Fermo e Lucia/Tomo Primo/Cap II
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Fermo
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La consulta fu tempestosa e durò tutta la notte. L’egoismo, la debolezza, e la paura vi si trovavano come in casa loro, l’astuzia doveva quindi essere invitata, e ricevere L’incarico di proporre il partito, e così fu. Senza annojare il lettore colla relazione di tutte le fluttuazioni, dei ripieghi accettati e rigettati, basterà il dire che il partito di fare quello che si doveva senza darsi per inteso della minaccia non fu nemmeno discusso, che si pensò a quello di assentarsi, tanto da aspettare qualche beneficio dal tempo, ma questo anche fu rigettato perché non v’era spazio per eseguirlo. La celebrazione del matrimonio era stabilita pel giorno vegnente, e una partenza di buon mattino, senza lasciare nessuna disposizione avrebbe avuto tutto il colore d’una fuga, ed esponeva a molti impicci, e rendiconti. Fu però riservato questo ripiego per l’ultimo, cercando intanto di guadagnar tempo e di agire sulla parte più debole. Don Abbondio si preparò a questo esperimento; passò in rassegna tutti i mezzi di superiorità e d’influenza che l’autorità, la scienza, (in paragone di Fermo), e la pratica gli davano sopra quel povero giovane, e pensò al modo di farli giuocare. Questi bei trovati di Don Abbondio appariranno più chiaramente nel discorso ch’egli ebbe con Fermo. Fermo non si fece aspettare, e appena appena gli parve ora da potersi presentare al Curato senza indiscrezione, vi andò colla lieta impazienza di un giovane che in quel giorno deve sposare quella ch’egli ama. Era Fermo un tessitore di seta, sorta d’industria che da una grande attività era allora in decadenza, ma non però al segno che l’operajo abile non potesse onestamente vivere del suo lavoro. L’emigrazione di molti lavoranti suppliva per così dire alla diminuzione del lavoro lasciandone a sufficienza a quelli che rimanevano. In progresso di tempo crescendo a dismisura le cause che avevano diminuita quella industria, essa fu ridotta quasi a niente. Oltre la sua professione aveva Fermo un pezzo di terra che faceva lavorare, e che lavorava egli stesso nel tempo in cui era disoccupato dal filatojo, dimodoché non aveva a contrastare col bisogno. Era in quel giorno vestito dalla festa con piume di vario colore al cappello, col suo coltello dal bel manico, e mostrando in tutto l’abito e nel portamento un’aria di festa e nello stesso tempo di braveria, comune a quei tempi anche agli uomini i più quieti, come infatti era Fermo. L’accoglimento serio, freddo, misterioso di Don Abbondio fece un contrapposto singolare coi modi gioviali e risoluti di Fermo. Ecco una parte del dialogo curioso che ebbe luogo fra quei due: «Son venuto, signor Curato», disse il giovane, «per sapere a che ora le convenga che noi veniamo alla Chiesa».
«Di che giorno intendete?»
«Oggi, Signor curato; non siamo intesi così?»
«Oggi?» replicò il curato come se ne sentisse parlare per la prima volta. «Oggi, non posso».
«Come non può? che cosa è accaduto?»
«Prima di tutto non mi sento bene, vedete».
«Ma grazie al cielo il suo incomodo non è serio, e quello ch’ella ha da fare è cosa di sì poco tempo, e di sì poca fatica...»
«E poi, e poi, e poi...»
«E poi che cosa, Signor curato?»
«E poi ci sono degl’imbrogli».
«Degl’imbrogli? che imbrogli ci ponno essere?»
«Avete buon tempo voi altri, che non vi pigliate briga di niente, e vi fate servire, e non avete conti da rendere. Ma io sono troppo dolce di cuore, procuro di togliere gli ostacoli, di facilitare tutto, di fare quello che gli altri vogliono, e trascuro il mio dovere, e poi mi toccano dei rimproveri, e peggio».
