IV. - Le passioni derivate

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Baruch Spinoza - Etica (1677)
Traduzione dal latino di Piero Martinetti (1928)
IV. - Le passioni derivate
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IV. — Le passioni derivate.


1) La gioia e la tristezza provenienti da cause esterne: l’amore e l’odio. Nelle prop. 12-26 Spinoza analizza, riconducendole alle loro forme e leggi fon­damentali, le passioni che procedono direttamente dagli oggetti esteriori.

Prop. 12. La mente si sforza di avere presenti, per quanto può, quelle cose che accrescono e favoriscono la potenza del corpo.

Prop. 13. Quando la mente ha presenti quelle cose che di­minuiscono od impediscono la potenza del corpo, essa si sforza per quanto può di rendersi presenti quelle cose che escludono la presenza delle stesse.

La mente si sforza di rendersi presenti, per quanto può, quelle cose che accrescono e favoriscono la po­tenza del corpo, perchè queste sono anche quelle che accrescono e favoriscono la potenza della mente: «la mente si sforza di rendersi presenti solo quelle cose che pongono la sua potenza di agire» (prop. 54). Quindi cerchiamo di procurarci di far sì che esistano quelle cose che hanno questa proprietà: come per contro cerchiamo di distruggere o di eliminare quelle cose che diminuiscono od ostacolano la nostra potenza di essere e di agire (prop. 28).

La gioia, accompagnata dall’idea della cosa esterna che favorisce l’essere nostro, costituisce l’amore; la tri­stezza, accompagnata dall’idea della cosa esterna che ostacola l’essere nostro, è l’odio (prop. 13, scol.; defizioni 6 e 7). L’amore e l’odio riferiti per accidente ad una cosa (v. sopra, III, D) diconsi propensio ed aversio (def. 8 e 9). L’amore e l’odio verso un oggetto A dimi­nuiscono naturalmente quando alla gioia e tristezza si [p. 86 modifica]unisce, come causa, l’idea d’un altro oggetto: il che ci spiega perchè il nostro amore e il nostro odio siano deboli per le cause necessarie (che implicano un’altra cosa come causa, ecc), e forti invece per le cause che crediamo libere: onde la violenza delle passioni tra gli uomini (prop. 48-49).

Quando noi amiamo un oggetto — ossia quando un oggetto ci è causa di gioia, tutto ciò che lo favorisce è a noi causa di gioia, ciò, che lo diminuisce, causa di tristezza: e così la gioia dell’oggetto amato è a noi causa di gioia, la sua tristezza, causa di tristezza. E ciò che è causa di gioia all’oggetto amato sarà da noi anche amato: quindi ci sforzeremo di affermarlo e promoverlo: ciò invece che è causa di dolore all’oggetto amato sarà da noi odiato: quindi ci sforzeremo di negarlo e distruggerlo. — E per contro, quando odiamo un oggetto, ossia quando un oggetto ci è causa di tristezza, tutto ciò che lo favorisce ci addolora, ciò che lo diminuisce è causa di gioia: e così la sua gioia ci è causa di dolore e il suo dolore di gioia. E ciò che gli causa gioia è da noi odiato, ciò che gli causa dolore, amato: onde ci sforzeremo di favorire il secondo, di deprimere il primo (prop. 19-26).

Il desiderio di bene, il bene che pensiamo d’una persona perchè l’amiamo è da Spinoza detto existimatio (def. 21): il male che pensiamo e desideriamo circa un oggetto odiato è detto despectus (def. 22). Il nostro partecipare alla tristezza d’un oggetto amato è detto misericordia; il nostro partecipare in senso contrario alla gioia o tristezza d’un oggetto odiato è detto invidia (def. 23). Il desiderio di far del bene a chi ci ama e di sollevarlo dal dolore è la benevolentia (def. 35; prop. 27, scol. al coroll. 3); il desiderio di far del male a chi si odia è l’ira (def. 36).

