Federconsorzi: storia di un'onta nazionale/III/6
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Dopo l'approvazione, da parte dei creditori, del concordato, la procedura fallimentare pare languire, fino all'approvazione del piano di vendita di Capaldo. Secondo i giudici di Perugia, nel lungo silenzio i commissari e il giudice delegato avrebbero operato per escludere ogni concorrente del progetto del banchiere romano
Il 29 gennaio 1992, otto mesi dalla promulgazione del fatidico decreto, si svolge l'assemblea dei creditori, che, la vince ad accogliere l'istanza di concordato inoltrata dai commissari ministeriali. I tre interrelazione che ha suggellato, il 21 precedente, il commissario giudiziario Picardi, conmerati professionisti riescono nell'intento offrendo di distribuire 3.939 miliardi, il 73,9 per cento delle cifre dovute dalla Federconsorzi. Si oppone, invano, un manipolo di diciannove costruttori di macchine, che l'Unacoma, l'associazione degli industriali agromeccanici, ha riunito, previamente, a Bologna, raccogliendoli in consorzio per la migliore difesa degli interessi comuni. Primo degli aderenti, la società Benfra di Modena, uno dei maggiori costruttori nazionali di pale meccaniche, che avendo nella Federconsorzi il cliente fondamentale, è stata travolta dal crack e costretta alla liquidazione. Tra gli aderenti si contano Nobili, Gaspardo, Orma, Sigma 4, Kuhn Italia.
Sperando di sbarrare la strada al concordato il consorzio dei costruttori meccanici ha intentato, il 2 gennaio, un'azione per danni contro gli amministratori della Federconsorzi, che accusa di avere redatto bilanci falsi, occultando perdite e dilatando l'attivo, così da ingannare i creditori sulla solvibilità dell'organismo. Subissati dal voto favorevole della maggioranza, nella procedura il gruppo dei costruttori, da cui si dissocia la Fiat, che aderirà al progetto della Banca di Roma, manterrà una posizione di intransigenza, proclamando la certezza del risultato positivo dell'azione intentata agli amministratori.
Nel gioco dei bilanci
Sottoposta a regime commissariale ma tuttora in possesso di autonomia giuridica, la Federconsorzi è tenuta, all'alba del 1992, a redigere il bilancio di gestione del 1991, l'incombenza cui assolvono i tre commissari assistiti dall’ex contabile e neodirettore Paolo Bambara: il deposito in Tribunale del documento segna la transizione tre la fase commissariale e quella liquidatoria dell’agonia della holding agricola. Navigatori non novizi, mentre operano il più drastico contenimento dell'attivo, secondo quanto imputerà loro il Tribunale di Perugia, i tre commissari si premurano di adempiere ai compiti istituzionali manifestando, il 7 febbraio, di avere individuato irregolarità contabili, e chiedendo la nomina di una commissione di specialisti che analizzi i bilanci degli ultimi anni. L'istanza contraddice quanto ha asserito, nella propria relazione, il commissario giudiziale, che nel documento ha asserito che l'esame della contabilità della Federconsorzi imponeva di riconoscervi quella "regolarità sostanziale" che l’avrebbe resa coerente alle prescrizioni della legge.
Il 5 maggio il tribunale istituisce la commissione richiesta dai commissari nominandone i membri nella dottoressa Maria Martellini, in Mario Sica e Lucio Ghia, l'ultimo dei quali non accetta l'incarico e viene sostituito dal commissario giudiziale Picardi, l'11 maggio, con Francesco Carbonetti, che entra come semplice perito sulla scena in cui si imporrà, poi, autentico protagonista, come presidente della società acquirente del patrimonio. La cronaca registrerà con curiosità l'entità della parcella che l'avvocato Ghia chiederà per la presentazione della domanda di concordato, 24,2 miliardi, che verranno crudamente ricondotti dai giudici a poche miserabili centinaia di milioni.