«Ma per carità, non mi tenga così sulla corda; mi dica che cosa c’è».
«Sapete voi quante e quante formalità sono necessarie per fare un matrimonio che non levi il sonno a chi lo ha fatto?»
«Ma queste formalità non si sono già fatte?»
«Fatte, fatte, pare a voi, perché la bestia son io che trascuro il mio dovere per non far penare la gente. Ma ora, so io quel che dico, non posso più fare a questo modo».
«Ma via, quale è la formalità com’ella dice, che bisogni fare? La si farà subito».
«Ecco: nessuno è contento a questo mondo: voi stavate bene colla vostra professione, libero, industrioso, col tempo avreste potuto comperarvi un luoghetto vicino al vostro e poi un altro, e a poco a poco vivere d’entrata: ecco che vi salta in capo di ammogliarvi».
«Ma a che serve questo discorso? appunto perché Dio mi dà un poco di bene voglio maritarmi; io non son venuto adesso a domandarle un parere, ma a sapere quando mi vuol maritare».
«Sapete voi quanti sono gl’impedimenti dirimenti?»
«Che vuole che sappia io d’impedimenti? Mi sbrighi, mi dica che cosa manca, ed io farò tutto».
«Error, conditio, votum, cognatio, crimen, Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis...»
«Si piglia ella giuoco di me? Ella sa che io non so il latino».
«Dunque se non sapete le cose, rimettetevene a chi le sa».
«Mi rimetterò alla ragione, quando ella me ne dia una, e mi dica quello che vuol da me, perché io non capisco niente».
«Tutti questi che vi ho detti, sono impedimenti, e non son tutti, eh, ce n’è una filza».
«Insomma al mio matrimonio c’è un impedimento?»
«Ve ne possono esser dieci, dodici».
«Voglio sapere quale è l’impedimento a fare il mio matrimonio».
Fermo disse queste parole con voce tranquilla ma con un rovello interno che cercava di contenere.
Don Abbondio non si avvide dello sforzo di Fermo, e tra perché lo conosceva come giovane buono e l’aveva provato sempre rispettoso e quieto, e tra perché il dover sempre arzigogolare pretesti, mentre aveva una buona ragione che non poteva dire, lo aveva messo di mal umore, vi si abbandonò e rispose con tuono di corruccio e d’impazienza. «Voglio, voglio, tocca a voi dir: voglio?» Queste parole sciolsero l’ultimo freno alla pazienza di Fermo che già aveva voluto scappare più volte, come il lettore avrà veduto nel caldo crescente delle sue risposte. «Lo voglio per...» gridò con una subita trasformazione, «e s’ella crede di farsi beffe di me perché son povero figliuolo, le farò vedere che quando mi si fa torto, so fare anch’io uno sproposito come qualunque signore».
«Via via», rispose Don Abbondio spaventato, «non siete più quel buon giovane ch’eravate?»
«Mi dia ragione, se non vuol portarmi fuori di me».
«Se volete ch’io possa parlare tranquillatevi».
«Son tranquillo, e parli».
«Sappiate adunque che è nostro dovere, dovere preciso di fare ricerche, ricerche esatte per vedere se non ci sieno impedimenti».
«Ma se ve ne fosse, perché non me li sa indicare?»
«Ma non basta il non saperne, bisogna aver fatte quelle tali ricerche, e poi bisogna informarsi di molte altre cose, altrimenti?... il testo è chiaro: Antea quam matrimonium denunciet, cognoscet quales sint...»
«Non voglio latino. Ma perché non le ha fatte prima queste ricerche?»
«Ecco mi rimproverate la mia troppa bontà. Ma adesso, mi son venute... basta, so io».
«Insomma quanto tempo ci vuole?»
«Molto, molto».
«Quanto?»
«Almeno un mese».
«Un mese?» sclamò Fermo con volto burbero e sorpreso.
«Via in quindici giorni si procurerà...»
«Signor Curato...»
«Ebbene voi non volete intender ragione, vedrò se in una settimana...»