Quando alcuno ci ama e noi crediamo avergliene data giusta causa, si ha in noi il sentimento dell’orgoglio e della vanità; ma se non crediamo avergliene data causa, proveremo letizia accompagnata dalla [p. 87 modifica]rappresentazione di chi ci ama, cioè riameremo chi ci ama e cercheremo di fargli del bene: si ha la gratitudo (prop. 41, def. 34). Quando alcuno ci odia e crediamo avergliene data giusta causa, proveremo un senso di vergogna: ma, per la vanità degli uomini, ciò avviene ben di rado. Per lo più crediamo di non avergliene data giusta causa e lo ricambiamo con odio, tanto più che ce lo rappresentiamo come animato dal desiderio di farci del male. Anche noi cerchiamo allora di fargli del male: e in primo luogo quello che ha voluto fare a noi: in ciò sta la passione della vindicta (prop. 40, def. 37). Lo stesso deve dirsi se alcuno odia non noi, ma un simile che noi amiamo: anche noi odieremo ciò che è causa di tristezza nella cosa da noi amata (proposizione 45). L’amore e l’odio per chi fa del bene o del male ad un oggetto amato sono detti favor ed indignatio (def. 19-20).

Quando noi amiamo od odiamo un oggetto, cerchiamo di fargli del bene o del male: ma se da ciò prevediamo ne venga a noi un male maggiore, allora ce ne asteniamo e vogliamo ciò che non vorremmo, non vogliamo ciò che vorremmo: onde la paura (timor): che quando è eccessiva si dice pusillanimitas (prop. 39, def. 39, 41). Opposta al timore è l’audacia: chi è insolitamente audace è detto da Spinoza intrepidus (proposizione 51, scol.). Quando i due mali sono ugualmente grandi, si ha la consternatio (prop. 39, scol.; def. 42).

L’odio reciproco e l’amore reciproco si generano e si accrescono sempre. In quanto sono passioni contrarie invece fra loro si distruggono: l’odio distrugge l’amore e sarà tanto più grande, quanto più grande era stato prima l’amore. E per contro il solo mezzo di distruggere l’odio è l’amore: perchè, se alcuno risponde al nostro odio con l’amore, questo provocherà in noi un sentimento di compiacenza e un desiderio di conservarci l’amore altrui, che combatteranno il nostro odio. E se riconosceremo di non avergli dato causa di amore, l’odio si convertirà in amore: il quale sarà tanto più [p. 88 modifica]grande, quanto più grande era stato l’odio (prop. 38, 43, 44)1.

2) La gioia e la tristezza per simpatia. Nelle proposizioni 27-35 Spinoza considera le passioni che nascono dalla riflessione simpatica delle passioni altrui. Per ciò solo che noi ci rappresentiamo un essere a noi simile come affetto da gioia o dolore, anche noi siamo inclinati a provare lo stesso sentimento: la somiglianza dell’oggetto favorisce il trapasso della disposizione sentimentale nel nostro io. E quindi ancora amiamo chi causa della gioia ad un oggetto a noi simile (perchè essa si riverbera poi in noi): odiamo chi gli è causa di tristezza (prop. 27).

Prop. 27. Da ciò che ci rappresentiamo una cosa simile a noi e che non desta in noi alcuna passione, come affetta da una passione: per ciò solo anche noi siamo affetti da una passione simile.

Ma se la tristezza d’un essere a noi simile trapassa anche in noi, non dovremmo perciò odiarlo come causa del dolore nostro? No, dice Spinoza; perchè allora dovremmo procurargli sempre maggior tristezza: ciò che sarebbe causa di tristezza anche a noi. Noi cerchiamo di eliminare questa tristezza in noi con l’eliminarla negli altri: questa misericordia nascente dalla simpatia è detta da Spinoza commiseratio (prop. 27, coroll. 2 e 3; def. 18). Quando l’odio soffoca la pietà che noi dovremmo avere per simpatia verso i nostri simili, abbiamo la crudelitas: la quale può quindi aversi solo, secondo Spinoza, vincendo una secreta simpatia ed è per questo tanto più malvagia (prop. 41, scol. 2; definizione 38). Dalla tristezza per simpatia nasce il fatto che la gioia proveniente dal dolore dell’oggetto odiato non è mai senza tristezza (prop. 47). [p. 89 modifica]