Trascorre una settimana dalla nomina e il 17 maggio, a celebrare l'anniversario del decreto che ha affondato il natante alla deriva, Giovanni Goria, che saltuariamente invia patetiche noticine a Terra e vita, che le pubblica in una rubrica denominata Fax verde, verga la più zuccherosa apologia del proprio operato spiegando che la Federconsorzi, ormai in avaria, poteva essere gestita solo dai creditori, alle cui capacità era volto ad affidarla il proprio decreto: la forma furbesca per addomesticare il passato secondo le circostanze successive, volute o subite resta mistero.
Il collasso della Federconsorzi continua a produrre conseguenze catastrofiche, intanto, sulla rete dei consorzi agrari, che non più sostenuti finanziariamente dall'organismo centrale denunciano situazioni di insolvenza sempre più frequenti, e vengono affidati a commissari governativi: nei dodici mesi successivi al decreto di Goria ai nove precedentemente sottoposti a liquidazione coatta se ne aggiungono ventisette.
Dieci giorni più tardi, il 27 maggio, segna una data capitale per la conclusione della vicenda il deposito del bilancio presentato dai commissari. Frutto della solerzia di chi ha operato perché l'attivo fosse valutato con prudenza degna di Mentore, le attività sommano 4.818 miliardi, le passività 6.495. Inserendo il documento nel fascicolo relativo, il presidente della Sezione fallimentare, Ivo Greco, che si è riservato il ruolo di giudice delegato, vi include anche il piano proposto, per conto di un gruppo di creditori, dall'avvocato Mario Casella per l'attuazione della procedura richiesta e non ancora concessa. Ispiratore del disegno, il presidente della Banca di Roma, Capaldo, col cui nome il piano sarà identificato durante l’intera vicenda. Lo hanno sottoscritto, il 14 maggio, la Banca di Roma, l'Istituto San Paolo, la Banca popolare di Novara, il Credito italiano, la Banca nazionale del lavoro, la Banca nazionale dell'agricoltura, la Cassa di risparmio delle province lombarde, il Banco di Sicilia e quello di Napoli, la Fiat e l'Enichem, che, che si ritirerà dal sodalizio, peraltro, dopo la seduta del 28 gennaio 1993. Coincidenza singolare, anche in una storia che di coincidenze ne registra più di una, lo stesso giorno dell'approvazione del capolavoro contabile i tre commissari vengono sostituiti dal Ministro, che ne affida le funzioni a legato nuovo, il dottor Mario Piovano.
Le vicissitudini di un'istanza processuale
La seconda data capitale, nel secondo atto della tragedia della liquidazione della Federconsorzi, è fissata dal 23 luglio, quando il collegio presieduto da Greco accoglie, nel lessico del Codice "omologa", l'istanza di concordato preventivo. Tra le due date si consuma uno scambio di documenti che lascia tracce alquanto labili nel fascicolo fallimentare, ma che i giudici di Perugia ricostruiranno facendone caposaldo del proprio teorema accusatorio: lo stesso giorno della presentazione del bilancio, il 27 maggio, i commissari ministeriali consegnano a Greco un'istanza con cui chiedono istruzioni sulle conseguenze da trarre dall'entità dell'attivo, che avrebbe verificato imporre una forma di liquidazione diversa da quella per la quale hanno optato. E' domanda retorica, siccome il testo non riconosce che si siano commessi errori, ma rimette a Greco la responsabilità di avallare, a posteriori, la scelta operata dai commissari all'indomani della nomina. Esonerati dal mandato, dal quale non potranno trarre altro beneficio che presentare le parcelle, i tre si premurano di precostituire un attestato della conformità al giure del proprio operato. Ma Ivo Greco non è navigatore meno consumato dei tre nocchieri che ha di fronte, a differenza dei quali, benefici, secondo il teorema di Perugia, dal procedimento ne attende di nuovi e non insignificanti, che non intende compromettere tutelando chi esce di scena dopo avere vangato, a suo vantaggio, un terreno tanto fertile. Il giudice romano conserva l'istanza evitando di protocollarla.
