Federconsorzi: storia di un'onta nazionale/II/1
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Evitata la soppressione come ente corporativo, la Federconsorzi permane, durante i governi di coalizione antifascista, nell'orbita comunista. Dopo la vittoria del 18 aprile il democristiano Segni decreta un riforma che lascia inalterato l'accentramento fascista. La riforma democratica potrebbe essere compiuta dopo la conquista da parte di Bonomi, che per affrontarla convoca un grande convegno, ma che all'apertura dei lavori ha deciso che nulla debba essere riformato.
Nelle convulsioni di un paese dilaniato dalla guerra civile il contesto dei consorzi agrari si spezza in due tronconi. A nord, nelle regioni sottoposte al governo filonazista di Salò, provvede alle fondamentali funzioni di gestione delle scorte granarie un apparato agli ordini di Egidio Pardini, l'ultimo dei commissari della Federazione in età fascista.
A sud l'anarchia seguita agli sbarchi alleati viene subitamente tamponata dall'assunzione delle responsabilità di "direttore gerente" da parte del responsabile dell'Ufficio interregionale di Napoli, Leonida Mizzi, un ragioniere piacentino che ha assunto l'incarico indifferente ai bombardamenti, di cui il Comando americano ha sancito l'autorità.
Il commissario comunista
La Federconsorzi continua la propria attività sotto la bandiera dei vincitori senza alcuna certezza di sopravvivenza nel quadro politico futuro. Quale l'hanno rimodellata gli interventi dei ministri fascisti l'intera organizzazione, consorzi provinciali e Federazione, è entità assai più similare agli istituti corporativi che il crollo del Regime trasforma in larve di storia amministrativa che alle cooperative iscritte nei programmi democristiani e comunisti: l'incolmabile distanza con i due ideali non sarà causa ultima delle anomalie che, rifuggendo l'omologazione ad entrambi, l'organizzazione consortile conserverà, singolarmente, mantenendosi genus istituzionale affatto peculiare. Ricordi personali di antichi dirigenti testimoniano dell'attesa della soppressione, che alla formazione del primo governo di coalizione antifascista è reputata certa: chi della Federconsorzi scriverà la storia dovrà verificare sulle carte governative quanto essa sia stata vicina ad essere cancellata dal quadro agrario con cinquant'anni di anticipo sugli eventi.
Il dilemma viene superato dal decreto del ministro dell'agricoltura del governo di Ivanoe Bonomi, il comunista Gullo, che accantonando le riserve istituzionali nomina un commissario alla guida dell'organismo che sta svolgendo le proprie funzioni essenziali, la distribuzione dei generi alimentari, nel paese che, tra le rovine, rischia la fame. L'uomo designato, il 25 giugno '44, all'oneroso mandato è Francesco Spezzano, compagno di partito di Gullo, che conferma, a sua volta, l'incarico di "reggente la direzione" a Leonida Mizzi.
Il decreto che insedia il responsabile di fronte al primo governo democratico è varato con l'implicito presupposto che atti normativi futuri saranno approvati per rifare del contesto l'insieme di cooperative private, autonome e volontarie, della fondazione. La rottura dell'equilibrio tra cattolici e comunisti, che hanno costretto alla solidarietà le more della liberazione del suolo nazionale, imprimerà al futuro del contesto consortile un corso diverso da quello che entrambe le parti avrebbero supposto nei mesi di tregua: il divampare, anzi, della contesa per la supremazia nel nuovo stato repubblicano trasformerà quel contesto in bastione dello scontro. Chi, tra i contendenti, se ne impossesserà, subordinerà, allora, ogni disegno di riforma all'imperativo di non indebolirne la solidità: nel corso di ogni battaglia fantasticare sulla disposizione dei plotoni nella parata che seguirà la vittoria è impegno futile e rischioso. Lo schieramento di cui il sistema federconsortile diverrà roccaforte sarà quello democristiano, che sottrarrà la Federazione alla sfera comunista cui ha accettato fosse consegnata, con la nomina del commissario, durante l'interludio della coalizione.
