El libro dell'amore/Oratione VI/Capitolo VII

Oratione VI - Capitolo VII

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Del nascimento d’Amore.

Ma già è tempo di ritornare alla nostra Diotima, con ciò sia dunque che costei dicessi, per le cagione che noi abbiamo decte, Amore essere nel numero de’ dimoni, la sua origine in questo modo dimostrò a Socrate: «essendo a convito nel natale di Venere, Poro, figliuolo di Consiglio, ebbro, ché aveva beuto nectare, si congiunse con Penia nell’orto di Giove, della quale coniunctione nacque Amore.» «Nel natale di Venere», ciò è quando la mente dell’angelo e l’anima del mondo, le quali noi per la ragione decta chiamiamo Venere, nascevano dalla somma maestà di Dio, gl’iddii erano a convito, cioè Cielo, Saturno e Giove si pascevano già de’ proprii loro beni.

Però che quando la intelligentia nell’angelo e la virtù del generare nell’anima del mondo, le quali propriamente noi chiamiamo due Veneri, venivano ad luce, già era quel sommo iddio el quale e’ chiamano Cielo, era ancora l’essentia e la vita nell’angelo, le quali noi chiamiamo Saturno e Giove, e similmente era nell’anima del mondo la cognitione delle cose superne e l’agitatione de’ corpi celesti, e quali ancora chiamiamo Saturno e Giove. «Poro» e «Penia» significano abbondanza e povertà. Poro figliuolo di Consiglio è la scintilla del sommo Iddio; certamente Iddio si chiama Consiglio, e fonte di consiglio, perché è verità e bontà di tutte le cose, per lo splendore del quale ogni consiglio diventa vero, ad conseguitare la bontà del quale si dirizza ogni consiglio. «L’orto di Giove» s’intende la fecundità dell’angelica vita, nella quale quando descende Poro, cioè el razzo di Dio, congiunto con Penia, cioè congiunto con la povertà che prima era nello angelo, crea l’Amore. L’angelo imprima per esso iddio è e vive; in quanto ad queste due cose, essentia e vita, si chiama Saturno e Giove; ha ancora la potentia dello intendere, la quale, secondo el nostro giudicio, si chiama Venere. Questa tale potentia, se da Dio non è illuminata, è per sua natura informe e obscura, sì come è la virtù dell’occhio innanzi che a·llui venga el lume del sole. Questa obscurità crediamo che sia Penia, quasi povertà e mancamento di lume. Ma quella virtù dello intendere, per uno suo certo instincto naturale voltatasi verso el Padre suo, da·llui piglia el razzo divino, che è Poro e abbondantia, nel quale non altrimenti che in uno certo seme s’inchiuggono le cagioni di tutte le cose; per le fiamme di questo razzo s’accende quel naturale instincto. Questo incendio e questo ardore, che nasce della obscurità di prima e della scintilla che vi sopraggiugne, è l’Amore nato di povertà e di ricchezza. «Nell’orto di Giove», ciò è generato sotto l’ombra della vita, con ciò sia che subito dopo el vigore della vita gli nasce ardentissimo desiderio d’intendere. Ma perché inducono eglino Poro essere ebbro di nectare? Perché trabocca per la rugiada della vivacità divina. Ma perché è l’Amore in parte ricco e in parte povero? Perché noi non usiamo desiderare quelle cose le quali interamente sono in nostra possessione, né quelle ancora delle quali noi al tutto manchiamo. E veduto che ciascuno cerca quella cosa che gli manca, colui che interamente essa cosa possiede a che proposito cercherebbe più oltre? E dato che nessuno desideri quelle cose delle quali egli non ha alcuna cognitione, è necessario che noi abbiamo in qualche modo notitia di quella cosa che noi amiamo. Né anche è abastanza avere qualche notitia, però che molte cose che ci sono note sogliamo avere in odio, ma bisogna ancora che noi stimiamo quella doverci essere cosa utile e gioconda. Né anche pare che questo c’induca a una grande benivolentia, se noi prima non giudichiamo facilmente potere conseguitare quello che noi pensavamo essere giocondo. Qualunque adunque ama qualche cosa, quella interamente certo non possiede, nientedimeno la conosce con la cogitatione dell’animo e quella giudica gioconda, e ha speranza di potere conseguitarla. Questa cognitione, giudicio, speranza è quasi una presente anticipatione del bene assente, imperò che non desidererebbe se essa cosa non gli piacessi, né gli piacerebbe se di lei non avesse qualche saggio. Considerato adunque che gli amanti abbino in parte quel ch’e’ desiderano e in parte no, non sanza proposito si dice l’amore essere mixto d’una certa povertà e ricchezza. Per questa cagione quella superna Venere, accesa per essa prima gustatione del razzo divino, e per amore transportata alla intera plenitudine di tutto el lume, per questo isforzo accostandosi ella più efficacemente al Padre suo, subito risplende sommamente pe ’l plenissimo splendore di quello. E quelle ragioni di tutte le cose, le quali prima erano in quel razzo che noi chiamiamo Poro confuse e implicate, già in quella potentia di Venere accostandosi, più chiare e più distincte rilucono. E quella proportione quasi che ha l’agnolo a·Ddio, ha ancora l’anima del mondo all’angelo e a·Ddio, perché questa, riflectandosi alle cose superiori, similmente da quelle ricevendo el razzo s’accende, e accendendosi genera l’amore mixto d’abbondanza e carestia. Di qui, adornata della forma di tutte le cose, allo exemplo di quelle muove e cieli, e con la sua potentia di generare genera simili forme a quelle nella materia degli elementi. E qui di nuovo veggiamo ancora due Veneri: l’una è la forza di questa anima di conoscere le cose superiori, l’altra è la forza sua di procreare le cose inferiori. La prima non è propria dell’anima ma è una imitatione della contemplatione angelica, la seconda è proprio dell’anima, e però qualunque volta noi pognamo una Venere nell’anima intendiamo la sua forza naturale, la quale è sua propria Venere, e quando ve ne pognamo due intendiamo che l’una sia comune etiandio all’angelo, e l’altra sia proprio dell’anima. Sieno adunque due Venere nell’anima, la prima celeste, la seconda vulgare, amendua abbino l’amore: la celeste abbi l’amore a cogitare la divina bellezza, la vulgare abbi l’amore a generare la bellezza medesima nella materia del mondo, perché quale ornamento quella vede tale questa vuole, secondo el suo potere, dare alla macchine del mondo. Anzi l’una e l’altra è trasportata a generare la bellezza, ma ciascuna nel modo suo: la celeste Venere si sforza di ripignere in sé medesima, con la intelligentia sua, la expressa similitudine delle cose superiori; la volgare si sforza nella mondana materia parturire la bellezza delle cose divine, che è in lei conceputa per l’abbondanza de’ semi divini. El primo amore chiamiamo alcuna volta iddio, perché egli si dirizza alle substanze divine, ma el più delle volte lo chiamiamo demonio, perché gli è in mezzo tra la povertà e l’abbondanza. El secondo amore chiamiamo sempre demonio perché e’ pare ch’egli abbia un certo affecto inverso el corpo, col quale egli è inclinevole inverso la provincia inferiore del mondo, e questo affecto è alieno da Dio e conveniente alla natura de’ demoni.