Conosciuta l'esistenza del documento il successore, Piovano, chiede ragguagli ai predecessori, a nome dei quali Cigliana gli scrive spiegando che l'inoltro era diretto a tutelare giuridicamente la triade. Preoccupato che l'autotutela altrui non lo investa di responsabilità sgradite, Piovano chiede notizie a Greco, che il 10 luglio, quattro giorni prima della prima riunione collegiale della Sezione fallimentare per esaminare le condizioni del concordato, gli riconsegna il foglio enunciando un brocardo degno di Bartolo da Sassoferrato: "Istanza riconsegnata, istanza ritirata". Il problema giuridico, spiega al proprio interlocutore, è controverso, e gli suggerisce di consultare, in merito, l'avvocato D'Alessandro, liquidatore, singolarmente, dell'Agrifactoring, la finanziaria costituita da Federconsorzi e Banca nazionale del lavoro presso la quale la prima scontava le cambiali inesigibili dei consorzi agrari. Ne indirizza le ansie, così, verso un legale che potrebbe non essere stato ignaro del disegno che i giudici di Perugia imputeranno ai commissari nominati da Goria, a Greco e agli esperti di cui gli stessi si sono circondati. Prima, tuttavia, che il solerte commissario ottenga il parere richiesto, che sarà allegato, tardivamente, agli atti, il 23 luglio Greco suggella la sentenza che omologa il concordato, di cui restano da stabilire solo le forme di liquidazione del patrimonio, l'obiettivo astrattamente conseguibile mediante la vendita dei singoli elementi che lo costituiscono, partecipazioni industriali, edifici, magazzini, aziende agricole, o mediante la cessione in blocco ad uno dei candidati che si sono dimostrati, nei mesi precedenti, ansiosi di semplificare l'opera dei liquidatori.
La sentenza non sarà depositata in cancelleria che il 5 ottobre: il lungo intervallo ha una spiegazione: stilando il documento Ivo Greco deve risolvere un problema giuridico che avrebbe imposto cautela e riflessione a tutti i maestri del giure, da Papiniano al grande Irnerio: dimostrare che gli amministratori dell'organismo fallito hanno assolto con abnegazione ai propri compiti, che il tracollo economico non è dipeso, cioè, dalla loro negligenza, che quindi sono "meritevoli" del concordato, una condizione richiesta dalla legge, che subordina al suo soddisfacimento l’applicazione della procedura. Ma la procedura del concordato è stata scelta perché avrebbe consentito a chi la avrebbe condotta di gestire liberamente il patrimonio, permettendo, insieme, agli amministratori di uscire di scena in silenzio. Dopo averli esclusi dalla scena perché non creassero incomodi, Greco non vuole assumere la responsabilità di dichiararne l’intemerata fedeltà alle leggi secondo le quali si governano le società, pretende, anzi, a propria tutela, di inserire nella sentenza la riserva del giudizio di un’eventuale, futura azione penale. La precauzione è in insanabile contraddizione con il proposito di spianare la strada al piano del professor Capaldo, ma il conflitto non è irresolubile per un giocoliere del diritto quale il dottor Ivo Greco, che per assolvere un proposito assurdo immagina una soluzione assurda, rivestendo un espediente che viola tutti i canoni della logica delle forme più sicure del diritto. Con una constatazione di lucidità cartesiana il magistrato romano rileva che il concordato non è stato richiesto dagli amministratori della Federconsorzi, ma dai tre commissari, dopo poco più di un mese dall'assunzione della responsabilità: come giudicarli immeritevoli se non avevano avuto neppure il tempo, all'atto di sottoscrivere l'istanza, di leggere i bilanci? Dovendosi reputare i commissari meritevoli, il concordato può essere concesso nel pieno rispetto della legge. Superato, con il luminoso cavillo, l’ostacolo esiziale, davanti al piano di vendita si dischiude il viale luminoso della grande vendita. Chi ha stilato la sentenza può persino vantare di avere elaborato un testo innovativo, da iscrivere negli annali della dottrina fallimentare.
