezza, e anche con una certa autorità. Partita Lucia, frà Canziano disse ad Agnese: «E questo matrimonio? si doveva pure fare oggi: ho veduto nel paese come una confusione, come qualche cosa che indichi una novità; che c’è?»

«Il Signor curato è ammalato, e bisogna differire», rispose in fretta Agnese, e per cangiare di discorso richiese come andasse la cerca.

«Poco bene, buona donna, poco bene. Vedete tutto quello che ho. Son tutte qui», e così dicendo si tolse la bisaccia dalle spalle e la fece saltare agli occhi di Agnese; «son tutte qui, e per raccogliere questo ho mendicato in dieci case». «Mah! l’anno è scarso, fra Canziano, e i poverelli mancano di pane, quando il pane è caro tutto si misura più per sottile».

«Perché l’anno è scarso, buona donna? pei nostri peccati; e per far tornare l’abbondanza che rimedio c’è? l’elemosina. Eh! quando io era cercatore in Romagna, la limosina delle noci era tanto abbondante, che bisognò che un benefattore ci facesse la carità d’un asino, perché il cercatore non poteva durare. E si faceva tant’olio al convento che i poveri venivano a prendere ogni volta che ne avevano bisogno. Ma in quel paese avevano più carità perché avevano avuta una grande scuola. Sapete di quel miracolo?» «No in verità: contate contate». «Oh! dovete dunque sapere che molti anni prima ch’io andassi in quel convento v’era stato un padre che era un santo; il padre Agapito. Un giorno d’inverno ch’egli passava per un viottolo in un campo d’un nostro benefattore, uomo dabbene anch’egli, dunque il padre Agapito vide il benefattore vicino ad un gran noce, e quattro contadini colle scuri al piede per gettarlo a terra; e avevano già fatta una fossa intorno per iscoprire le radici. — Che fate a quella povera pianta? disse il nostro religioso. — Eh padre sono anni che non fa più frutto ed io penso di farne legna. — Non fate non fate, disse il padre; sappiate che quest’anno la porterà più noci che foglie. — Il benefattore che sapeva con chi parlava, ordinò subito ai lavoranti che gettassero di nuovo la terra sulle radici, e chiamato di nuovo il padre che continuava la sua strada, — Padre Agapito, gli disse, la metà del raccolto sarà pel convento. — Si sparse la voce della profezia, e tutti correvano a guardare il noce: infatti a primavera, fiori a furia, e poi noci noci a furia.

Ma, Dio non volle che il benefattore avesse la consolazione di abbachiare quelle noci, e lo chiamò a sè prima del raccolto. La consolazione toccò al figliuolo, ma fu corta perché era un poco di buono, come sentirete. Ora dunque, al raccolto il cercatore andò per riscuotere la metà che era dovuta al convento; e colui si fece nuovo affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai inteso dire che i frati sapessero far noci. Il cercatore fece la sua denunzia al convento. Sapete ora che cosa avvenne? Un giorno dunque quello scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e così gozzovigliando, egli raccontava la storia del noce, e rideva dei frati. Quei giovinastri ebbero voglia di andare a vedere quello sterminato mucchio di noci, ed egli li condusse al granajo. Ma, sentite mò ora; apre la porta, va verso il cantuccio dove era il gran mucchio, e mentre dice: — guardate —, guarda egli stesso e vede, che cosa? un bel mucchio di foglie secche di noce. Questo fu un castigo, e benché il fatto sia di molti anni addietro, ad ogni raccolto di noci se ne parla tuttavia in quel paese».