Poichè la gioia degli esseri a noi simili provoca in noi gioia, noi siamo naturalmente tratti a desiderare il loro bene, ad amarli ed a cercare che la gioia sia in essi accompagnata dalla rappresentazione di noi come causa; perchè questo produce in noi, per la compiacenza, un doppio piacere. Cioè cercheremo che essi ci amino (prop. 33-34). E ci addoloreremo se dalle manifestazioni apparirà che essi non ci amano, ossia sono ingrati (prop. 42); oppure se vedremo che essi siano congiunti con pari o maggior amore verso un altro; ciò che è una limitazione dell’amore che possono nutrire per noi. In questo caso sentiremo pel rivale l’invidia: e per la cosa amata quel misto di amore e di odio che si dice gelosia (zelotypia). La tristezza e l’odio della gelosia saranno anche maggiori se si tratti d’un rivale per altre cause odiato: ciò che naturalmente avviene nell’amore sessuale per l’intima ripugnanza verso gli esseri dello stesso sesso (prop. 35).

Pel fatto della simpatia noi siamo tratti anche ad imitare le passioni ed i movimenti degli altri affine di sentirsi in accordo con loro, di piacer loro e di trovare nella loro soddisfazione una causa di gioia: questa è chiamata humanitas, quando è tenuta nei giusti limiti, ambitio quando va oltre; l’æmulatio è l’impulso, che ne procede, ad agire nello stesso senso degli altri (proposizione 27, scol.; prop. 29, scol.; def. 33, 43, 44). Colui che fa qualche cosa per imitazione simpatica procura piacere agli altri e prova piacere egli stesso di questo; tale piacere ha per causa anche il suo io stesso e dà origine a quel senso di compiacimento che vedremo nella sezione seguente. Questo è uno stimolo vivissimo per l’ambizione. Anzi, siccome colui che fa qualche cosa per ambizione è accresciuto in questo suo senso di compiacimento, se sente il consenso di molti, ed è contrastato, se ne sente l’opposizione, così l’uomo ambizioso finisce per voler provocare questo consenso indipendentemente dal piacere altrui; ossia, anzichè fare come fanno gli altri, esige che gli altri facciano a modo suo, [p. 90 modifica]si subordinino al suo volere. Questa è la perfetta ambizione (prop. 31).

Alla simpatia Spinoza riconduce anche una delle radici dell’invidia (v. sopra, I). Quando una persona gode d’un bene, noi vorremmo goderne, per simpatia, anche noi; e se il suo godimento esclude il nostro, la odiamo. Così la stessa causa fa gli uomini ad un tempo ambiziosi, misericordiosi ed invidiosi (prop. 32).

Vediamo dunque che per la disposizione di lor natura i più degli uomini sono tratti a commiserare gli infelici e a invidiare i fortunati; e il loro odio verso di questi è tanto maggiore quanto più amano le cose che si immaginano che gli altri godano. Vediamo inoltre che dalla stessa proprietà umana, che fa gli uomini misericordiosi, segue ancora che siano invidiosi ed ambiziosi. Infine, se vogliamo consultare l’esperienza, vedremo che essa già ci insegna tutte queste cose, sopratutto se volgeremo l’attenzione ai primi nostri anni. L’esperienza ci mostra infatti che i bambini, il cui corpo è continuamente come in equilibrio, ridono o piangono per ciò solo che vedono altre persone ridere o piangere: e tutto quello che vedono fare agli altri subito vogliono imitarlo e desiderano tutto quello che si immaginano che piaccia agli altri; perchè in realtà le immagini delle cose, come dicemmo, sono le stesse affezioni del corpo umano, cioè i modi secondo cui il corpo umano è affetto dalle cause esterne e da esse disposto a fare questo o quello. (Et., III, 32, scol.).