La riconquista, e la disposizione dell'apparato nelle prime linee del fronte cattolico, sono opera di un dei più pugnaci tra i luogotenenti di De Gaspari, Paolo Bonomi. Come attende chi si cimenti con la sua storia secolare la Federconsorzi, così attende il narratore delle proprie battaglie politiche e sociali la Confederazione nazionale dei coltivatori diretti, l'organizzazione di cui Bonomi è il creatore e il capitano, un'organizzazione che salda tanto solidamente l'obiettivo del riscatto sociale dei contadini agli imperativi della lotta anticomunista da essere destinata, quando si dissolverà l'urgenza della lotta, ad una crisi di identità che tenterà invano di superare il secondo presidente, che farà dell'apparato, dalla terza presidenza, macchina economica dalle risorse immense, costretta a rimettere la propria strategia, che non può più derivare da un programma ideale, agli studi di consulenza pubblicitaria.
Il tribuno e le sue legioni
Scrivere la storia della Coldiretti significherà verificare, innanzitutto, le notizie secondo le quali il creatore, e anima, dell'organizzazione non ne sarebbe stato anche l'ideatore, che sarebbe stato, invece, Alcide De Gasperi, col contributo, quanto determinante dovrà essere stabilito, di Attilio Piccioni, di Mario Scelba, di qualche monsignore del Vaticano e di un dirigente dell'organizzazione fascista degli agricoltori, Luigi Anchisi, che, prima ancora della scelta del presidente, dell'organizzazione, avrebbe stilato lo statuto. Non meno dell'idea, sarebbe stata merito di De Gaspari la designazione del presidente: scegliendo un giovanotto novarese laureato ma di assai modesta cultura, tribuno efficace nella semplicità elementare dei concetti, il primo presidente cattolico del Consiglio avrebbe dato prova di quell'intuito di vero statista che ne fa il padre dell'Italia democratica. Su poche forze sociali l'uomo politico trentino potrà contare, infatti, con la certezza con cui saprà al suo fianco i coltivatori diretti, di pochi uomini l'alfiere del mondo cattolico, insidiato da cento congiurati, potrà fidarsi come di Paolo Bonomi.
Chi ha conosciuto il tribuno contadino negli anni della grande avventura sottolinea che Bonomi era oltremodo lontano dal prevedere la marcia trionfale che stava per iniziare, nelle campagne italiane, sottoscrivendo, il 31 ottobre 1944, davanti al notaio Intersimone, il fatidico statuto. Compreso il capousciere, attorno a sé non aveva che sei luogotenenti, che univa a lui, più che la meta da realizzare, la necessità di sfuggire, inquadrandosi nei ranghi democristiani, l'epurazione che minacciava chi avesse ricoperto responsabilità dirigenziali sotto il Regime. Le dimensioni del successo alimenteranno il viscerale attaccamento con cui lo stratega contadino si aggrapperà alle leve del comando conquistato nel corso della lunga, debilitante malattia che lo colpirà precocemente: un rilievo che introduce nella vicenda di uno degli uomini che hanno contribuito a plasmare l'Italia repubblicana le note del dramma del despota condannato all'impotenza.
L'evento che suggellerà il trionfo nelle campagne della compagine bonomiana, da manipolo trasformatasi in armata, sarà la presa dei consorzi agrari, e la successiva conquista, tramite il voto dei presidenti dei consorzi, della Federazione. Tra il decreto di Gullo che riapre le prospettive del futuro al contesto consortile e l'espugnazione democristiana, che si compie il 3 settembre 1949, trascorrono quattro anni: sono anni confusi in termini di direzione politica, straordinariamente fattivi sul piano operativo. Infranta la solidarietà nazionale, al commissario comunista Spezzano è succeduto il democristiano Albertario, cui altri ne seguono, in una pirotecnia che, alimentata dai conflitti interministeriali, al momento delle elezioni federconsortili porterà il numero dei commissari a tre. Nell'incertezza della guida politica ha consolidato i titoli di direttore attribuitegli, sul campo, dal Comando americano, il "gerente" dell'ufficio di Napoli, Leonida Mizzi, che nel corso di ogni burrasca pare saper rafforzare il proprio comando, che impiega, con maestria, nella più impegnativa opera annonaria.