Qui ricomparve Lucia col grembiule tanto carico di noci che lo poteva reggere a fatica, tenendo i due capi sospesi colle braccia tese e allungate. Mentre fra Canziano si tolse la bisaccia dalle spalle, la pose in terra e aprì la bocca di quella per introdurvi l’abbondante elemosina, la madre fece un volto attonito e severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede un’occhiata che voleva dire: mi giustificherò. Fra Canziano proruppe in elogj, in augurj, in promesse, in ringraziamenti; e rimessa la bisaccia si avviò; ma Lucia, fermatolo: «vorrei un servizio da voi», disse. «Vorrei che diceste al Padre Galdino che ho bisogno di parlargli di somma premura, e che mi faccia la carità di venire da noi poverette, subito subito, perché io non posso venire alla Chiesa».

«Non volete altro? non passerà un’ora che lo dirò al Padre Galdino».

«Non mi fallate».

«State tranquilla»; e così detto partì un po’ più curvo e più contento che non quando era arrivato.

Il Padre Galdino era uomo di molta autorità fra i suoi, e in tutto il contorno; eppure fra Canziano non fece nessuna osservazione a questa specie di ordine che gli si mandava da una donnicciuola di venire da lei; la commissione non gli parve strana niente più che se gli si fosse commesso di avvertire il Padre Galdino che il Vicario di provvisione e i sessanta del consiglio generale della Città di Milano lo richiedevano per mandarlo ambasciatore a Don Filippo Quarto Re di Castiglia, di Leone etc. Non vi era nulla di troppo basso né di troppo elevato per un Cappuccino: servire gl’infimi, ed esser servito dai potenti; entrare nei palazzi e nei tugurii colla stessa aria mista di umiltà, e di padronanza; essere nella stessa casa un soggetto di passatempo, e un personaggio senza il quale non si decideva nulla, cercare la limosina da per tutto, e farla a tutti quelli che la chiedevano al convento, a tutto era avvezzo un Cappuccino, faceva tutto a un dipresso colla stessa naturalezza, e non si stupiva di nulla. Uscendo dal suo convento per qualche affare, non era impossibile che prima di tornarsene si abbattesse o in un principe che gli baciasse umilmente la punta del cordone, o in una mano di ragazzacci che fingendo di essere alle mani fra di loro gli bruttassero la barba di fango. La parola frate in quei tempi era proferita colla più gran venerazione, e col più profondo disprezzo; era un elogio e un’ingiuria: i cappuccini forse più di tutti gli altri riunivano questi due estremi perché senza ricchezze, facendo più aperta professione di umiliazioni, si esponevano più facilmente al vilipendio, e alla venerazione che possono venire da questa condotta. La considerazione poi data generalmente al loro ordine li poneva nel caso sovente di giovare e di nuocere ai privati, di essere grandi ajuti e grandi ostacoli, e quindi anche la varietà del sentimento che si aveva per essi, e delle opinioni sul conto loro. Varj pure e moltiformi erano e dovevano essere i motivi che conducevano gli uomini ad arruolarsi in un esercito così fatto. Uomini compresi della eccellenza di quello stato che allora era esaltata universalmente, altri per acquistare una considerazione alla quale non sarebbero mai giunti vivendo, come allora si diceva, nel secolo, altri per fuggire una persecuzione, per cavarsi da un impiccio, altri dopo una grande sventura, disgustati del mondo, talvolta principi o fastiditi, o atterriti del loro potere; molti perché di quelli che entrano in una carriera per la sola ragione che la vedono aperta; molti per un sentimento vero di amor di Dio e degli uomini, per l’intenzione di essere virtuosi ed utili; e questa loro intenzione (perché quando si è persuasi d’una verità bisogna dirla; l’adulazione ad una opinione predominante ha tutti i caratteri indegni di quella che si usa verso i potenti) questa loro intenzione non era una pia illusione, l’errore d’un buon cuore e d’una mente leggiera, come potrebbe parere, e come pare talvolta a chi non sa o non considera le circostanze e le idee di quei tempi: era una intenzione ragionata, formata da una osservazione delle cose reali; e in fatti con queste intenzioni molti abbracciando quello stato facevano del bene tutta la loro vita; anzi molti che sarebbero stati uomini pericolosi, che avrebbero accresciuti i mali della società, diventavano utili con quell’abito indosso. Ho fatta tutta questa tiritèra perché nessuno trovi inverisimile che fra Canziano, senza fare alcuna obbiezione, senza stupirsi, si sia incaricato di dire, nullameno che al Padre Guardiano, che s’incomodasse a portarsi da una donnicciuola che aveva bisogno di parlargli.