Varata la sentenza di omologazione il patrimonio della Federconsorzi non attende che il miglior offerente: nella valutazione delle offerte, si premurano di proclamare i protagonisti della liquidazione, non sarà premiata, tuttavia, la proposta più consistente in termini monetari, ma quella che meglio tutelerà le attività commerciali e industriali della Federconsorzi, di cui dovrà consentire il trapasso a chi saprà espletarle, a vantaggio dell'agricoltura italiana, meglio della classe dirigente di cui il crack ha sancito l'incapacità.
Mentre il dottor Greco e i collaboratori meditano sulle forme migliori per assolvere all’impegno solennemente assunto, giornali premurosi delle sorti dell'agricoltura, tra gli altri la voce ufficiale del mondo finanziario, si chiedono, angosciati, perché si tardi tanto ad approvare il piano steso, con tanta solerzia, dal professor Capaldo, i benefici della cui attuazione sono compromessi, si sottolinea, da ogni giorno di ritardo. Greco stesso, intervistato dal "Sole", si preoccupa di spiegare che le more non sono frutto di negligenza, ma espressione di scrupolo e meticolosità. E' attenendosi a quella diligenza che sulla congruità del piano di Capaldo il dottor Greco avrebbe richiesto il parere di un'autorità in materia, il professor Francesco Carbonetti, enfant prodige della finanza italiana, consulente della Banca d’Italia, amico personale del Governatore, che avrebbe espresso un plauso incondizionato per il progetto di trasferire il patrimonio ai creditori maggiori riuniti in apposita società.
Singolarmente, al sopravvenire di difficoltà che costringeranno il primo architetto a lasciarne il timone, di quella società Carbonetti diverrà presidente, inducendo i giudici di Perugia ad includerlo tra i protagonisti della vicenda che imputeranno di bancarotta. Lasceranno cadere l’imputazione, provvidenzialmente, dimenticandosi di confermarla, dopo l’opposizione, nei termini di rito. Il professor Carbonetti potrà ritrovare la gioia di frequentare i numi che governano ancora, nel crepuscolo del millennio, la lira, libero da fastidiose preoccupazioni giudiziarie: ha contribuito a sottostimare il patrimonio della Federconsorzi, ha presieduto la società che se ne è appropriata, si ritira dichiarando, con un memoriale inviato a un periodico economico, di non sapere nulla. Ma il grande fallimento è l'ultima prova di vitalità della commedia dell'arte: nella recita hanno cambiato maschera i funzionari della Federconsorzi assoldati da Capaldo, i commissari pronti a convertirsi in sensali, i giudici impegnati a sottrarre il mestiere ai periti. Come nelle farse cinquecentesche, in cui alla fine tutti ridono tranne il contadino cui sono toccate le busse e le beffe, dalla sagra fallimentare tutti porteranno a casa qualcosa, avvocati, commercialisti e stimatori, a spese dell'agricoltura che avrà perduto quanto aveva costituito in cento anni di pazienti, se non sempre accorte, immobilizzazioni.
Con un'asta istantanea, la Polenghi a Cragnotti
Se nei mesi successivi al deposito del piano Capaldo si moltiplicano gli appunti di lentezza rivolti al dottor Greco, quegli appunti, si deve sottolineare, sono ingenerosi: mentre studia il documento, la Sezione fallimentare avvia le prime cessioni, per le quali il commissario giudiziale, Picardi, richiede la necessaria autorizzazione nell'ultimo scorcio del '92 . In settembre il collegio presieduto da Greco autorizza l'asta della quota del capitale della Sicpa, la società che possiede un centro frigorifero a Verolanuova, nel Bresciano, e della Sai, la società che possiede il centro di sbarco e stoccaggio per i cereali del porto di Ancona, con le attrezzature portuali di Ravenna uno dei caposaldi dell'attività di commercio cerealicolo della Federconsorzi.
A dimostrare che il concordato di Capaldo avrebbe costituito la forma legale di un gigantesco piano di appropriazione, il Tribunale di Perugia eccepirà che le prime vendite avrebbero risposto a due criteri opposti seppure, nel contrasto, complementari. Alcune sarebbero state realizzate a prezzi corrispondenti ai valori di stima, per ricavarne denaro con cui decurtare, secondo la clausola più machiavellica del piano, il prezzo pagato, per il patrimonio, dalla società dei creditori, le seconde sarebbero state effettuate, a prezzi largamente inferiori ai valori di stima, a favore di operatori collegati, mediante partecipazioni finanziarie, alla Banca di Roma di Capaldo, compartecipi del "disegno criminoso" di cui Capaldo sarebbe stato l'artefice.