Il decreto di Segni
Nel Paese uscito dalla guerra con il sistema agroalimentare compromesso provvedono a fornire l'essenziale alla tavola degli italiani i successivi piani di aiuto americani, Amg, Unrra ed Ausfap, tra le cui voci occupano un posto eminente le forniture alimentari. Dopo aver offerto ai vincitori appena sbarcati l'apparato annonario con cui sfamare i vinti, Mizzi ha continuato la medesima attività per conto del Commissariato all'alimentazione, quindi del Ministero dell'agricoltura, destinatari formali delle derrate americane. Ha riorganizzato, contemporaneamente, la rete dei consorzi per distribuire le prime macchine agricole che escono dalle catene di montaggio ristrutturate dopo aver prodotto carri armati, e i concimi prodotti dalle industri chimiche che hanno interrotto la produzione di esplosivi.
Conservato, nel quadro delle istituzioni pubbliche, per assolvere agli imperativi del momento, dal governo Bonomi, il contesto federconsortile attende di essere inserito organicamente nella cornice repubblicana dalla riforma che lo restituisca alla primitiva natura cooperativistica.
Vara il decreto di riforma, il 7 maggio 1948, Antonio Segni. Sono trascorsi quindici giorni dal trionfo democristiano del 18 aprile: dello scontro senza quartiere di cui quel trionfo segna un cippo il testo è frutto emblematico. Piuttosto dell'attesa riforma, è l'espressione della scelta di nulla riformare: nell'incertezza di quali maggioranze potranno formarsi in ciascun consorzio, lo statuto del ministro democristiano perpetua l'accentramento fascista, la precauzione per affidare il controllo dei consorzi che potranno essere conquistati dagli avversari alla Federazione, che Segni spera sarà guadagnata alle forze democristiane. Se le riforme fasciste hanno creato una compagine di enti corporativi che giuristi autorevoli hanno dubitato di classificare autentici enti pubblici, la riforma democristiana ricostituisce un sistema di cooperative per le quali risulterà inapplicabile la legislazione delle cooperative: la sommatoria di due discipline dettate da ragioni opposte ma convergenti, composte estemporaneamente, non sarà causa secondaria del collasso: difficilmente organismi dallo statuto confuso sfidano impavidi le ingiurie del tempo.
La pubblicazione del decreto apre la stagione elettorale. Le elezioni hanno uno svolgimento tempestoso: i rappresentanti della borghesia agraria, eredi degli amministratori dell'età di Morandi, pretendono il governo dei consorzi e della Federazione come cosa propria, dimenticando con soverchia leggerezza di avere abdicato ai propri poteri quando i gerarchi in camicia nera hanno sottratto le poltrone presidenziali ai rappresentanti eletti dai soci. Consapevoli del ruolo dell'agricoltura nel futuro scontro politico, i comunisti, che nel corso della Liberazione hanno svolto un lavoro capillare, accendendo, nel Mezzogiorno, violenti moti contadini, sono certi della conquista di un numero ingente di consigli di amministrazione. Dove le forze della neonata Coldiretti appaiono più vigorose, riescono ad attirare gli "agrari" nella più spregiudicata delle alleanze.
Coerenza strategica e astuzie tattiche si rivelano egualmente impotenti di fronte alla forze assicurata a Bonomi dall'attivismo della schiera di funzionari fascisti sottratti all'epurazione: le elezioni, che nella maggior parte delle province si svolgono sotto la tutela dei carabinieri, consacrano il trionfo del movimento contadino cattolico, cui gli avversari riescono a sottrarre un solo consorzio, quello di Livorno.