«Or bene, aspetterò una settimana, mi esporrò alle ciarle, ed ai fastidj di questo ritardo. Ma la prevengo che questo ritardo non mi renderà di buon umore, né disposto a contentarmi di ciance. S’ella vuol farmi una ingiustizia, si ricordi che tutto quello che può accadere è sulla sua coscienza. La riverisco». E così detto se ne andò facendo un inchino frettoloso, e molto meno riverente del solito, e lasciò Don Abbondio più soprappensiero di prima.
Il povero sposo che, entrato nella casa del Curato per parlare di nozze e di festa, non aveva sentito altro che impedimenti ed imbrogli, in mezzo alla stizza che lo rodeva, andava però riflettendo sui discorsi e sul contegno del Curato, e trovava tutto pieno di mistero...
L’accoglimento freddo e imbarazzato, l’impazienza e quasi la collera, il tuono continuo di rimbrotto senza un perché, quel farsi nuovo del matrimonio che pure era concertato per quel giorno, e non ricusando mai di farlo quando che sia, parlare però come se fosse cosa da più non pensarvi, le insinuazioni fatte a Fermo di metterne il pensiero da un canto: il complesso insomma delle parole di Don Abbondio presentava un senso così incoerente, e poco ragionevole, che a Fermo, ripensandovi così nell’uscire, non rimase più dubbio che non vi fosse di più, anzi tutt’altro di quello che Don Abbondio aveva detto. Stette Fermo in forse di ritornare al Curato per incalzarlo a parlare, ma sentendosi caldo, temette di non passare i limiti del rispetto, pensò alla fin fine che una settimana non ha più di sette giorni, e si avviò per portare alla sposa questa trista nuova. Sull’uscio del Curato si abbattè in Vittoria che andava per una sua faccenda, e tosto pensò che forse da essa avrebbe potuto cavar qualche cosa, e salutatala entrò in discorso con lei:
«Sperava che saremmo oggi stati allegri insieme, Vittoria».
«Ma! quel che Dio vuole, povero Fermino».
«Ditemi un poco, quale è la vera ragione del Signor Curato per non celebrare il matrimonio oggi come s’era convenuto».
«Oh! vi pare ch’io sappia i secreti del Signor Curato?» È inutile avvertire che Vittoria pronunziò queste parole come si usa quando non si vuole esser creduto.
«Via, ditemi quel che sapete, ajutate un povero figliuolo».
«Mala cosa nascer povero, il mio Fermino».
Per timore di annojare il lettore non trascriverò tutto il dialogo, dirò soltanto che Vittoria fedele ai suoi giuramenti non disse nulla positivamente, ma trovò un modo per combinare il rigore dei suoi doveri colla voglia di parlare. Invece di raccontare a Fermo ciò ch’ella sapeva, gli fece tante interrogazioni, e che toccavano talmente il fatto noto a Vittoria, che avrebbero messo sulla via anche un uomo meno svegliato di Fermo, e meno interessato a scoprire la verità. Gli chiese se non s’era accorto, che qualche signore, qualche prepotente, avesse gettati gli occhi sopra Lucia, etc., parlò dei rischj che un curato corre a fare il suo dovere, del timore che uno scellerato impunito può incutere ad un galantuomo, fece insomma intender tanto che a Fermo non mancava più che di sapere un nome. Finalmente per timore come si dice, di cantare, si separò da Fermo raccomandandogli caldamente di non ridir nulla di ciò che le aveva detto.
«Che volete ch’io taccia», disse Fermo, «se non mi avete voluto dir nulla».
«Eh! non è vero che non vi ho detto nulla? Me ne potrete esser testimonio, ma vi raccomando il segreto». Così dicendo si mise a correre per un viottolo che conduceva al luogo ov’ella era avviata. Fermo che aveva acquistata tutta la certezza che una trama iniqua era ordita contro di lui, e che il Curato la sapeva, non potè più tenersi, e tornò in fretta alla casa di quello, risoluto di non uscire prima di sapere i fatti suoi che gli altri sapevano così bene. Entrò dal curato, lo sorprese nello stesso salotto, e gli si avvicinò con aria risoluta: «Eh! eh! che novità è questa», disse Don Abbondio.