3) La gioia e la tristezza procedenti da cause interne. La gioia e la tristezza possono procedere non solo da oggetti altri da noi, ma anche dalla rappresentazione di noi stessi. Ciò avviene quando godiamo del piacere che procuriamo agli altri e ci rallegriamo di essere causa di questo piacere, sia per l’approvazione degli altri, sia perchè questa testimonia della nostra maggior perfezione (prop. 30, 53, 55). Spinoza chiama la gioia accompagnata dall’idea di sè come causa acquiescentia in se ipso (prop. 51, scol.; prop. 55, scol.; def. 25); alla quale si oppone l’humilitas (prop. 55, [p. 91 modifica]scol.; def. 26) che è la tristezza per la nostra impotenza, come pure la pœnitentia che è la tristezza proveniente da un’azione nostra ed accompagnata dall’illusione della libertà (prop. 30, scol.; def. 27). Generalmente l’uomo tende a pensare di sè più bene di quel che realmente sia, come tende a pensar bene di ciò che ama: di qui la superbia (prop. 26, scol.; def. 28). Raramente invece pensa di sè meno bene di quel che deve: ma qualche volta avviene. Allora si ha l’abiectio (definizione 29). La gloria e il pudor sono varietà della superbia e dell’abiectio, in quanto provengono indirettamente dall’esterno, dalla lode e dal biasimo; la verecundia è il timore del pudor, della vergogna (prop. 30, scol.; 39, scol.; def. 30-31).

Nella superbia ha un’altra sua radice l’invidia: perchè il godimento di noi stessi e della nostra eccellenza non è possibile se non in quanto ci distinguiamo: la presenza in altri delle doti, che noi vorremmo fossero particolari a noi, ci impedisce questo piacere: onde in noi il dolore e il desiderio di diminuirlo. Perciò si invidiano solo i proprî simili e non si invidiano le qualità più che eccellenti che superano la natura comune, come non si invidia l’altezza degli alberi e la forza dei leoni (prop. 55).

La tristezza accompagnata dall’idea della nostra debolezza si dice humilitas. La gioia che nasce dalla considerazione del nostro io, philautia o acquiescentia in se ipso. E poichè questa si ripete tutte le volte che l’uomo considera la sua virtù ossia la sua potenza d’agire, accade che ciascuno smanii di narrare le sue gesta e di ostentare le sue forze del corpo e dell’animo: ciò che rende gli uomini insopportabili gli uni agli altri. E di qui segue ancora che gli uomini sono per natura invidiosi, cioè godono della debolezza dei loro simili e s’attristano del loro valore. Tutte le volte infatti che ciascuno considera le sue azioni, egli se ne rallegra; e tanto più quanto più di perfezione esse esprimono e quanto più distintamente egli può rappresentarsele. Onde ciascuno godrà tanto più del considerare se stesso quanto più potrà considerare in sè qualche cosa che nega agli [p. 92 modifica]altri. Ma se ciò che afferma di sè appartiene all’idea generale dell’uomo o dell’animale, non se ne rallegrerà tanto; e per contro si attristerà se si rappresenterà le sue azioni come meno eccellenti in paragone di quelle degli altri; egli allora cercherà di allontanare questo dolore coll’interpretare malamente le azioni dei suoi uguali o col gonfiare le sue. Si vede pertanto che gli uomini sono proclivi all’odio ed all’invidia. A ciò conferisce la stessa educazione in quanto i genitori sono abituati ad eccitare i figli alla virtù col solo stimolo dell’onore e dell’invidia. (Et., III, 55, scol.).

4) Variazioni intellettuali delle passioni. A) Una cosa passata o futura può produrre un’impressione come una cosa presente; perchè in realtà quando produce l’impressione è presente, solo viene esclusa dal presente e posta nel passato o nell’avvenire per l’azione di altre rappresentazioni, con le quali si ordina in una serie temporale (prop. 18; 47 scol.). Ma questa determinazione temporale dà alle passioni un carattere speciale. Il ricordo d’un bene passato da una parte è fonte di contentezza (gaudium); d’altra parte, in quanto ci manca, è fonte d’un certo dolore unito col desiderio, cioè di rimpianto (desiderium) (prop. 36, def. 16, 32). Il ricordo d’un male passato ci dà l’amarezza del rimorso (conscientiæ morsus) (def. 17). La gioia per un bene futuro, ma certo, è la securitas; la tristezza per un male futuro certo è la desperatio (def. 14-15). Ma siccome il più delle volte le cose future sono incerte, non abbiamo di fronte ad esse che la speranza (spes) e la paura (metus), che sono passioni fluttuanti, in quanto l’una non è mai senza l’altra (prop. 19, scol. 2; 50, scol.; def. 12-13).