Tra le vendite da iscrivere nella seconda categoria la più significativa sarebbe stata quella delle partecipazioni alimentari della Federconsorzi riunite nel portafoglio della finanziaria Fedital, il cui satellite maggiore era costituito dalla Polenghi Lombardo, originariamente una società per l'esportazione dei prodotti caseari italici, titolare di una gamma di specialità dal marchio prestigioso, la cui cessione si compiva negli ultimi mesi del '92. Dal tempo della presidenza dell'onorevole Andreoni, vicepresidente della Coldiretti e, pare, amministratore disinvolto, la Polenghi è voragine di debiti, che hanno continuato a lievitare durante le presidenze di Luigi Scotti e di Paolo Micolini. Come contraccolpo del crack della holding che la sosteneva, la Polenghi è stata posta sotto amministrazione controllata dal Tribunale di Milano, per evitare la dichiarazione di insolvenza le sue casse hanno assoluto bisogno, quando viene decisa la vendita, di denaro liquido.
Il commissario Piovano affida l'incarico di ricercare il miglior offerente alla Swiss Bank, un gruppo svizzero già titolare di partecipazioni nell'italiana Cragnotti § Partenrs, che rimette la stima del complesso Polenghi alla K.P.M.G., la quale fissa il prezzo di base impiegando i criteri di analisi di un bilancio di esercizio, eccepirà il Pubblico ministero di Perugia, non quelli specifici per la cessione di azienda, che debbono considerare il valore dei marchi e dei segmenti di mercato detenuti, che vengono ignorati dalla perizia. Alla comparsa del primo acquirente, la società di Sergio Cragnotti, antico vassallo di Raul Gardini, forse il più spericolato marchant-adventurer della borsa italiana, il giudice Greco, preoccupato che la società garantisca, dopo la vendita, l'occupazione e il prestigio dei formaggi italiani, decide di procedere alla ricapitalizzazione auspicata dai creditori prelevando dalle casse della Federconsorzi 20 miliardi e versandoli in quelle della Polenghi. La Swiss Banck comunica, quindi, al Tribunale di avere identificato il miglior offerente nella società Cragnotti § Partners, che offre 46,5 miliardi, in realtà, quindi, 26,5, che ne pagherà, dopo un ulteriore sconto benevolmente concesso dai giudici, 17, meno di un ottavo dei 130 miliardi proposti dai consulenti chiamati, all'alba della liquidazione, a valutare il patrimonio della Federconsorzi in agonia, la cui stima sarà confermata dai consulenti demandati dal Tribunale di Perugia di riformulare il prezzo.
Oltre alla singolare circostanza del versamento, da parte del gruppo in liquidazione, di 20 miliardi nelle casse della società posta in vendita per acquisire denaro liquido, e alle anomalie del procedimento impiegato per stimarne il valore, anche i tempi dell'asta sono tali da indurre più di un sospetto di un procedimento di favore: dopo aver proceduto ad un primo incanto con termini di tempo irrisori, è la stessa Swiss Bank a informare il giudice che i tempi non hanno consentito la presentazione di proposte alternative a quella della Cragnotti § Partners. Ivo Greco ordina, allora, di procedere ad un secondo incanto, assegnando, per la pubblicazione dell'avviso d'asta e la presentazione delle offerte, una settimana di tempo, tra il giorno di Natale e quello di Capodanno.