«Chi è quel birbante», disse Fermo colla voce d’un uomo che non vuole esser più burlato, «chi è quel birbante che non vuole ch’io sposi Lucia?»
Don Abbondio diede un salto dal suo seggiolone per correre alla porta, Fermo vi balzò prima di lui, come doveva accadere, la chiuse e si pose la chiave in tasca.
«Ah! ah! Signor Curato, adesso, parlerà ella?»
«Fermo, Fermino, per amor di Dio, aprite, guardate quel che fate, pensate all’anima vostra».
«Che pensare? Mi si è coperta la vista», rispose Fermo; un Toscano avrebbe detto: non vedo più lume. E continuò: «lo voglio sapere subito, subito», e così dicendo pose forse inavvertitamente la mano al coltello che però non si cavò di tasca. «Jesummaria!» sclamò Don Abbondio.
«Lo voglio sapere», gridò ancor più forte il giovane.
«Volete voi la mia morte?»
«Voglio sapere ciò che ho ragione di sapere».
«Ma se parlo, io son morto. Non m’ha da premere la mia vita?»
«Ah! le preme dunque la sua vita? Bene la sua vita è in mano mia in questo momento. Parli».
«Oh povero me! mi promettete, mi giurate di non dir niente?»
«Le prometto di fare uno sproposito se non parla subito».
Di botta in risposta il volto di Fermo diveniva più infocato, il labbro più tremante, e l’occhio più stralunato. Don Abbondio vide che non poteva cavarsela che col proferire una parola, e articolò: «Don...» «Don», replicò Fermo come per ajutare Don Abbondio a pronunziare il resto: «Don Rodrigo» disse finalmente il Curato. E non l’ebbe appena proferita, che sentendo cessato il pericolo imminente, e vedendo che Fermo non aveva più pretesto da minacciarlo, la paura si cangiò in collera e cominciò a rimproverarlo. «Avete fatta una bella azione. Mi avete reso un bel servizio». «Signor Curato», interruppe Fermo che provava una gioja trista e feroce di conoscere il suo nemico, «Signor Curato, ho fallato, le domando scusa, ma si metta una mano al petto, e pensi se nel mio caso Ella avrebbe avuto più pazienza».
«Sì sì, voi sarete cagione della morte del vostro Curato: aprite almeno, aprite».
Fermo sentiva un vero rimorso di aver minacciato e trattato a quel modo il Curato, e gli domandò di nuovo perdono sommessamente. «Aprite, aprite», replicò il Curato. Fermo si tolse la chiave di tasca, e la presentò al curato col volto confuso d’un uomo che sente d’aver commessa una violenza. Il Curato la prese, aperse, e andò verso l’uscio della via, mentre Fermo lo seguiva colla testa bassa, e fremendo nello stesso tempo. Quando furono sulla porta: «Mi promettete ora», disse il curato, «di non dir niente?» Fermo, senza rispondere gli chiese di nuovo perdono e da lui che molto anco volea chiedere e udir qual lume al soffio sparve.
Don Abbondio dopo d’averlo invano richiamato, tornò in casa, cercò Vittoria; Vittoria non v’era; egli non sapeva più quello che si facesse.