B) Un concomitante intellettuale del piacere e del dolore è anche la meraviglia (admiratio), che per Cartesio è una delle sei passioni fondamentali; per Spinoza è un fatto intellettuale, cioè l’arrestarsi della mente in un oggetto nuovo, inusato che fissa quasi violentemente in sè l’attenzione (prop. 52, defin. 4). [p. 93 modifica]Ma, unito alle passioni, dà origine ad altre forme di passione.

Nello scolio delle prop. 16, 18, abbiamo mostrato per quale causa la mente passa subito dalla considerazione d’una cosa al pensiero dell’altra e cioè perchè le immagini delle cose sono fra loro concatenate ed ordinate in modo che l’una segue l’altra: ora ciò non avviene quando l’immagine della cosa è nuova, perchè la mente è ritenuta nella sua considerazione finchè non venga determinata da altre cause a passare ad altri pensieri. In sè considerata pertanto, la rappresentazione d’una cosa nuova è della stessa natura delle altre: perciò io non metto la meraviglia nel numero delle passioni, nè vedo motivo di farlo in quanto questo arresto della mente non viene da nessuna causa positiva che allontani la mente dalle altre cose, ma solo da ciò che manca una causa, la quale faccia passare la mente dalla considerazione d’una cosa sola ad altri pensieri. Perciò io riconosco solo tre passioni primarie e cioè la gioia, la tristezza, il desiderio. (Et., III, Def. 4, expl.).

La meraviglia unita all’estimazione delle qualità eccellenti nell’uomo diventa venerazione (veneratio); e se vi si aggiunge anche l’amore, diventa devozione (devotio). La paura e l’odio diventano, unite alla meraviglia, orrore (consternatio).

Alla meraviglia si oppone il disprezzo (contemptus), che si ha quando constatiamo l’assenza di ciò che, se fosse presente, desterebbe in noi meraviglia, venerazione, ecc.; vi è nell’oggetto qualche cosa che per associazione richiama ciò che sarebbe da ammirare, ma che perciò appunto risalta tanto più come assente. Al disprezzo stanno, come alla meraviglia la venerazione e la devozione, la dedignatio e l’irrisio; la quale è anche una certa gioia procedente dalla rappresentazione delle nostre superiorità.

5) Gli stati attivi della mente. Questi stati attivi non possono essere che il desiderio e la gioia. La mente gioisce quando possiede la perfezione, cioè la conoscenza adequata: la gioia, come passione, accompagna il [p. 94 modifica]passaggio ad una maggior perfezione; ma anche il possesso della perfezione è accompagnato, come in Dio (cfr. Et., V, 17 e 36 scol.), da una gioia sempre uguale che è beatitudine. Perciò alla mente in quanto agisce, ossia è perfetta, ed afferma questa sua perfezione, possiamo riferire gli stati affettivi del desiderio e della gioia (prop. 58); ma nessuno degli stati affettivi della tristezza (prop. 59). La virtù attiva che si oppone alle passioni è la forza (fortitudo), che Spinoza divide in intrepiditas e generositas. La prima è il desiderio della vita razionale; la seconda è il desiderio di aiutare ed amare gli altri in conformità della ragione (prop. 59, scol.). Questo accenno ci introduce al quarto libro nel quale Spinoza traccia all’uomo la via che lo conduce, attraverso la servitù, alla liberazione.




Note

  1. Così anche nel Dhammapadam, I, 3 (trad. Neumann, Leipzig, 1897): «Non è col furore dell’odio che il furore dell’odio si ammansa: soltanto l’assenza dell’odio ammansa il furore dell’odio. Questa è una leggo eterna».