La contea democristiana
Il successivo scrutinio, tra i presidenti riuniti a Roma, per la designazione della giunta e del presidente della Federazione, si trasforma in plebiscito a favore di Paolo Bonomi. Il successo supera le aspettative più ottimistiche. E' trascorso poco più di un anno dalla vittoria del 18 aprile: la Democrazia Cristiana più misurare le posizioni conquistate riconoscendo di non essere stata favorita da una ventata di opinione, ma di avere incluso tra le proprie linee uno dei perni del potere economico, l'apparato per distribuire, nell'emergenza, alimenti alla nazione, lo strumento per indirizzare, nella stabilità, il progresso tecnologico e sociale delle campagne.
All'indomani della vittoria, Bonomi convoca a convegno i responsabili consortili per dibattere della strategia futura dell'organizzazione. La riforma che Antonio Segni non ha osato compiere temendo l'interferenza di una minoranza socialcomunista può essere affrontata con sicurezza: a turbare i disegni democristiani nel consiglio della Federconsorzi non siede un solo comunista. Le assise si celebrano a Fiuggi nel giugno del 1950: sono occasione di mero esercizio declamatorio. Nei mesi trascorsi dalla vittoria il possesso delle leve del comando ha convinto Bonomi che la legge appena varata non richieda alcuna modifica: ha conquistato un organismo monolitico, e un organismo monolitico, ha deciso valutando lo scacchiere politico, è il migliore baluardo economico della sua confederazione contadina.
A orientare l'opzione sono anche i primordi dell'intesa con Mizzi che segnerà il futuro dell'organismo, e dirigerà la parabola di entrambi gli uomini. Assumendo la presidenza Bonomi, ricordano i funzionari che furono vicini al direttore generale, non avrebbe celato l'intenzione di liberarsi di un coinquilino che non doveva a lui la propria investitura.
Reagendo con estrema padronanza ai fendenti del nuovo signore, e rivelando doti sottilissime di diplomazia, il ragioniere piacentino avrebbe indotto l'avversario a percepire quanto, anziché lo scontro, sarebbe stato più proficuo l'accordo. Concludendo un compromesso, il presidente della Coldiretti avrebbe disposto, alla guida della Federazione, di un uomo che ne avrebbe padroneggiato i meccanismi commerciali assicurandogli la più assoluta fedeltà: avrebbe goduto, così, i vantaggi del controllo politico senza doversi impegnare in prima persona sul terreno finanziario, su quello mercantile e su quello fiscale, tre sfere che Bonomi istintivamente rifuggiva.
Dotato dell'istinto più sagace per i problemi di schieramento, e dell'intuito più pronto per i rapporti di primato e di sudditanza, Bonomi avrebbe compreso che quanto gli offriva l'uomo che aveva cercato di spingere alle dimissioni costituiva proposta da non lasciare cadere. Dalla sua accettazione sarebbe nato un sodalizio destinato a segnare di sé la storia economica delle campagne, quella politica del Paese.
L'incontro di Fiuggi si celebra cinque lustri dopo l'assise in cui, a Montecatini, Morandi ha denunciato i pericoli che avrebbero minacciato il sistema consortile se gli uomini che lo dirigevano avessero lasciato offuscare l'ideale di libertà delle origini. Nei cinque lustri successivi, governata dalla diarchia di Bonomi e Mizzi, la Federconsorzi apparirà corazzata inaffondabile. Nel suo scafo, sotto la linea di galleggiamento, si moltiplicheranno le falle. Tenterà, invano di chiamare volontari alle pompe, al termine della diarchia, un altro convegno, a Piacenza. Sarà l'ultimo dell'epopea della Federconsorzi.
Terra e vita n. 12, 20 marzo 1993 Rivista I tempi della terra