Partito Fra’ Canziano: «tutte quelle noci!» gridò Agnese; «in questi anni di miseria! e per noi che rimarrà? sei fuor di te per la disgrazia». «Mamma», rispose Lucia, «perdonatemi; ma voi vedete quanto importi di parlar subito al Padre Galdino che ci può dar parere e soccorso. Se io avessi fatta una elemosina come gli altri, Fra Canziano avrebbe dovuto girare Dio sa quanto, prima di aver la bisaccia piena, e di tornare al convento; e colle ciarle che avrebbe fatte e sentite, forse avrebbe dimenticata la mia commissione...»

«Via, hai pensato bene, e poi è tutta carità; purché faccia buon frutto».

Mentre le donne stavano in questi ragionamenti, Fermo, si avviava verso il villaggio ripassando nella sua mente gli strani discorsi del dottore, passando d’una passione nell’altra, proponendo ora un disegno or l’altro, e non potendo riposarsi in alcuno. — Tutti così: siete fatti tutti così: andava dicendo fra sè: oggi me lo sento dire per la seconda volta: siam fatti così: come siamo dunque fatti noi poverelli? che cosa pretendo io da costoro? andava forse a domandare la carità? Pretendo la giustizia, per bacco, (ommettendo molte altre più che esclamazioni, perché Fermo non aveva mai tanto sagrato in tutta la sua vita, come fece in quel giorno). Pretendo alla fine delle fini di sposare una donna secondo la legge di Dio. Birbi tutti! tutti ad un modo! tutti d’accordo per mandare gli stracci all’aria! Ma, se mi riducono alla disperazione... — Con questi pensieri giunse alla casetta delle due donne ed entrando colla faccia adirata, e vergognosa nello stesso tempo per la trista riuscita, gittò i capponi sur un tavolo; e fu questa l’ultima trista vicenda delle povere bestie per quel giorno.

«Bel parere che mi avete dato» diss’egli ad Agnese, «mi avete mandato da un buon galantuomo, da uno che ajuta veramente i poverelli». E qui raccontò il suo abboccamento col dottore. Agnese voleva replicare, e sostenere che il parere era buono, e che se non aveva avuto buon effetto la colpa doveva essere di Fermo, ma Lucia, interruppe, narrando a Fermo ch’ella sperava di aver trovato un miglior consigliero. Il nome del Padre Galdino diede qualche speranza a Fermo; ma Fermo accolse anche questa speranza, come accade a quelli che sono nella sventura e nell’impaccio. «Ma, se il Padre», diceva, «non vi trova un ripiego, lo troverò io in un modo o nell’altro». Le donne consigliarono la pace e la pazienza, e la prudenza. «Domani», disse Lucia, «il Padre Galdino verrà sicuramente, e vedrete che troverà qualche rimedio che noi poveretti non sappiamo nemmeno immaginare».

«Lo spero», disse Fermo; «ma in ogni caso saprò farmi ragione, o farmela fare. A questo mondo c’è giustizia finalmente».

«Addio Fermo», disse Lucia; «andate a casa, Dio ci ajuterà e non è lontano il tempo che potremo star sempre insieme. Usate prudenza, non fatevi vedere, non parlate». Agnese aggiunse altri consigli, e Fermo partì colle lagrime agli occhi, e col cuore in tempesta, ripetendo di tempo in tempo queste portentose parole: «A questo mondo v’è giustizia finalmente». Tanto è vero che un uomo sopraffatto da grandi dolori non sa più quello che si dica.