Spesse volte personaggi assai più importanti di Don Abbondio trovandosi in situazioni imbrogliate a segno di non sapere quale determinazione prendere, e non avendo nulla di opportuno da fare, e non potendo stare senza far nulla senza una buona ragione, trovarono che una febbre è una ragione ottima, e si posero a letto colla febbre. Questo disimpegno Don Abbondio non ebbe bisogno d’andarlo a cercare perché se lo trovò naturalmente. Lo spavento del giorno passato, l’agitazione della notte, e lo spavento replicato di quella mattina lo servirono a maraviglia. Si ripose sul seggiolone tremando del brivido e guardandosi le unghie e sospirando; giunse finalmente Vittoria. Risparmio al lettore i rimproveri e le scuse. Basti dire che Don Abbondio ordinò a Vittoria di chiamare due contadini suoi affidati e di tenerli come a guardia della casa, e di far sapere che il curato aveva la febbre. Dati questi ordini si pose a letto, dove noi lo lasceremo senza più occuparci di lui per un lungo tratto di tempo, nel quale egli cessa d’avere un rapporto diretto colla nostra storia. Soltanto per prestarmi alla debolezza di quei lettori che non capiscono che l’uomo timido il quale lascia di fare il suo dovere per ispavento merita meno pietà dello scellerato consumato il quale cercando il male, e facendolo spontaneamente mostra almeno di avere una gran forza d’animo, e di sentire le alte passioni, e che potrebbero essere solleciti per quel meschino, credo di doverli informare che Don Abbondio non morì di quella febbre.
Fermo toltosi in fretta dalla vista di Don Abbondio, uscito del villaggio, si avviò a gran passi quasi senza avvedersene da quella parte che conduceva al palazzotto di Don Rodrigo, ch’egli desiderava in quel momento d’incontrare come un amico dopo una lunga assenza. I provocatori, i soperchianti, tutti quelli che in ogni modo invadono i diritti altrui, sono rei non solo del male che fanno, ma del pervertimento a cui portano gli animi di coloro che offendono. Fermo era come l’abbiam detto un giovane tranquillo, ed innocuo, ma in quel punto il suo cuore non batteva che per l’omicidio. Andava dunque per affrontare lo scellerato quando pensò che a quella casa benché discosta alquanto dall’abitato, pure era cosa insensata e piena di pericolo l’avvicinarsi con mire ostili; giacch’ella era una specie di picciol forte con una guarnigione di bravi. Egli sentì tosto che ad una sola parola irriverente che avesse detta sarebbe stato scacciato, che mostrandosi, anche senza parlare, intorno a quella casa sarebbe stato provocato, e ucciso, e che i suoi uccisori lo avrebbero dipinto come un assassino. Ma risoluto alla vendetta, pensò che l’unico modo di eseguirla era aspettare un momento in cui per caso Don Rodrigo uscisse scompagnato dai suoi bravi, di aspettarlo dietro una macchia o un muricciuolo. In questa risoluzione si rivolse quasi macchinalmente per tornare a casa a prendere il suo archibugio. Andando, egli s’immaginava di starsene appiattato, gli pareva di sentire una pedata, di alzare chetamente la testa, di vedere Don Rodrigo, prendeva la mira, sparava, lo vedeva cadere, gli lanciava una maledizione, e correva verso il confine per mettersi in salvo. E mentre tripudiava in questa immaginazione, gli si attraversò un pensiero: — E Lucia... che ne sarà? — Appena la catena delle idee feroci che lo dominava in quel punto fu interrotta, le migliori idee a cui era avvezzo entrarono in folla. Si ricordò la consolazione che aveva tante volte provata pensando di esser mondo di sangue, gli avvisi di suo padre, le preghiere ripetute e sollecite di sua madre moribonda, pensò all’inferno, a Dio, alla Beata Vergine, e si risvegliò da quel sogno di sangue con ispavento e con rimorso, e con una specie di gioja di non aver fatto niente. — Dio mi ajuterà — disse, e deposto ogni pensiero di pigliar l’archibugio, continuò la sua strada per andare ad informare Lucia e la madre del tristo stato delle cose. In mezzo alla ripugnanza che sentiva a dovere dare una tal novella alla sua sposa, egli ardeva di parlargliene per togliersi un fiero sospetto dal cuore. La prepotenza di don Rodrigo non poteva venire da altro, che da una sua brutale passione per Lucia. E Lucia ne era ella informata? Così arrovellato giunse nel cortiletto della casa, e sentì un gridio nella stanza superiore dov’era Lucia e s’immaginò che sarebbero amiche e comari, e non si volle mostrare. Una fanciulletta che si trovava nel cortile gli corse incontro gridando: «lo sposo, lo sposo!» «Zitto, zitto», disse Fermo, «sali da Lucia, pigliala in disparte e dille all’orecchio, ma all’orecchio ve’, che ho da parlarle, e che l’aspetto nella stanza terrena, e non lo dire a nessun altro».