Non si riesce a vendere: si svende
Mentre si conclude il primo grande affare della liquidazione, il commissario giudiziale propone un'altra serie di cessioni il 4 gennaio 1993. Sempre solerte, Greco le autorizza dopo quattro giorni affidandole all'avvocato Marcello Piga, che procederà all’offerta pubblica, senza prezzo di base, di una parte del pacchetto azionario della Siapa, la società federconsortile produttrice di antiparassitari, di una società immobiliare operante a Trapani, del Reda, il Ramo editoriale degli agricoltori, l’editrice del Giornale di agricoltura e dell'Italia agricola, due testate dal passato onusto di gloria, prive di valore dopo decenni di incondizionato servilismo verso il padrone di Palazzo Rospigliosi.
Con tempi altrettanto istantanei vengono poste all'asta, per il 16 febbraio, le officine Carpi, per il 24 successivo la Sis, Società italiana sementi, una delle perle del portafoglio della Federconsorzi. Aste improvvisate, bandite senza concedere agli eventuali acquirenti il tempo di esaminare impianti e bilanci, non portano ad alcuna cessione, che non è avventato supporre costituisca lo scopo dei bandi, effettuati per costituire, risultata vana la ricerca di acquirenti, la prova delle difficoltà della vendita dei frammenti del patrimonio in liquidazione, per imporre la necessità, a vantaggio di tutti i creditori, di procedere alla vendita in blocco, la formula proposta dal piano Capaldo.
Il rumore sul crack ha suscitato, intanto, l'interesse del procuratore della Repubblica di Roma, Mele, che chiede al collega Greco i bilanci della Federconsorzi degli ultimi anni. Il 16 marzo il dottor Greco consegna i bilanci dal 1985 e la relazione di Martellini, Carbonetti e Sica, che il procuratore raccoglie in un fascicolo rubricato "Federconsorzi, bancarotta", e affida alle cure della sostituto Adelina Canale. Un articolo sulla Repubblica si chiede, preoccupato, se l'intervento della Procura possa ostacolare il varo del piano di acquisto di Pellegrino Capaldo, verso il quale i giornali più vicini a Piazza Affari continuano a dimostrare la più solerte premura.
Non insensibile, frattanto, alle pressioni del mondo finanziario, il 26 marzo successivo il collegio presieduto da Greco esprime formalmente la propria condiscendenza per la vendita "in blocco", la soluzione prefigurata da Capaldo, per il cui varo si sono pronunciate tante voci premurose delle sorti dell'agricoltura, amplificate dalla stampa con la firma di corsivisti prestigiosi: l'ordinanza assegna ai promotori un mese per costituire la società che dovrà attuare il piano.
Un mese più tardi, il 26 aprile, un decreto firmato dal medesimo Greco autorizza il commissario governativo alla firma dell'atto di cessione. Il giorno successivo ventisette rappresentanti di venticinque grandi banche, oltre alla Fiat New Holland e all'Api, Anonima Petroli Italiana, costituiscono la società concepita da Capaldo per acquisire il patrimonio della Federconsorzi, il 7 luglio viene depositata presso la Sezione fallimentare la relazione definitiva sulla cessione, che Ivo Greco e colleghi approvano il 20 luglio autorizzando definitivamente il commissario governativo, Mario Piovano alla stipula dell'atto.
Incerto, tuttavia, sulla legittimità del contratto, cui non intende apporre la propria firma, confermando la fama che ne celebrà le doti di di giocoliere consumato, Piovano si dimette, il Ministero lo sostituisce con Stefano D'Ercole, che, libero da remore, il 4 agosto, sottoscrive, davanti al notaio Gennaro Mariconda, la cessione, al dottor Pellegrino Capaldo, presidente della Società gestione realizzo, che ne suggella l'acquisizione, del più imponente apparato di stabilimenti, silos portuali, scali ferroviari, enopoli e centrali agrumarie costituito, in cento anni, a servizio dell'agricoltura italiana. Il prezzo pattuito, 2.150 miliardi, dal quale, grazie ad una clausola di particolare favore, la Sgr ottiene di dedurre tutte le sopravvenienze che derivassero dalle vendite già effettuate e da crediti che, considerati inesigibili, potessero trasformarsi, felicemente, in denaro contante. Lo stesso giorno in cui l’atto viene sottoscritto le sopravvenienze previste sono computate in 200 miliardi.
Terra e vita n. 13, 4 apr. 1998