La fanciulletta salì subito le scale, lieta di avere una incombenza segreta da eseguire.
Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche se la rubavano, e le facevano forza perché si lasciasse vedere, ma ella si schermiva con quella modestia un po’ guerriera delle foresi, chinando la faccia sul busto e facendole scudo col gomito. Aveva i neri capegli spartiti sulla fronte con una dirizzatura ben distinta, e ravvolti col resto delle chiome dietro il capo in una treccia tonda e raggomitolata a foggia di tanti cerchi, e trapunta da grossi spilli d’argento che s’aggiravano intorno alla testa in guisa d’una diadema, come ancora usano le donne del contado milanese. Al collo una collana di molte fila, di granate alternate con bottoni d’oro a filigrana. Un bel busto di broccato a fiori, le maniche corte fino al gomito dello stesso colore, allacciate sopra le spalle con nastri di seta, e terminate da due gran manichetti, una gonnella corta di filaticcio di seta terminata all’allacciatura con fitte e spesse pieghe, due calze vermiglie, e due pianelle coperte di seta e ricamate sul piede. Oltre questo che era l’ornamento particolare di quel giorno, Lucia aveva quello quotidiano di una modesta bellezza, la quale era allora accresciuta e per dir così abbellita dalle varie affezioni dell’animo suo in quel giorno. Poiché appariva nei suoi tratti una gioja non senza un leggier turbamento, un misto d’impazienza, e di timore e quella specie di accoramento tranquillo che ad ora ad ora si mostra sul volto delle spose, e che temperato dalle emozioni gioconde e liete non turba la bellezza, ma l’accresce, e le dà un carattere particolare. La picciola Santina entrò nella stanza, non fece vista di nulla, aspettò un momento in cui Lucia si era staccata dalle donne, le disse la sua parolina all’orecchio, e se ne andò, per timore di non lasciarsi scorgere di quello che aveva fatto. Lucia disse, «torno», e scese in fretta in fretta. La faccia stravolta e il portamento agitato di Fermo la spaventò. «Che c’è di nuovo?» gli chiese ansiosamente. «Lucia», disse Fermo, con una voce nella quale più non si distingueva che la tristezza, «Lucia per oggi è finita, e Dio sa quando saremo marito e moglie». «Perché perché?» chiese ancor più spaventata Lucia. Fermo le narrò brevemente tutta la storia di quella mattina, tacendo però il nome di Don Rodrigo.
«Ah! non può essere che quel demonio in carne», sclamò Lucia pallida, e sconfortata. «Chi?» domandò Fermo. «Don Rodrigo». «Dunque voi sapevate?...»
«Pur troppo» interruppe Lucia, «e non ve ne ho parlato per buone ragioni; ora vi dirò il tutto: lasciate che possiamo esser sole con voi». Così detto salì in fretta le scale, ritornò nella stanza dove le donne erano radunate, e componendo il volto come potè meglio: «Il signor Curato», disse, «è ammalato, e per oggi non si fa nulla». Detto questo salutò le donne e ripartì.
Quando non ci fosse stata altra cagione di ritardo, la situazione era abbastanza imbarazzante in una sposa per motivare la sua subita scomparsa. La società si disciolse: la madre seguì la figlia per ansietà e per curiosità di saper tutto, e le donne uscirono per potere verificare il fatto, e far congetture.
Ma la verità del fatto le troncò tutte. Fermo seppe allora dalle donne gli antecedenti che noi racconteremo nel seguente capitolo.